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Cassazione penale sez. V, 20/07/2011, n. 28932

Massima

La competenza territoriale per il reato di aggiotaggio è determinata dal luogo in cui il reato è stato consumato, identificato, nel caso di comunicazioni societarie rivolte alla Borsa, nel luogo di immissione dell’informazione nel sistema informativo del mercato (NIS), da cui la notizia è resa disponibile agli operatori finanziari e ai risparmiatori (nel caso specifico, Milano).

Supporto alla lettura

LA COMPETENZA  NEL PROCEDIMENTO PENALE 

La competenza nel procedimento penale è disciplinata dagli artt.4 ss. [Libro I, Titolo I, Capo II c.p.p.]. In linea generale, per determinare la competenza si ha riguardo alla pena stabilita dalla legge per ciascun reato consumato o tentato. Non si tiene conto della continuazione, della recidiva e delle circostanze del reato, fatta eccezione delle circostanze aggravanti per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato e di quelle ad effetto speciale [art.4 c.p.p.].

Si distingue, rispettivamente, tra competenza per materia (o ratione materiae); competenza per territorio (o ratione loci) e competenza per connessione. Ad essi va aggiunta, altresì, la competenza per funzione, che , correlata ai tre predetti criteri di cui occorre il previo accertamento, individua il giudice competente in base alla funzione da questi svolta nell’ambito di un medesimo procedimento.

  • Competenza per materia: si applica il criterio qualitativo (che tiene conto del tipo di reato), oltre al criterio quantitativo (che ha invece riguardo al livello della pena edittale) [artt.5-6 c.p.p.]
  • Competenza per territorio: si applica il criterio del luogo in cui il reato è stato consumato [art. 8 comma 1 c.p.p.]. Ad essa seguono altre regole di carattere generale che derogano al criterio del locus commissi delicti in ragione della particolare configurazione della fattispecie criminosa [art.8 commi 2,3,4 c.p.p.], nonché talune regole suppletive che consentono l’individuazione del giudice territorialmente competente quando non è possibile applicare le regole generali [artt.9-11 bis c.p.p.]
  • Competenza per connessione: criterio autonomo di attribuzione della competenza, comportando il confluire davanti ad unico giudice di procedimenti che, in base ai criteri di competenza per materia o per territorio, sarebbero attribuiti a giudici diversi. [artt. 12-16 c.p.p.]

Ambito oggettivo di applicazione

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

p.1) La vicenda.

Il presente processo riguarda l’epilogo della gestione di (omissis) presso il gruppo societario PARMALAT: organismo che conobbe una smagliante espansione industriale grazie all’ingegnosa inventiva del suo protagonista, tale da consentire una forte penetrazione nei mercati lattiero caseari, anche al di fuori d’Italia. Sino alla sua quotazione in Borsa nel corso del 1990: si trattava di un tìtolo diffuso presso un vasto pubblico di investitori, ritenuto sicuro anche per la notorietà del c.d. “patron”, ben protetto da settori politici e conosciuto anche per i successi sportivi della squadra di Calcio (omissis), di cui fu presidente, in una fase di reiterati successi, tra le principali protagoniste del calcio italiano.

Il generale e complessivo andamento del mercato di Borsa fu piuttosto negativo negli ultimi anni. Tuttavia, PARFIN riuscì, tra il marzo ed il settembre 2003, a registrare performance ragguardevoli, nonostante il succedersi – negli ultimi tempi – di plurime emissioni obbligazionarie, sia da parte della holding sia delle controllate PARMALAT FINANCE CORP. BV. (PAR.FIN.) e PARMALAT CAPITAL FINANCE. Questa smagliante crescita, nascondeva, però – come ha accertato l’indagine contabile del presente processo (cfr. Sent. C. App., pag. 50) – la ben più inquietante verità: sin dal 1990 PARMALAT aveva perso in grande misura (oltre i limiti di cui all’art. 2446 cod. civ.) il proprio capitale ed era, dunque, creatura finanziariamente fragilissima (la circostanza non è smentita dai ricorrenti).

Tanto spiega – in risposta ai rilievi della difesa di (omissis) (9^ motivo) – come il prosieguo della sua gestione sia stata consentita dalla periodica e persuasiva comunicazione al mercato che presentava una ben diversa apparenza di solidità e profitto, che il sistematico ricorso al sostegno obbligazionario avrebbe dovuto smentire (su questo aspetto, esaurientemente, Sent. C. App. pag. 184, Sent. Trib., pag. 102).

