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Cassazione penale sez. VI, 02/02/2021, n.16786

Massima

È configurabile il reato di peculato a carico del notaio che abbia trattenuto per sé somme ricevute dai clienti destinate agli adempimenti fiscali collegati agli atti da lui stipulati, trattandosi di somme da lui possedute per ragioni d’ufficio. Deve peraltro escludersi che il versamento in ritardo valga di per sé, automaticamente, a configurare il reato, giacché l’elemento fondante di questo è l’«interversione del possesso», che si realizza allorquando l’agente pubblico compia un atto di dominio sulla cosa, con la volontà espressa o implicita di tenere questa come propria:

Supporto alla lettura

Si tratta di un reato proprio, potendo essere commesso da un soggetto che riveste la quali fica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio. Presupposto del reato è il possesso o la disponibilità di beni mobili altrui per ragione del proprio ufficio o servizio. Per possesso la dottrina è concorde nel ritenerlo quale potere di fatto sul bene, direttamente collegato ai poteri e ai doveri funzionali dell’incarico ricoperto. La previsione anche della disponibilità del bene rinvia alla possibilità di disporre della cosa a prescindere dalla materiale detenzione della stessa. Anche la mera disponibilità giuridica è idonea ad integrare, sussistenti gli altri elementi, il reato in esame. Sia il possesso che la detenzione devono trovare la loro ragione nell’ufficio o nel servizio svolto dal soggetto pubblico. Si postula, dunque, che l’agente pubblico, in relazione al bene, sia titolare di poteri e doveri nel momento in cui realizza la condotta tipica. Il peculato è reato plurioffensivo, nel senso che ad essere lesi dalla condotta sono sia il regolare e buon andamento della P.A. che gli interessi patrimoniali di quest’ultima e dei privati, pur incentrandosi il disvalore essenziale della condotta nell’abuso delle facoltà connesse alla qualifica pubblica rivestita in ordine alla destinazione di risorse di cui si dispone per ragione del proprio ufficio o servizio. L’elemento psicologico è rappresentato dal dolo generico, consistente nella coscienza e nella volontà dell’appropriazione. Il reato si consuma nel momento in cui ha luogo l’appropriazione dell’oggetto materiale altrui da parte dell’agente, la quale si realizza con una condotta incompatibile con il titolo per cui si possiede, a prescindere dal verificarsi di un danno patrimoniale, trattandosi di condotta comunque lesiva dell’ulteriore interesse tutelato dall’art. 314 c.p., che si identifica nella legalità, imparzialità e buon andamento della P.A. La seconda parte dell’art 314 cp ha ad oggetto il peculato d’uso. A differenza della forma che abbiamo definito poc’anzi e che consiste nella appropriazione definitiva di un bene, il peculato d uso ha ad oggetto la condotta del Pubblico ufficiale che si impossessa del denaro o della cosa per farne un uso momentaneo e la restituisca immediatamente.
Si tratta per questo motivo di un reato meno grave, punito, come vedremo, con una pena decisamente meno severa.

Ambito oggettivo di applicazione

  1. C.F., per il tramite dei propri difensori, impugna la sentenza della Corte di appello di Trieste del 14 maggio 2019, che ha confermato la condanna inflittagli dal Tribunale di Udine l’8 novembre 2016, per i delitti di falso ideologico e peculato.

Gli si addebita, in sintesi, di essersi appropriato, in numerosi casi, nella sua qualità di notaio, delle somme consegnategli dai clienti per l’assolvimento degli obblighi tributari collegati agli atti da lui rogati o comunque compiuti, non versandole alle competenti agenzie pubbliche (capi 2 e 6 dell’imputazione), oppure versandole in notevole ritardo (capo 3) o, ancora, omettendo di restituire ai clienti le somme loro richieste in eccedenza rispetto all’ammontare del tributo dovuto (capi 4 e 5).

Gli si contesta, inoltre, di aver falsificato il repertorio, annotandovi mendacemente le corrispondenti somme come pagate.

