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Cassazione penale sez. V, 21/06/2021, n. 24212

Massima

In tema di diffamazione a mezzo social network, per la condanna, basta la prova logica.

Supporto alla lettura

DIFFAMAZIONE

Rispetto all’ingiuria ex art. 594 c.p., l’art.595 c.p. consiste nell’offesa all’altrui reputazione fatta comunicando con più persone, con il mezzo della stampa o tramite i social network a causa della loro capacità di raggiungere un numero indeterminato o apprezzabile di persone; persegue la condotta dell’offendere rivolta verso persone non presenti, ovvero non solo assenti fisicamente, ma anche non in grado di percepire l’offesa (la c.d. maldicenza in assenza dell’interessato).

La nuova costituzione italiana (art. 21) ha esteso la garanzia costituzionale a tutte indistintamente le manifestazioni del pensiero. Alla costituzione ha fatto seguito la legge 8 febbraio 1948, n. 47, che, pur avendo carattere provvisorio, tuttavia regola per la prima volta compiutamente la materia della stampa. Mentre la CEDU si è espressa più volte sul tema sostenendo che quando la diffamazione si realizza a mezzo social network, ad essere violato è l’art. 8 della CEDU, che tutela la vita privata del singolo in cui deve intendersi ricompreso anche il diritto alla reputazione.

Ambito oggettivo di applicazione

RITENUTO IN FATTO

1. Con la sentenza impugnata, la Corte di appello di L’Aquila in parziale riforma della pronuncia emessa il 29 giugno 2018 dal Tribunale di Avezzano nei confronti di (omissis), ha dichiarato non doversi procedere, in relazione alla condotta anteriore al 9 settembre 2011 per difetto di querela e, con riferimento a quella successiva, ma antecedente il 14 settembre 2011 per prescrizione, rideterminando la pena irrogata in primo grado, per la residua imputazione di cui all’art. 81, comma 1, 595, comma 1 e 3, cod. pen., in quella di mesi quattro di reclusione, confermando le statuizioni civilistiche.

1.1. Il primo giudice aveva condannato l’imputata alla pena di mesi sei di reclusione, oltre al risarcimento del danno in favore della parte civile, con una provvisionale di euro duemila, concedendo il beneficio della sospensione condizionale della pena subordinato al pagamento della disposta provvisionale, entro il termine di mesi sei dal passaggio in giudicato della sentenza.

2. Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’imputata, per il tramite del difensore, deducendo nei motivi di seguito riassunti nei limiti di cui all’art. 173 disp. att. cod. proc. pen., quattro vizi.

2.1. Con il primo motivo si deduce erronea applicazione della legge penale e vizio di motivazione, in relazione all’art. 595 cod. pen e violazione dei criteri di valutazione della prova, ai sensi degli artt. 111 Cost., 192, 546 cod. proc. pen.

Si contesta la riferibilità della condotta all’imputata che la Corte territoriale baserebbe su prove non certe, emerse all’esito dell’istruttoria.

Mancherebbe la certezza della riferibilità del profilo facebook e dei post diffamatori alla ricorrente, essendo stata omessa ogni indagine sui file di log, indirizzo IP e dati informatici, a prescindere dal nickname utilizzato come, invece, sottolineato dalla Difesa al giudice di appello, censura che sarebbe
rimasta priva di risposta. La motivazione fonderebbe sulla mera riferibilità del profilo all’imputata, sulla circostanza logica del contenuto dei post che riportavano fatti della vita privata della parte lesa e del coniuge di questa, che l’imputata aveva appreso proprio tramite quest’ultimo con il quale aveva avuto
una relazione extraconiugale.

Si evidenzia che, invece, solo l’accertamento dell’IP (codice numerico assegnato, dal servizio telefonico, in via esclusiva ad ogni dispositivo elettronico al momento della connessione da una data postazione, onde individuare il titolare della linea) e dei file di log (sui tempi e orari della connessione) avrebbe
consentito di attribuire la certa riferibilità dei post alla ricorrente. Né sarebbero stati certificati gli URL di ogni post (codici numerici). Inoltre, la password del profilo è dato che può essere conosciuto da più soggetti. Si richiama un
precedente di questa Corte di legittimità che ritiene necessario, secondo il ricorrente, l’accertamento dell’IP per la certa riferibilità del post e si sottolinea che, invece, nel caso in esame anche il teste di polizia giudiziaria escusso avrebbe escluso lo svolgimento di detto accertamento.

In relazione alla motivazione logica circa il blocco dell’account della parte lesa e l’immediata cancellazione dello scritto diffamatorio “Amici miei atto II”, si sottolinea che la sentenza è illogica posto che non vi sarebbe alcuna prova in grado di riferire l’avvenuta cancellazione a persona determinata.

Dunque, per il ricorso, la motivazione fonderebbe sulla deposizione della persona offesa, senza valutare i rancori di questa verso l’imputata per essere terminata la relazione con il coniuge della medesima parte lesa in modo burrascoso. Né sarebbero state, adeguatamente, considerate le dichiarazioni del teste (omissis), coniuge della persona offesa, indicate dalla Difesa come intrinsecamente contraddittorie e non credibili in quanto anch’egli portatore di risentimento verso l’imputata. Infine, si contesta che la Corte territoriale non avrebbe valutato l’assenza di movente della condotta e che anche il teste dell’accusa (omissis), parente di (omissis) non avrebbe confermato le dichiarazioni di questo.