Nel corso del 2003 PARMALAT intensificò in numero e consistenza dell’emissione obbligazionaria. In data 26.2.2003 PARFIN diede notizia di una prima emissione destinata agli investitori istituzionali per 500 milioni di Euro, somma destinata a ripagare la pregressa pendenza. Circostanza che apparve inspiegabile agli occhi di molti investitori, poichè il gruppo affermava di avere per sè disponibile una cospicua dotazione di denaro o valori di rapido realizzo (circa Euro 3,2 miliardi).

I dubbi, in realtà, potevano anche rinvenire risposta in fisiologici meccanismi finanziari. Al riguardo gli interrogativi e le possibili spiegazioni sono esposti, con approfondita analisi dalla decisione del tribunale (Sent. Trib., pag. 323 e ss.) a cui si rinvia.

A scongiurare queste perplessità avevano fatto fronte (non sempre riuscendo) successivi comunicati della PARFIN – dal 27.2.2003 – portanti rassicurazioni sulla effettiva dotazione di risorse, sulla propria solidità patrimoniale e finanziaria, sulla positività dei risultati dell’esercizio 2002 e, soprattutto, il corso assai lusinghiero della produzione industriale con significative prospettive di profitto e, nel marzo 2003, con un sostanzioso mutamento dello staff dirigenziale (cfr. Sent. Trib., pag. 40).

Le spiegazioni non persuasero, tuttavia, il mercato tanto che – lo stesso 27.2.2003 – la società comunicò (insieme al preannuncio di iniziative legali se si fosse ripetuta la lesione all’immagine dell’organismo industriale) il recesso dall’iniziativa.

Una incrinatura assai grave per l’apparenza di un gruppo dalla sicura reputazione finanziaria, quale quello di Collecchio; la circostanza, indusse CONSOB a richiedere più precisi ragguagli sulla esistenza della dotazione liquida dichiarata e sulle effettive ragioni di quelle annunciate manovre obbligazionarie: l’ente di vigilanza otteneva indicazioni assai articolate (Sent. Trib., pag. 41).

Nell’aprile dell’anno 2003, con l’esposizione di lusinghieri esiti del bilancio consolidato, il titolo mostrò importanti apprezzamenti in Borsa, anche per la rassicurazione circa l’abbandono della pratica delle emissioni obbligazionarie.

Asserto, per il vero, contraddetto ben presto, poichè l’emissione di bond fu subito ripresa, nel giugno 2003).

Il comunicato del 18.6.2003 che cercò di giustificare la nuova l’operazione, ma provocò un ribasso del corso del titolo CONSOB – sollecitata da articoli di stampa che avevano segnalato una discrasia tra la comunicazione sociale consolidata per il 2002 e le perplesse ed insinuanti indicazioni dell’agenzia internazionale BLOOMBERG, assai accreditata sulla piazza internazionale – chiese ufficialmente (ai sensi del art. 114, comma 5 T.U.F.) non soltanto spiegazioni all’ente emittente, ma anche (ai sensi dell’art. 115 T.U.F.) dettaglio di tutti i prestiti sollecitati dal gruppo sul mercato, con specificazione delle singole caratteristiche.

Le risposte pervennero il 10.7.2003 e parvero al mercato fornire plausibili spiegazioni, sì che il titolo riacquistò valenza.

Ma esse non convinsero l’ente di vigilanza, che intensificò le sue indagini, per tutto il mese di agosto di quell’anno (cfr. Sent. Trib., pag. 44).

Il comunicato emesso da PARFIN l’11.9.003 confermò il trend positivo e la solidità dell’organismo, nettamente in utile. Ma l’ulteriore emissione obbligazionaria effettuata il 4.9.2003 bloccò l’andamento positivo delle azioni e la formale motivazione, così come quella successiva (emissione al 29.9.2003) e CONSOB si vide costretta a richiedere – alla data del 22.9.2003 – ulteriori precisazioni e documentazione (ai sensi dell’art. 115 T.U.F.) sulle vantate disponibilità liquide presso BANK OF AMERICA. La Commissione, in particolare, instò per ottenere ragguagli sui criteri valutativi del FONDO EPICURUM, appostato all’attivo del bilancio. Si trattava di un fondo “aperto”, corrente nelle Isole Cayman, il cui capitale nominale era di 50.000 U. Ad esso partecipava per il 10,5 la soc. BONLAT, società estera (corrente in Cayman Island) partecipata da PARMALAT FIN., amministrata da (omissis) (cfr. Sent. trib. pag. 56 e 187).