  1. Il ricorso, in distinti motivi, lamenta violazione di legge e vizi di motivazione, in relazione a ciascuna delle sei imputazioni.

2.1. Contesta, anzitutto, la configurabilità dei falsi ideologici di cui al capo 1), evidenziando che, nel repertorio cartaceo, al quale soltanto va riconosciuta la natura di atto pubblico, le annotazioni di pagamento non sono state mai apposte, neppure per gli atti per i quali i versamenti sono stati regolarmente effettuati. La sentenza avrebbe erroneamente valorizzato, invece, esclusivamente le annotazioni contenute nel repertorio informatico, peraltro non documentate ma veicolate nel processo soltanto attraverso la relazione del consulente tecnico del Pubblico ministero, non considerando che la relativa tenuta, all’epoca, era soltanto facoltativa e che, per altro verso, quelle annotazioni avvenivano in modo automatico, attraverso il software in uso nello studio e gestito dalle collaboratrici.

2.2. Con riferimento al peculato di cui al capo 2), la sentenza impugnata avrebbe erroneamente ritenuto sussistente il dolo, poichè – come accertato attraverso le testimonianze della sua segretaria e di un funzionario dell’Ufficio del registro – il ricorrente, nel caso d’incapienza del proprio conto bancario, s’impegnava con i funzionari del predetto ufficio a provvedere ai versamenti a seguito dell’avviso di cui al D.Lgs. n. 463 del 1997, art. 3-ter.

2.3. Riguardo al peculato rubricato al capo 3) e relativo al mancato versamento dell’imposta sostitutiva di cui al L. n. 266 del 2005, art. 1, comma 496, riscossa dai suoi clienti ma da lui non versata all’atto della registrazione, come invece avrebbe dovuto, bensì circa tre mesi dopo, l’imputato si difende, anzitutto, adducendo di non aver agito nè come sostituto nè come responsabile d’imposta, bensì quale mero mandatario del cliente, con un rapporto assimilabile alla delegazione di pagamento.

In ogni caso, poichè il ritardato versamento è disciplinato dal D.Lgs. n. 463 del 1997, art. 3-ter, il quale punisce il mancato rispetto dei termini ivi previsti con una sanzione pecuniaria di tipo amministrativo, oltre agli interessi, nella fattispecie in esame dovrebbe operare il principio di specialità di cui alla L. n. 689 del 1981, art. 9, con conseguente applicazione della sola sanzione amministrativa.

2.4. Relativamente ai fatti contestati ai capi 4) e 5) dell’imputazione, in cui il peculato si sarebbe realizzato attraverso la mancata restituzione ai clienti delle somme fattesi consegnare in eccedenza rispetto a quelle da costoro dovute a titolo d’imposte, il ricorrente contesta la configurabilità del reato, in ragione del fatto che dette somme non costituivano pecunia publica, in quanto non dovute al Fisco.

Deduce, inoltre, in via subordinata, che, qualora si volesse attribuire alle stesse natura pubblica, per il collegamento comunque esistente con l’obbligazione tributaria, tali reati dovrebbero ritenersi assorbiti in quello di cui al capo 2), realizzatosi con il mancato versamento delle medesime somme alle relative agenzie fiscali.

Con particolare riferimento, poi, al delitto rubricato al capo 4), la difesa ricorrente lamenta il difetto di dolo, ciò evincendosi dal rinvenimento nella pratica di un post-it, con l’indicazione della necessità di restituzione al cliente delle somme eccedenti.

Mentre, per quello di cui al capo 5), il ricorso rappresenta l’esistenza di una prassi, seguita nel caso di specie, per cui il notaio, laddove si tratti della stipulazione di atti complessi, suole farsi rilasciare dal cliente una somma in deposito fiduciario, calcolata sulla base della possibile imposizione fiscale maggiore rispetto alla somma autoliquidata, al fine di far fronte ad eventuali richieste d’imposta suppletiva da parte dell’amministrazione finanziaria, che vengono rivolte al notaio quale sostituto d’imposta.