2.2. Con il secondo motivo si denuncia violazione dell’art. 133 cod. pen. e vizio di motivazione quanto al diniego delle circostanze attenuanti generiche, osservando che, invece, sussisterebbero tutti gli elementi positivi valutabili a tal fine, a mente dell’art. 133 cod. pen.

2.3. Con il terzo motivo si denuncia erronea applicazione della legge penale e insufficiente motivazione in relazione agli artt. 163 e 164 cod. pen. Si contesta la motivazione nella parte in cui evidenzia la capacità economica della imputata a soddisfare la condizione imposta, adducendo che la ricorrente è divorziata e deve provvedere al mantenimento dei figli. Dunque, le precarie condizioni di reddito non sarebbero state apprezzate nemmeno con motivazione sommaria, quanto all’impossibilità di sopportare l’onere, richiamando un precedente in termini.

2.4. Con il quarto motivo si contesta violazione dell’art. 539, comma 2, cod proc pen e vizio di motivazione quanto all’ammontare della provvisionale disposta, assumendo che nel caso di specie non sarebbe stato dimostrato alcun danno, dunque mancherebbero i presupposti per la concessione della
provvisionale.

3. Il Procuratore generale ha fatto pervenire requisitoria scritta, ex art. 23, comma 8, d.l. n. 137 del 28 ottobre 2020, chiedendo l’inammissibilità del ricorso.

3.1. La parte civile ha depositato memoria difensiva, in data 5 gennaio 2021, con la quale ha concluso per la declaratoria di inammissibilità del ricorso e ha depositato nota spese.

3.2. L’imputata ha fatto pervenire una dichiarazione spontanea, a titolo di memoria con la quale sottolinea l’assenza di movente, posto che, per lungo tempo, era stata l’amante del coniuge della parte lesa, valorizzando, dunque, l’assenza di movente a pubblicare post di contenuto offensivo. Inoltre, si
sottolinea la mancanza di accertamenti in ordine alla certificazione dei dati dell’IP e sulla linea telefonica.

CONSIDERATO IN DIRITTO

Il ricorso è inammissibile in quanto manifestamente infondato e, comunque, relativo a censure non consentite in sede di legittimità.

1. Il primo motivo è manifestamente infondato.

In primo luogo le censure formulate richiedono una (ri) valutazione delle prove già esaminate dalle convergenti sentenze di merito, inibita a questa Corte di legittimità (Sez. U, 30/04/1997, n. 6402, Dessimone, Rv. 207944; Sez. 4, n. 4842 del 02/12/2003, dep. 2004, Elia, Rv. 229369; Sez. 5, n. 18542 del 21/01/2011, Carone, Rv. 250168; Sez. 5, n. 49362 del 07/12/2012, Consorte, Rv. 254063).

In secondo luogo si osserva che il precedente di questa sezione richiamato nel ricorso, origina da un peculiare caso concreto, ben diverso da quello al vaglio, nel quale vi erano specifiche doglianze difensive relative all’intestazione dell’IP, in quel caso individuato, in origine, dalla parte civile come riferibile al profilo facebook registrato a nome di persona diversa dall’imputata, sulla cui bacheca virtuale, secondo il ricorso, intervenivano numerosi utenti che ben avrebbero potuto utilizzare, al suo posto, il nickname dell’imputata medesima (Sez. 5, n. 5352 del 22/11/2017, dep. 2018, Nacci, n. m.).

Ciò posto, si osserva che non vi è dubbio che il delitto di diffamazione possa essere commesso anche a mezzo di internet, con uso dei social network (Sez. 1, n. 24431 del 28/04/2015, Rv. 264007; Sez. 5, 28 ottobre 2011 n. 44126; Sez. 5, 17 novembre 2000, n. 4741; Sez. 5, 4 aprile 2008 n. 16262, 16 luglio 2010 n. 35511) e che tale ipotesi integra l’ipotesi aggravata di cui al terzo comma della norma incriminatrice (Sez. 5, n. 4873 del 14/11/2016, dep. 2017, Manduca, Rv. 269090; Sez. 5, n. 44980 del 16/10/2012, Rv. 254044).

La costante giurisprudenza di questa Corte di legittimità, peraltro, si attesta sulla riferibilità della diffamazione anche su base indiziaria, a fronte della convergenza, pluralità e precisione di dati quali il movente, l’argomento del forum su cui avviene la pubblicazione, il rapporto tra le parti, la provenienza del post dalla bacheca virtuale dell’imputato, con utilizzo del suo nickname, anche in mancanza di accertamenti circa la provenienza del post di contenuto diffamatorio dall’indirizzo IP dell’utenza telefonica intestata all’imputato medesimo. Si è, inoltre, attribuito rilievo, assieme agli elementi indiziari sopra sottolineati, anche all’assenza di denuncia di cd. furto di identità da parte dell’intestatario della
bacheca sulla quale vi è stata la pubblicazione dei post incriminati (cfr., Sez. 5, n. 45339-18 del 13/07/2018, Petrangelo, n.m.; Sez. 5, n. 8328 del 13/07/2015, dep. 2016, Martinez, n.m.). Risponde, dunque, a criteri logici e a condivise massime di esperienza ritenere la provenienza di un post da un profilo facebook contenuto proveniente dal profilo di un utente che ometta di denunciarne l’uso illecito eventualmente compiuto da parte di terzi.