A questo misterioso cespite gli amministratori di PARFIN allusero in quel 4 torno di tempo, indicandolo quale detentore di cospicua ricchezza (oltre 3 miliardi di Euro), immediatamente disponibile al gruppo.

La risposta alla richiesta di CONSOB fu resa in data 10.11.2003: tuttavia, le giustificazioni, fornite sempre all’egida del massimo ottimismo, scontrarono con l’evidente incongruenza di un organismo votato alla ricerca di oneroso sostegno finanziario ed al contempo già titolare di grandi ricchezze liquide. Alle rinnovate obiezioni del mercato e della stampa specializzata – il 12.11.2003 – il vertice della società minacciò nuovamente di perseguire giudizialmente i propalatori delle malevole insinuazioni. Il clima si surriscaldò rapidamente: il mercato finanziario era in attesa della preannunciata liquidazione dell’allora ben noto FONDO EPICURUM, in cui sarebbero stati depositati 500.000.000 e per l’atteso rimborso del prestito obbligazionario per Euro 150 milioni (emesso da PARMALAT FIN. BV.) promesso alla scadenza dell’8.12.2003.

Seguì ulteriore comunicato della società il 27.11.2003, sempre nel medesimo tono rassicurante (esso dava, tuttavia, notizia del recesso di (omissis), preposto al comparto finanziario, sostituito da (omissis)).

L’epilogo della vicenda (cfr. Sent. Trib., pag. 36 e ss.) fu segnato, il 19.12.2003, dalla lettera che BANK OF AMERICA inviò alla società di revisione del gruppo, GRANT THORNTON, con cui si denunciava come falsa l’affermazione, più volte riproposta dai dirigenti di Collecchio, per cui presso quell’azienda di credito era depositata la somma di Euro 3.950.000 (informazione diffusa nel dicembre 2002, ma analoga asserzione era rinvenibile nella semestrale al 30.6.2002), che – anzi – non vi era alcun conto corrente (formalmente intestato a BONLAT, che era falsa l’attestazione documentale, datata 6.3.2003, che asseverava questa situazione finanziaria, documento che aveva fondato la certificazione del bilancio BONLAT per l’esercizio 2002.

La comunicazione di BANK OF AMERICA svelò al mercato mobiliare la sconcertante potenzialità mendace di quella società e tanto indusse CONSOB a convocare urgentemente il Presidente ed Amm.re delegato (omissis) per opportuni ragguagli.

Nel colloquio con il Presidente (omissis), il 10.12.2003, il (omissis) rassicurò nuovamente l’interlocutore.

Quella nota di BANK OF AMERICA, peraltro, spinse l’organo di vigilanza sia ad informare la Procura della Repubblica di Milano della “ipotesi” di reato sia a disporre proprie autonome indagini sull’inaffidabile soggetto quotato in Borsa.

A quella data (8 dicembre del 2003) (omissis) rese edotto il suo fidato amico: in un colloquio privato dell’8.12.2003 (a cui erano stati invitati anche altri amministratori, non intervenuti), egli confessò apertamente a (omissis) l’inesistenza di risorse sul noto FONDO EPICURUM, che era ostentata ancora di salvezza per l’opinione pubblica. Apertamente confessò anche l’assenza di ogni ulteriore disponibilità liquida.

Il giorno successivo, 9.12.2003, il (omissis) si dimise da ogni carica societaria.

La società informò il mercato di avere richiesto al (omissis) di predisporre un piano di ristrutturazione e risanamento del gruppo, attese le difficoltà insorte nell’ultimo periodo (Sent. Trib., pag. 49). Nei giorni seguenti si comunicarono al pubblico le dimissioni di (omissis), di (omissis), di (omissis).

Il 29.12.2003 era dichiarato il default del gruppo. Il 24.12.2003 PAR. FIN. e le società del gruppo furono ammesse alla procedura di Amministrazione Straordinaria ed il (omissis) fu nominato Commissario straordinario della stessa.