2.5. Per il peculato contestato al capo 6), infine, che si sarebbe realizzato in ragione del mancato versamento delle somme dovute a titolo d’imposta per un’iscrizione ipotecaria, sostiene il ricorrente che l’obbligo di versamento sorge soltanto al momento in cui il notaio avanza la richiesta d’iscrizione all’Agenzia del territorio; e, poichè, per la presentazione della stessa, non è previsto un termine e, nello specifico, essa non è stata da lui mai presentata, il reato non sarebbe configurabile, in quanto le relative somme consegnategli dal cliente non hanno mai perso la loro natura privata e non sono mai divenute pecunia publica, potendo perciò ritenersi integrata, al più, un’appropriazione indebita.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

  1. La prima doglianza, in tema di falso ideologico, non ha fondamento.

Non lo ha in fatto, perchè la sentenza afferma che due mendaci annotazioni a mano risultavano apposte sul repertorio cartaceo ed il ricorso non contesta specificamente il dato.

Ma soprattutto non lo ha in diritto.

In primo luogo, perchè il concetto di “atto pubblico”, agli effetti della tutela penale, è più ampio di quello delineato dall’art. 2699 c.c., rientrandovi non soltanto i documenti redatti dal notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato e destinati ad avere pubblica fede, ma anche quelli formati da quegli stessi soggetti o da altri pubblici ufficiali o pubblici impiegati, nell’esercizio delle loro funzioni istituzionali, per uno scopo diverso da quello di conferire loro pubblica fede, purchè aventi l’attitudine ad assumere rilevanza giuridica e/o valore probatorio anche solo interni alla pubblica amministrazione (Sez. 5, n. 3542 del 17/12/2018, dep. 2019, Esposito, Rv. 275415; Sez. 5, n. 9358 del 24/04/1998, Tisato, Rv. 211440).

1.1. La tesi difensiva non ha fondamento, per altro verso, perchè, ai fini che qui interessano, il repertorio notarile informatico deve intendersi equiparato a quello cartaceo e, come quest’ultimo, avente natura di atto pubblico.

Non sfugge al Collegio l’esistenza di una linea interpretativa, nelle sezioni civili di questa Corte, che circoscrive la nozione di repertorio al solo registro cartaceo tenuto dal notaio, in ragione della necessità della preventiva vidimazione (Sez. 2 civ., n. 12740 del 19/06/2015, Rv. 635708; Sez. 3 civ., n. 3660 del 20/02/2006, Rv. 591193).

Una tale lettura, però, non persuade, perchè s’infrange contro la risoluta opzione del legislatore verso la completa equiparazione del documento informatico a quello cartaceo, anche nella specifica materia in questione, avviata già con la c.d. “legge Bassanini” (n. 59 del 15 marzo 1997). Tale testo normativo, nell’ottica di una generale riforma della pubblica amministrazione, prevedeva, infatti, all’art. 15, comma 2, che “gli atti, dati e documenti formati dalla pubblica amministrazione e dai privati con strumenti informatici o telematici (…) nonchè la loro archiviazione e trasmissione con strumenti informatici, sono validi e rilevanti a tutti gli effetti di legge”. E il successivo regolamento attuativo menzionava specificamente “i libri, i repertori e le scritture, di cui sia obbligatoria la tenuta” tra i documenti che potevano essere formati e conservati su supporti informatici, secondo le disposizioni e le specifiche della normativa secondaria di settore (D.P.R. 10 novembre 1997, n. 513, art. 15).

E’ stata, dunque, la volta del D.P.R. 20 dicembre 2000, n. 445, contenente il Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa, il quale, all’art. 8, ha ribadito, in via generale, che “il documento informatico, da chiunque formato, la registrazione su supporto informatico e la trasmissione con strumenti telematici, sono validi e rilevanti a tutti gli effetti di legge, se conformi alle disposizioni del presente testo unico”; e quindi ha specificato, al successivo art. 13, per quello che più interessa in questa sede, che “i libri, i repertori e le scritture, ivi compresi quelli previsti dalla legge sull’ordinamento del notariato e degli archivi notarili, di cui sia obbligatoria la tenuta possono essere formati e conservati su supporti informatici”, conformi alle disposizioni del medesimo testo unico, demandando ad una successiva normativa secondaria l’individuazione delle specifiche tecniche. Norma, quest’ultima, replicata dall’art. 39 del codice dell’amministrazione digitale, varato con il D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82.