Sicché, non può essere esclusa la riferibilità del fatto all’imputata, quando, come nel caso di specie, pur non essendo stati svolti accertamenti sulla titolarità della linea telefonica utilizzata per le connessioni internet, risultano elementi convergenti quali la provenienza del post dal profilo facebook, che indica il nome dell’imputata, nonché la circostanza che la ricorrente, resa edotta dei post offensivi, come testimoniato dal coniuge della vittima del reato, non abbia denunciato l’uso improprio del suo nome, prendendo le distanze dalle affermazioni offensive. Anzi, coerente con tale indirizzo interpretativo e non manifestamente illogica risulta la pronuncia impugnata, la quale attribuisce rilievo anche alle convergenti risultanze circa i contenuti dei post che riportavano fatti della vita privata della parte lesa e del coniuge di questa, conosciuti dall’imputata, proprio in considerazione dell’intima relazione che l’aveva legata al coniuge della persona offesa, come da quest’ultimo, peraltro, confermato nel corso della deposizione testimoniale. Inoltre, si osserva che è stato attribuito risalto, con motivazione non manifestamente illogica, all’avvenuto blocco dell’account dell’imputata da parte della persona offesa cui, secondo i giudici dimerito, era corrisposta l’immediata cancellazione dello scritto diffamatorio “Amici miei atto II” dal profilo facebook dell’imputata.

Peraltro, le dichiarazioni della persona offesa, sono state adeguatamente e approfonditamente valutate quanto alla convergenza con altre risultanze testimoniali, oltre che rispetto ad una (schiacciante) prova logica.

1.2. Il secondo motivo è generico e, comunque, relativo a censure non consentite in sede di legittimità, in quanto relative a potere discrezionale del giudice di merito (Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, Pettinelli, Rv. 271269; Sez. 2, n. 3896 del 20/01/2016, De Cotiis, Rv. 265826; Sez. 3, n. 44071 del 25/09/2014, Rv. 260610) circa il diniego delle circostanze attenuanti generiche, nella specie motivato adeguatamente e con riferimento ai criteri di cui all’art. 133 cod. pen. considerati preminenti ai fini del rigetto (gravità e persistenza della condotta, numero delle visualizzazioni dei post di contenuto diffamatorio e, dunque, della diffusione degli scritti incriminati).

1.3. Il terzo motivo è, del pari, inammissibile in quanto investe il potere discrezionale del giudice di merito di subordinare la sospensione condizionale della pena a prescrizioni. Nella specie, peraltro, la motivazione evidenzia l’assenza di elementi, derivati dagli atti, da cui trarre la convinzione della carenza di capacità economica della imputata a soddisfare la condizione imposta.

Né le ragioni, in fatto, illustrate con il ricorso possono essere rivalutate da questa Corte, quanto all’accertamento delle precarie condizioni di reddito e all’impossibilità di sopportare l’onere imposto.

1.4. Il quarto motivo è inammissibile.

Si rileva che, rispetto all’entità del danno provocato alla parte civile e all’ammontare della provvisionale è inibito in questa sede ogni esame, dovendosi pacificamente ritenere che la determinazione della somma assegnata a titolo di provvisionale è riservata insindacabilmente al giudice di merito che, peraltro, non ha l’obbligo di espressa motivazione quando, per la sua non particolare rilevanza (nella specie pari ad euro duemila), l’importo rientri nell’ambito del danno prevedibile (Sez. 4, n. 20318 del 10/01/2017, Mazzella, Rv. 269882: per la liquidazione della provvisionale non è necessaria la prova dell’ammontare del danno, ma è sufficiente la certezza dello stesso sino all’ammontare della somma liquidata). Inoltre, quanto all’entità del danno la critica mossa con il ricorso appare del tutto generica, né si confronta specificamente con la puntuale argomentazione offerte sul punto dai giudici di merito (cfr. pag. 10 della sentenza di secondo grado).

2. Segue alla pronuncia, la condanna della ricorrente alle spese processuali, nonché al pagamento dell’ulteriore somma indicata in dispositivo, in favore della Cassa delle ammende, non ricorrendo le condizioni previste dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 186 del 13 giugno 2000, importo che si ritiene di determinare equitativamente, tenuto conto dei motivi devoluti.

2.1. Deriva dalla presente pronuncia la condanna alle spese sostenute dalla parte civile costituita, che si liquidano come da dispositivo tenuto conto della nota spese prodotta e dell’attività svolta.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende, nonché alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalla PC liquidate in euro 3000,00 oltre accessori di legge.

Così deciso il 21/01/2021

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