T. venne fermato, per iniziativa del Procuratore della Repubblica di Parma, quale soggetto di indagine per bancarotta fraudolenta impropria il 27.12.2003; il 29.12.2003 il GIP del Tribunale il Milano emise nei suoi confronti misura carceraria per gli episodi di aggiotaggio. p.2) Svolgimento del processo.

La Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano ricevette da CONSOB, il 19.12.2003, segnalazione (sollecitata dallo stesso Pubblico Ministero) che PARMALAT FINANZIARIA (PAR. FIN.) aveva smentito l’esistenza di un conto presso Bank of America su cui sarebbero dovuti risultati giacenti circa 4 miliardi di Euro (in denaro liquido ed in titoli), notizia che pervenne nel momento in cui il mercato era in attesa del rimborso di obbligazioni emesse dalla società per 150 milioni di Euro. Dopo una rapida inchiesta CONSOB ed il Pubblico Ministero milanese appurarono lo stato di dissesto del gruppo, attesa l’infedele informazione resa alla Borsa, quanto alla vistosa dotazione patrimoniale ed alle condizioni finanziarie delle società.

Per il vero già da tempo l’ente di vigilanza aveva appuntato la sua attenzione sulla gestione delle società PARMALAT, ed il 9.7.2003 l’ente interpellò i vertici, ai sensi del D.Lgs. n. 58 del 1998art. 114, invitandoli a fornire ragguagli sulla effettiva situazione patrimoniale.economica e finanziaria, istanza a cui sovveniva PARFIN con risposta rassicurante del 10.7.2003.

La risposta non interruppe le indagini di CONSOB, articolatesi nell’audizione delle società di revisione, degli amministratori e sindaci. Ai dubbi replicarono rassicurazioni della società, mediante nella redazione della situazione semestrale 2003, presentata l’11.9.2003, ma quello stesso mese (15.9.2003) venne annunciata l’emissione di altre obbligazioni: la notizia nuovamente indusse CONSOB ad una verifica (ex art. 115 D.Lgs. cit.) circa l’esistenza delle effettive risorse di ricchezza, quali dichiarate da PARFIN ed ad invitare la società ad più puntuale informazione al mercato (ai sensi del D.Lgs. n. 58 del 1998art. 114 (T.U.F.)). Donde l’emissione del comunicato 10.11.2003 a cui seguiva, attesa una polemica di stampa sul FONDO EPICURUM, l’ulteriore ragguaglio tranquillizzante diffuso il 12.11.2003, con cui per tacitare lo spinoso capitolo venne preannunciata la liquidazione del detto Fondo.

Il 14.11.2003 furono diffusi i risultati della trimestrale.

Ma l’8.12.2003 la società non riuscì ad onorare il rimborso dell’emissione obbligazionaria in essere e comunicò il rinvio della liquidazione del FONDO EPICURUM. La quotazione del titolo fu sospesa.

Ciononostante la società emanò reiterate (sino al 10.12.2003) informazioni infedeli (tali da indurre qualche investitore a continuare nell’acquisto di quei titoli sul mercato, cfr. Sent. Trib., pag. 335 e ss.).

Fu annunciato il conferimento al (omissis) dell’incarico di predisporre un piano di ristrutturazione industriale e finanziaria del gruppo.

Il 17.12.2003 Bank of America, come detto, segnalava l’inesistenza della giacenza vantata dalla società ed il 24.12.2003 le società del Gruppo erano ammesse alla procedura di Amministrazione straordinaria, con nomina del (omissis) a Commissario.

Di qui l’evolversi del procedimento penale che seguiva al fermo di (omissis) (23.12.2003) ed ad una complessiva indagine contabile del Pubblico Ministero (coadiuvato dalla Consulenza contabile della D.ssa (omissis)).

CONSOB si costituiva parte civile all’udienza 5.10.2004 avanti al Giudice dell’Udienza preliminare.

Il Tribunale di Milano – dopo avere definito parecchie posizioni a seguito ai applicazione della pena su istanza delle parti – rese Sentenza in data 18.12.2008. Fu decisione (fra l’altro) di condanna per (omissis) in relazione ai reati di aggiotaggio, di ostacolo allo svolgimento delle funzioni di CONSOB, di falso in certificazione.