Tale percorso normativo è, quindi, approdato al D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 110, che ha inserito nella legge notarile (L. 16 febbraio 1913, n. 89) l’art. 66-bis, secondo cui “tutti i repertori e i registri dei quali è obbligatoria la tenuta per il notaio sono formati e conservati su supporto informatico, nel rispetto dei principi di cui al D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82” (comma 1); nonchè l’art. 68-bis, che, demandando alla successiva disciplina secondaria di dettaglio la determinazione delle regole tecniche per il trasferimento agli archivi notarili degli atti, dei registri e dei repertori formati su supporto informatico e per la loro conservazione (comma 1, lett. t), dà indirettamente conferma della necessità che gli stessi, così come accadeva per i repertori cartacei, siano trasmessi a tali archivi.

Emerge all’evidenza, dunque, nelle intenzioni del legislatore, la perfetta simmetria del repertorio notarile informatico rispetto a quello tradizionale: sicchè non v’è alcuna ragione per non attribuire al primo la medesima valenza dimostrativa e la medesima natura del secondo. L’uno e l’altro, dunque, sono redatti dal notaio e, nel rispetto dei relativi adempimenti formali, fanno pubblica fede della loro provenienza e del loro contenuto, secondo le norme generali degli artt. 2699 e 2700 c.c..

Può, pertanto, affermarsi che, “agli effetti penali, rientra nella nozione di repertorio, ai sensi della legge notarile, anche il relativo registro regolarmente formato e conservato in modalità informatica, il quale, al pari di quello cartaceo, costituisce atto pubblico”.

1.2. Tanto precisato, nessun rilievo può attribuirsi alle ulteriori censure difensive legate al caso concreto.

La circostanza per cui detto registro informatico non sia stato acquisito agli atti, sì che le sue risultanze sono entrate a far parte del compendio istruttorio soltanto attraverso la consulenza tecnica del pubblico ministero, è questione che attiene alla valutazione della prova, sottratta, come tale, al sindacato di legittimità.

Così come non può valere ad esonerare da responsabilità l’imputato il sol fatto che la compilazione di tale documento informatico fosse in concreto devoluta ai collaboratori di studio ed effettuata per mezzo di un software, trattandosi pur sempre di atto tipicamente di competenza del notaio, da lui giuridicamente proveniente e sulla cui redazione, se materialmente da lui affidata ad altri, egli ha comunque un dovere di vigilanza.

Infine, neppure rileva la circostanza per cui, all’epoca dei fatti, la modalità informatica di tenuta del repertorio non fosse obbligatoria: una volta implementato, infatti, il registro informatico costituiva documento di identica valenza e natura rispetto a quello cartaceo, per il quale gravavano sul notaio, dunque, i medesimi obblighi di veridicità.

Tale motivo di ricorso, in conclusione, dev’essere respinto.

  1. Passando a trattare gli addebiti di peculato, si rende opportuna una preliminare precisazione di ordine generale, relativa ad un tema devoluto o, comunque, lambito dal ricorso in relazione a più d’uno di quegli episodi.

Si tratta, infatti, in tutte le vicende oggetto di processo, di condotte compiute dall’imputato su somme corrispostegli da suoi clienti per provvedere agli adempimenti fiscali correlati ad atti da lui stipulati. La difesa sostiene, quanto meno nelle ipotesi contestate ai capi da 3) a 6) dell’imputazione, che non si trattasse di pecunia publica, talchè non sarebbe configurabile un peculato, ma, semmai, altra fattispecie delittuosa.

Va detto che la qualità di pubblico ufficiale del notaio non vale a conferire natura pubblica a qualsiasi somma di cui abbia la disponibilità in ragione della sua professione, potendo egli svolgere anche attività di tipo privatistico. Secondo la legge notarile del 1913, infatti, “i notari sono ufficiali pubblici istituiti per ricevere gli atti tra vivi e di ultima volontà (ed) attribuire loro pubblica fede”, oltre che per svolgere le altre funzioni tipicamente pubblicistiche previste dall’art. 1 di quel testo normativo; ma il successivo art. 2, comma 2, riconosce come, tra le attività consentite a tale professionista, ve ne siano anche altre, alle quali non necessariamente va attribuita natura pubblica.

Giova tenere a mente, tuttavia, che, in tema di peculato, il possesso qualificato dalla ragione dell’ufficio o del servizio non è solo quello che rientra nella competenza funzionale specifica del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio, ma anche quello che si basa su un rapporto che consenta al soggetto comunque di inserirsi nel maneggio o nella disponibilità della cosa o del denaro altrui, rinvenendo nella pubblica funzione o nel servizio anche la sola occasione per un tale comportamento (Sez. 6, n. 33254 del 19/05/2016, Caruso, Rv. 267525; Sez. 6, n. 18015 del 24/02/2015, Ambrosio, Rv. 263278; Sez. 6, n. 12368 del 17/10/2012, dep. 2013, Medugno, Rv. 255998).

Rispetto alle somme destinate agli adempimenti fiscali collegati agli atti da lui stipulati, non vi può esser dubbio, allora, che si tratti di cose da lui possedute per ragione dell’ufficio: basti porre mente, in proposito, all’art. 28, comma 3, della legge notarile, che dà facoltà al notaio finanche di “ricusare il suo ministero, se le parti non depositino presso di lui l’importo delle tasse” e degli altri oneri collegati alla stipulazione dell’atto.

Del resto, della stretta connessione funzionale esistente tra la disponibilità di tali somme da parte del notaio e l’esercizio della sua peculiare funzione rogante, si rinviene ulteriore conferma nelle specifiche discipline regolatrici dei tributi cui si riferiscono le condotte addebitate all’imputato.

Il D.P.R. n. 131 del 1986, contenente il Testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro, annovera il notaio tra i soggetti obbligati a richiedere la registrazione dell’atto ed a provvedere al pagamento dell’imposta (art. 10, comma 1, lett. b, e art. 57, comma 1).

In materia di imposta sostitutiva sulle plusvalenze da cessioni a titolo oneroso di immobili, cui si riferisce il capo 3) dell’imputazione, la L. 23 dicembre 2005, n. 266 (art. 1, comma 496), fa carico al notaio di provvedere all’applicazione ed al versamento dell’imposta, ricevendo la provvista dal cedente.

E così, pure, il Testo unico in materia di imposte ipotecaria e catastale, di cui al D.Lgs. 31 ottobre 1990, n. 347, all’art. 11, indica, tra i soggetti obbligati al pagamento, i pubblici ufficiali obbligati al pagamento dell’imposta di registro, relativamente agli atti ai quali si riferisce la formalità.

L’immediato nesso funzionale tra la disponibilità di tal genere di somme e la specifica attività notarile rogante finisce, allora, per rendere irrilevante, ai fini della configurabilità del peculato, la precisa determinazione della qualifica del notaio rispetto ad esse, se cioè egli debba considerarsi agente contabile, sostituto d’imposta, obbligato o co-obbligato al pagamento del tributo: questione, peraltro, di non univoca soluzione, in ragione della non uniformità delle discipline regolatrici dei diversi prelievi fiscali.

  1. Tanto precisato in via generale, il secondo motivo di ricorso, con il quale il ricorrente sostiene di non aver agito con dolo, sol perchè, in caso d’insufficienza di fondi nel conto bancario dedicato, egli s’impegnava con i funzionari erariali a pagare alla ricezione dell’avviso di cui al D.Lgs. n. 463 del 1997, art. 3-ter e deduce altresì che la sentenza impugnata abbia omesso di motivare sul punto, non ha il benchè minimo fondamento.