Gli tu inflitta la pena della reclusione di dieci anni oltre al risarcimento del danno patrimoniale non patrimoniale verso l’ente di vigilanza. Condanna estesa anche al risarcimento dei danni, definitivamente liquidati, verso CONSOB, verso CCIA di Milano, mentre per altri imputati o imponeva provvisionale o, comunque, rinviava a separato giudizio la definizione del danno. Il Tribunale assolse gli altri imputati ((omissis), (omissis), (omissis), (omissis), (omissis)) da ogni addebito e (omissis),per prescrizione quanto al capo E) n. 1 e per altre ipotesi (n. 3, 4) con formula ampia.

Applicò a GRANT THORNTON (ora ITALAUDIT) sanzione pecuniaria di Euro 240.000 per la violazione del D.Lgs. n. 231 del 2001art. 25 ter.

In data 26 maggio 2010 la Corte d’Appello di Milano investita del gravame del (omissis) e del Pubblico Ministero:

– confermò la condanna nei confronti del (omissis);

– condannò (omissis) e (omissis) per i reati di aggiotaggio, ostacolo alle funzioni di vigilanza, falso nelle relazioni dei revisori, anche al risarcimento dei danni in favore delle parti civili;

– confermò l’assoluzione di (omissis) e di (omissis) (che erano imputati dei reati di aggiotaggio, ostacolo alle funzioni di vigilanza, falsità nelle revisioni);

– confermò la condanna al risarcimento del danno in favore di CONSOB, quale soggetto leso nell’ostacolo alle funzioni di vigilanza e nella lesione alla propria immagine), ma ha confermato il rigetto dell’istanza risarcitoria del danno non patrimoniale derivante dalla lesione all’integrità del mercato e di quello patrimoniale dell’aggravio dei costi di istruttoria. p.3) La posizione dei singoli ricorrenti ed i loro ricorsi. p.3.a) (omissis);

E’ indicato quale protagonista di questa vicenda illecita, avendo seguito tutti i passaggi del comportamento risultato integrativo dei reati ascritti anche ai coimputati ed essendo considerato l’ideatore delle falsità comunicative (su cui si distende la motivazione di Sent. Trib., pag. 66 e ss.) E’ pure segnalato come il principale beneficiario in termini economici del sistema fraudolento posto in essere.

I giudici di merito hanno considerato gli illeciti come oculatamente funzionali all’esito di occultare le stato di dissesto per il periodo di dieci, anni (Sent. C. App., p. 111).

Egli è attinto da precise (e ritenute attendibili) chiamate di correità da parte di (omissis), di (omissis) (che subentrò al predetto in ruoli di vertice), dalle confessioni del preposto alla contabilità (omissis), di (omissis) responsabile della contabilità di società estere, di (omissis) (relativamente alla vicenda BONLAT), di (omissis) sempre sulla gestione BONLAT (cfr. Sent. Trib., pag. 78 e ss.), ecc. Egli è indicato come diretto ispiratore dei comunicati indirizzati a CONSOB e quelli sul FONDO EPICURUM (Sent. Trib, pag. 84 e ss.). Ed, ancora, istigatore alla distruzione della documentazione di contabilità di BONLAT secondo la versione accusatoria del (omissis), di (omissis), di (omissis) (Sent. Trib., pag. 85).

La difesa di (omissis) ricorre avverso la Sentenza sulla base dei seguenti motivi:

1) inosservanza della legge processuale attesa l’incompetenza del giudice milanese a decidere sul reato di cui all’art. 185 T.U.F. (o art. 2637 c.c., vigente all’epoca del fatto) ed infatti:

a) la nozione di “diffusione” diverge da quella di “divulgazione”, come ha mostrato il legislatore del 2002 sostituendo la precedente espressione (divulga) con quella attuale (diffonde) e come attesta la normativa in materia di pornografia minorile (art. 600 ter c.p., che conosce le due distinte azioni):

la diffusione allude a comportamento più ampio rispetto alla divulgazione, cioè “rendere noto a tutti”, cioè anche alla ristretta cerchia di persone qualificate ad un solo destinatario), non alla universalità dei componenti del mercato;

b) il capo A) di imputazione è strutturato sulla base di una continuazione interna, che racchiude reati di pari gravità, tutti – però – più gravi dei restanti reati ascritti nel capo medesimo, sicchè ex art. 16 c.p.p. comma 1, è il primo reato commesso, quello, cioè, che si ravvisa nella diffusione delle notizie del bilancio 31.12.2002, esposto per la prima volta in PAR. FIN. al Consiglio di Amm.ne 28.3.2003, tenutosi a (omissis) a stabilire la competenza territoriale; le deposizioni (omissis) e (omissis) nulla dicono di utile al proposito, non accennando alla digitazione del comando di invio, che è il momento saliente per accertare la consumazione del reato;