Un siffatto “impegno”, a prescindere dalla dubbia vincolatività del medesimo, non fa venir meno la pregressa, consapevole e volontaria destinazione delle somme ricevute dalla clientela a scopi diversi da quello per il quale gli erano state consegnate. L’agente che riscuote denaro pubblico non può utilizzarlo per fini propri, assumendo l’obbligo di erogare all’amministrazione l’equivalente o scambiarlo con titoli di credito di sua pertinenza: in tali casi, infatti, non ha influenza l’intenzione di restituire le somme nè la restituzione del tantundem, in quanto la lesione del bene giuridico si è già verificata con l’appropriazione (Sez. U, n. 38691 del 25/06/2009, Caruso, Rv. 244190).

E la Corte di appello ha espressamente e compiutamente risposto al relativo motivo di gravame, correttamente evidenziando come, ai fini della sussistenza del reato, sia sufficiente la diversa destinazione di quelle somme, incompatibile con le ragioni giustificative della disponibilità, nonchè rilevando come, nello specifico, vi fosse in atti la dimostrazione dell’utilizzo delle stesse, da parte dell’imputato, per scopi esclusivamente personali.

E, a tali osservazioni, il ricorso nulla replica.

  1. E’ ellittico, invece, e perciò merita censura, il ragionamento con il quale la sentenza impugnata giustifica la condanna per il peculato di cui al capo 3) della rubrica, relativo al tardivo versamento dell’imposta sostitutiva di cui alla L. n. 266 del 2005.

Secondo la Corte distrettuale, infatti, il pagamento tardivo di un’imposta da parte del notaio varrebbe di per sè a configurare il reato.

Sebbene una tale lettura trovi riscontro in alcuni precedenti di legittimità, puntualmente citati in sentenza (Sez. 6, n. 55753 del 13/11/2018, Puzone, Rv. 274728; Sez. 6, n. 20132 del 11/03/2015, Varchetta, Rv. 263547), ritiene il Collegio che essa non possa essere condivisa, rischiando di aprire il varco a non accettabili semplificazioni probatorie. Tali pronunce, infatti, in estrema sintesi, si fondano sull’assunto per cui, se il versamento da parte del notaio di una somma da lui dovuta quale sostituto o responsabile d’imposta, e per tal ragione corrispostagli dal terzo debitore, non avviene entro il termine normativamente stabilito o, comunque, entro un ragionevole ritardo, ciò comporta un’indebita sottrazione di dette somme all’Erario e, dunque, una inversione del titolo del possesso in senso dominicale da parte del notaio possessore.

In realtà, l’elemento fondamentale per la sussistenza del peculato è, giust’appunto, l’interversione del possesso, che si realizza allorquando l’agente pubblico compia un atto di dominio sulla cosa, con la volontà espressa o implicita di tenere questa come propria: volontà, quest’ultima, che però, in rerum natura, non sempre e non necessariamente può essere ricollegata alla mancata osservanza di un termine, ben potendo tale situazione essere compatibile anche con l’assenza, da parte dell’agente, dell’intenzione di comportarsi quale proprietario della cosa posseduta, quand’anche si tratti di quella fungibile per eccellenza, qual è il danaro.

Ritiene, perciò, il Collegio che si debba dar seguito al principio – anch’esso di recente affermato da questa Corte – secondo cui, in tema di peculato, l’appropriazione del denaro riscosso per conto di un ente pubblico si realizza non già per effetto del mero ritardo nel versamento, bensì allorquando si realizzi la certa interversione del titolo del possesso (Sez. 6, n. 5233 del 19/11/2019, dep. 2020, Boggione, Rv. 278708).

Non di meno, nel singolo caso specifico, il mancato versamento di una somma alla prevista scadenza ben può costituire indizio del sopravvenuto atteggiamento psicologico uti dominus dell’agente verso la stessa e, secondo le ordinarie regole sul ragionamento probatorio di cui all’art. 192 c.p.p., condurre ad un giudizio di sussistenza del reato: ma si tratta di questione da risolvere sul piano della prova, evitando di ricorrere a scivolose semplificazioni formaliste.