c) pertanto, o la comunicazione del dato falso raggiunse (integrando la consumazione dell’illecito) per primi destinatali i consiglieri di amministrazione (parecchi consiglieri sono stati ritenuti estranei al reato), ovvero il reato si perfezionò con la trasmissione da (omissis)alle agenzie di stampa del riassunto degli accadimenti occorsi all’interno del consiglio di amm.ne, dunque sempre in (omissis);

– inosservanza della legge processuale nella valutazione della competenza in ragione della connessione ovvero per assorbimento:

erroneamente la Corte ha rigettato la prospettazione difensiva opponendo la radicale diversità della fattispecie di aggiotaggio rispetto a quello di bancarotta (così negando l’applicabilità dell’art. 12 c.p.p., lett. b), ovvero eccependo la diversità di fase ed, infine, negando l’operatività della connessione in ragione della perpetuatio jurisdictionis;

infatti:

– la finalità del movente di aggiotaggio non rileva nel contesto dell’art. 81 cpv. c.p., ed, inoltre, se la bancarotta è quella societaria, il movente era sempre quello di occultare le perdite di gestione;

– si era nella medesima fase poichè l’eccezione fu formulata nel corso del giudizio di primo grado (prima della modifica della contestazione da parte del Pubblico Ministero);

– la perpetuatio jurisdictionis è espressione della garanzia del giudice naturale e prevale su ogni altro profilo poichè il giudice della cognizione è sempre giudice della propria competenza (art. 23 c.p.p., comma 1): la situazione complessiva dei processi è stata modificata dopo il rigetto della richiesta di incompetenza per connessione (e l’art. 16 c.p.p., sancisce un criterio originario di attribuzione della competenza);

– erroneamente è stato trattato il tema dell’assorbimento, poichè la Corte ha confuso la ratio dell’istituto (evitare il bis in idem) con le conseguenze dell’istituto, per es. in tema di competenza;

– l’assorbimento del reato meno grave (aggiotaggio ex art. 2637 c.c.) in uno più grave (bancarotta L. Fall., ex art. 223, comma 2, n. 1) non richiede identità del bene giuridico, che è profilo del principio di specialità non dell’istituto dell’assorbimento.

2) Nullità della sentenza di primo e secondo grado in considerazione della indeterminatezza dell'(originario) capo di imputazione, nullità ancora per violazione dell’art. 521 c.p.p.; carenza di motivazione nella risposta all’eccezione portata con gravame di appello.

3) Erronea applicazione della legge penale ed illogicità della motivazione con riguardo alla fattispecie degli art. 2637 c.c. (o artt. 180/185 T.U.F.), nonchè in relazione agli artt. 2621/2622 c.c., tema che viene affrontato:

– sia per criticare la nozione di “concreta idoneità” richiesto dalla fattispecie erroneamente confusa con l’altro della “price sensivity” che è il referente della idoneità; erroneamente, inoltre, è stato scartato il paradigma del “ragionevole investitore” poichè la norma non richiede l’effettivo inganno, quando l’inganno è momento del tutto esterno alla valutazione della “price sensivity”;

– sia per escludere che all’epoca dei fatti fosse possibile ravvisare l’idoneità all’alterazione dei valori, dal momento che il gruppo PARMALAT era già fallito da anni, e che vi sono in atti documenti che provano la conoscenza diffusa di questa situazione;

– sia per censurare l’esclusione del rapporto di specialità intercorrente – che deve essere riguardato in concreto – tra l’aggiotaggio e la fattispecie di false comunicazioni sociali, attesa l’identità del bene giuridico protetto, sicchè si doveva ravvisare l’assorbimento del primo nella seconda;

– sia per criticare l’ingiustificato rigetto della qualificazione di post-factum non punibile la diffusione di comunicati dopo il varo di una infedele comunicazione sociale;

4) Mancata assunzione di prova decisiva, con riferimento al mancato esame testimoniale delle parti civili, alla mancata acquisizione delle dichiarazioni di (omissis), carenza e contraddittorietà della motivazione;