E’ questo il compito cui dev’essere chiamata la Corte di appello, alla quale debbono perciò essere restituiti gli atti sul punto, affinchè spieghi compiutamente se e per quale ragione debba ritenersi che il ritardo nel versamento delle somme di cui al capo 3) da parte dell’imputato sia stato dovuto all’utilizzo delle stesse per ragioni personali o, comunque, diverse da quella per la quale le aveva ricevute.

Nella delineata prospettiva di irrilevanza, di per sè, ai fini della ravvisabilità del peculato, del mancato rispetto del termine previsto per il versamento di tali imposte, perde di rilievo anche la questione – dedotta dalla difesa – della specialità, e quindi dell’esclusiva applicazione, della disciplina sanzionatoria amministrativa prevista dal D.Lgs. n. 463 del 1997, art. 3-ter.

Per questo capo, in conclusione, la sentenza dev’essere annullata con rinvio.

  1. Ad analogo esito, seppur per diversa ragione, deve pervenirsi con riferimento ai fatti di cui ai capi 4) e 5) dell’imputazione, oggetto dei corrispondenti motivi di ricorso.

In entrambi i casi, si tratta dell’omessa restituzione al cliente, da parte del notaio, delle maggiori somme fattesi consegnare rispetto all’ammontare dell’imposta da versare e da lui autoliquidata; e, sia per l’uno che per l’altro episodio, la Corte territoriale ha respinto la tesi difensiva dell’assenza di dolo: nell’un caso, in ragione della ritenuta irrilevanza dell’apposizione sul relativo fascicolo del post-it con l’annotazione “da restituire”, dal momento che comunque nulla è stato restituito; nell’altro, poichè non sarebbe stata dimostrata l’esistenza di un accordo tra il notaio e le parti dell’atto per la corresponsione di una maggior somma, per l’eventualità che gli uffici finanziari determinassero in misura maggiore rispetto a quella autoliquidata l’ammontare dell’imposta effettivamente dovuta, chiedendone l’integrazione al notaio.

Con riferimento ad ambedue gli episodi, tuttavia, la sentenza ha del tutto omesso di esaminare un profilo invece decisivo ai fini dell’esatta qualificazione giuridica del fatto: quello delle modalità attraverso le quali il notaio si è fatto consegnare tali somme e, dunque, ne è venuto in possesso.

Per giurisprudenza di legittimità consolidata, infatti, se l’agente pubblico, attraverso la propria condotta consapevolmente mendace, ottenga l’indebita erogazione del denaro da parte del soggetto cui compete l’adozione dell’atto dispositivo, non si versa in un’ipotesi di peculato, bensì di truffa aggravata dalla violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione.

Dirimente, a tal fine, è il rapporto tra possesso, da una parte, ed artifizi e raggiri, dall’altra: nel senso che, qualora questi ultimi siano finalizzati a dissimulare l’illecita appropriazione, da parte dell’agente pubblico, del denaro o della res di cui già aveva la legittima disponibilità per ragione del suo ufficio o servizio, ricorrerà lo schema del peculato; laddove, invece, la condotta fraudolenta rappresenti lo strumento che ha permesso a costui di conseguire il possesso di tali cose altrui, sarà integrato il paradigma della truffa aggravata (tra molte altre, Sez. 6, n. 13559 del 11/07/2019, dep. 2020, Guercio, Rv. 278888; Sez. 6, n. 46799 del 20/06/2018, Pieretti, Rv. 274282; Sez. 6, n. 10569 del 05/12/2017, dep. 2018, Alfieri, Rv. 273395).

Tale momento essenziale per la correttezza giuridica della decisione è rimasto, dunque, completamente inesplorato da parte della Corte territoriale, quanto meno per quanto è dato apprendere dalla motivazione della sentenza: se, cioè, l’autoliquidazione in misura maggiore rispetto al dovuto sia stata il prodotto di un preordinato inganno ordito dall’imputato ai danni del cliente; oppure se, conseguito in buona fede il possesso di tali maggiori somme, egli le abbia indebitamente trattenute, eventualmente anche dissimulando al cliente tale situazione attraverso condotte artificiose, e, in tal modo, se ne sia appropriato.