– rilievo che si radica nell’impugnazione dell’Ordinanza che limitava la lista testimoniale presentata dalla difesa ex art. 486 c.p.p., e non già nell’istanza di rinnovazione del dibattimento, diversamente da quanto osservato dai giudici;

– irrazionale è invocare la ragionevole durata del processo con la compressione dei diritti difensivi, anche perchè la medesima sentenza impugnata mostra di ritenere rilevante perla decisione la richiesta assunzione testimoniale;

– importanti erano, al fine del giudizio, le dichiarazioni che (omissis) rese nel procedimento per bancarotta fraudolenta a (OMISSIS):

egli aveva fornito informazioni decisive, come da copia del verbale allegato al ricorso.

5) Erronea applicazione della legge penale e civile in materia di nesso di causalità tra condotta e danno, con inosservanza anche dell’art. 187 c.p.p., comma 3, e assenza di adeguata motivazione.

Sono, invero, violati i principi di accertamento del rapporto eziologico secondo le leggi civili (artt. 269720561223 e 1227 c.c.) poichè il giudizio di responsabilità sul danno discende da massime di esperienza è insufficiente, più esattamente occorre un giudizio contro-fattuale, che si regga sulla valutazione del “piùprobabile che non”. 6) Erronea applicazione della legge penale con riferimento all’art. 62 c.p., n. 4, e art. 62 c.p., n. 5, inosservanza della legge processuale con riguardo all’art. 187 c.p.p., comma 3, e carenza di adeguata motivazione.

7) relativamente all’imputazione di condotta di ostacolo a CONSOB nell’espletamento delle funzioni di vigilanza per:

a) inosservanza della legge processuale, attesa l’indeterminatezza della contestazione essendo stata omessa la data delle comunicazioni ritenute ostative all’espletamento delle funzioni di vigilanza ed essendo stato indicato il (omissis) come concorrente nelle comunicazioni al Collegio Sindacale; ed anche in seno alla determinazione della pena non è stato indicato il fatto più grave nel contesto continuativo; la regolarizzazione della contestazione nel corso del processo non elimina la pregressa nullità;

b) erronea applicazione della legge penale ed illogicità della motivazione nell’avere negato che la condotta descritta dall’art. 2638 c.c., possa esser assorbita in quella di aggiotaggio o di bancarotta;

c) erronea applicazione della legge penale per non avere ravvisato la fattispecie di cui all’art. 384 c.p. o non avere apprezzato la questione di rilevanza costituzionale proposta;

d) erronea applicazione della legge penale circa la ricorrenza dell’elemento soggettivo e la illogicità della motivazione al proposito, essendo il dolo di ostacolo già insito nell’assorbente fattispecie di bancarotta;

8) Violazione dell’art. 2624 c.c., false comunicazioni alle società di revisione del gruppo (Grand Thornton e Deloitte & Touche). a) carenza ed illogicità di motivazione circa il concorso del T. nel reato dei revisori che provvidero autonomamente a verifìcare la documentazione contabile del gruppo;

b) segnatamente in relazione ai fatti addebitati al capo e) dell’epigrafe, sia relativamente alle c.d. “circolarizzazioni” sia all’enormità dello scostamento dell’attestazione del revisore, rispetto alla effettiva realtà finanziaria sottoposta al suo vaglio;

d) indebito riconoscimento di diritto al risarcimento del danno di VIA ADVISOR, società di consulenza, a cui fu revocato il diritto all’uso della denominazione GRANT THORNTON, da parte della casa madre di revisione, non essendo consentito ad una controllata della società di revisione fornire attività di consulenza, attesa la disposizione dell’attuale art. 160 D.Lgs. n. 160 (come modificato dalla L. n. 262 del 2005, art. 159), con conseguente annullamento della statuizione civile.

Con Motivi aggiunti, depositati il 13.4.2011, la difesa di T. insta per l’annullamento senza rinvio della decisione impugnata perchè i reati ascritti all’imputato sono estinti da prescrizione e ribadisce la rilevanza dell’eccezione di indeterminatezza del capo di accusa, patologia che ha costretto il giudice di merito ad una analisi difficoltosa per evidenziare i fatti di effettiva contestazione. p.2.b) (omissis).

L’imputato era stato preposto – dal 27.12.2001, quale Direttore generale, quindi, al momento del recesso di (omissis), 6.5.2003 – alla società BONLAT, operante in Venezuela. Di questi tratta la sentenza impugnata da pag. 131 e ss.