S’impone, pertanto, un supplemento di motivazione, che comporta l’annullamento della decisione con rinvio anche per i capi in rassegna.

  1. Dev’essere, invece, disatteso il sesto motivo di ricorso, relativo all’omesso versamento dell’imposta ipotecaria contestato al capo 6) dell’accusa.

Per quanto già s’è detto, D.Lgs. 31 ottobre 1990, n. 347, art. 11, individua nel notaio uno dei soggetti obbligati al pagamento di tale imposta, proprio in quanto soggetto obbligato, altresì, al pagamento di quella di registro e facendo espresso riferimento “agli atti ai quali si riferisce la formalità”.

La norma crea, in tal modo, un diretto ed immediato collegamento funzionale dell’adempimento fiscale all’attività rogante, quella, cioè, che costituisce il proprium della funzione notarile e la ragione della sua connotazione pubblicistica (come si evince dalle già ricordate norme fondamentali contenute nell’art. 2699 c.c., e nell’art. 1 della legge notarile). E’ indiscutibile, dunque, che si tratti di somme di cui il notaio acquisisce la disponibilità per ragione del proprio ufficio pubblico e non per una mera prestazione d’opera professionale tra privati. E, una volta che tale disponibilità, materiale e giuridica, con quel vincolo di destinazione, sia stata da lui conseguita, a nulla rileva che, per effetto di una sua scelta consapevole e volontaria, egli non faccia sorgere l’obbligazione tributaria: tanto più se questo suo comportamento – come nel caso di specie – sia illecito secondo la legge civile, trattandosi di violazione di un preciso obbligo impostogli dalla legge.

Non ha, pertanto, alcun fondamento la tesi difensiva della configurabilità, semmai, di un’appropriazione indebita, perchè, fin quando l’obbligo tributario non sorga, le somme ricevute dal notaio rimangono comunque pecunia privata.

Nello specifico, poi, è certo che l’imputato abbia ricevuto la relativa somma dal cliente e che, almeno per i nove mesi successivi, non abbia provveduto al pagamento dell’imposta.

E, per questa parte, a differenza di quanto s’è visto dianzi a proposito del ritardato versamento di cui al capo 3) (peraltro relativo ad un lasso temporale ampiamente inferiore, poichè pari a poco più di due mesi e mezzo), la sentenza non si è limitata a prendere atto del ritardo, ma si è preoccupata di individuare l’avvenuta interversione del possesso, desumendola, con ragionamento logico-deduttivo immune da censure, dalla congiunta valutazione della rilevanza dell’importo, della durata dell’inerzia del notaio e dall’assenza anche soltanto dell’allegazione di una ragione giustificativa di tale suo contegno.

  1. In conclusione, la sentenza impugnata dev’essere annullata con rinvio in relazione ai reati ipotizzati ai capi 3), 4) e 5) dell’imputazione.

Per i restanti capi, il ricorso deve essere respinto e, di conseguenza, a norma dell’art. 624 c.p.p., comma 2, va dichiarato irrevocabile l’accertamento della colpevolezza dell’imputato per i relativi reati.

  1. L’annullamento della sentenza in relazione al capo 3), per il quale non si evince dalla sentenza a quale – o quali – delle parti civili costituite si riferiscano i fatti ivi descritti, non permette alla Corte di cassazione di pronunciarsi definitivamente sulle questioni civili. Sulle stesse provvederà, pertanto, anche con riferimento alle spese del presente grado di legittimità, il giudice del rinvio, all’esito della compiuta disamina del merito e delle risultanze istruttorie.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata in relazione ai reati di cui ai capi 3), 4) e 5) e rinvia per nuovo giudizio ad altra Sezione della Corte di appello di Trieste.

Rigetta nel resto il ricorso.

Visto l’art. 624 c.p.p., dichiara la irrevocabilità della sentenza in ordine all’affermazione della penale responsabilità dell’imputato per i reati di cui ai capi 1), 2) e 6).

Così deciso in Roma, il 2 febbraio 2021.

 

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