Egli è, in questa sua veste, accusato di avere firmato, nel luglio 2003, operazioni interamente simulate di acquisto di latte in polvere, finalizzate a rappresentare un utile fittizio da far confluire nel bilancio consolidato, nonchè di avere sottoscritto contratti di cessione di tecnologia e marchi da PARMALAT Spa. (Sent. Trib. pag. 227).

Premesse oggettive (non contestate dalla difesa) dell’artefazione delle comunicazioni sociali e delle false revisioni.

Egli è imputato dei reati di aggiotaggio (Capo a), di ostacolo alle funzioni di vigilanza di CONSOB (Capo b), di concorso nelle falsità nelle revisioni operate dalla soc. DELOITTE & TOUCHE (Capo e), di concorso nelle falsità nelle revisioni operate dalla soc. GRANT THORNTON (Capo e).

Il Tribunale di Milano lo ha assolto, non avendo ritenuto integrata la prova circa l’elemento soggettivo.

La Corte d’Appello, in totale riforma, lo ha condannato (alla pena di due anni e sei mesi) anche al risarcimento dei danni di alcune parti civili.

La società BONLAT è risultata esser la “sentina” di parecchi vizi di infedeltà informativa (cfr. dettagliatamente sent. Trib. pag. 54 e ss.; Sent. C. App., 48 e ss.) e la sua funzione fu quella di consentire maquillages di bilancio e di scaricare parecchie perdite di società del gruppo (così consentendo di ridurre l’indebitamento globale del gruppo verso banche ed obbligazionisti; di assumere su di sè il debito, mediante il riacquisto dei bona, emessi da PARMALAT FIN. CORP., trasformando il debito verso il mercato in passività interna al gruppo, posta così resa irrilevante nelle comunicazioni sociali consolidate).

A suo favore – attestando la sua ignoranza sulla reale situazione delle società di PARMALAT e la falsità dei bilanci di BONLAT – si sono pronunciati gli imputati (omissis), (omissis), (omissis), (omissis) e (omissis) e lo stesso (omissis), in un’intercettazione ambientale assunta in carcere in ragione di un colloquio con i propri famigliari (Sent. C. App., pag. 134).

La difesa di (omissis) ricorre sulla base dei seguenti motivi:

1) Erronea applicazione della legge penale per l’errata lettura dell’art. 2392 c.c. circa la possibilità di imputare ad un amministratore la responsabilità per illeciti commessi da altri in seno alla società, non essendo state logicamente considerate le risultanze circa la ignoranza del prevenuto sulle infedeltà di bilancio, sulla conoscenza dello stato di crisi del gruppo e sull’effettivo portato dei c.d. “segnali di allarme”;

2) Carenza ed illogicità della motivazione nella mancata considerazione delle tesi difensive e delle oggettive risultanze di causa;

3) Erronea applicazione della legge penale con riguardo all’art. 530 cpv. c.p.p., in relazione all’art. 111 Cost., dovendosi procedere all’assoluzione nel caso di ragionevole dubbio. p.3.c) (omissis).

La sentenza di primo grado tratta di questa posizione da pag. 199 sino a pag. 211.

(omissis), di professione commercialista (e Presidente del relativo Ordine), Presidente della Cassa di Risparmio di Parma (grazie proprio all’influenza politica del principale imputato), ente che aveva finanziato sia il gruppo PARMALAT sia personalmente il (omissis), era stato amico da tempo del (omissis) medesimo.

Egli era divenuto, nel 2001, amministratore “indipendente” (ed anche Presidente del Comitato di Controllo Interno al gruppo) in quell’organismo. E’ stato assolto dal Tribunale, ai sensi dell’art. 530 c.p.p., comma 2, perchè il fatto non costituisce reato, mentre la Corte d’Appello, accogliendo il gravame del Pubblico Ministero (a cui era seguito impugnazione incidentale della difesa), in totale riforma della prima decisione, lo ha riconosciuto colpevole di tutti i reati ascrittigli.

La prova della conoscenza del fatto pregiudizievole, a cui il soggetto avrebbe dovuto opporsi, in ragione della sua funzione gestoria, ancorchè indipendente, consiste nelle notizie svelate dal (omissis) stesso al (omissis) in un colloquio tenutosi il giorno 8.12.2003 (a quella data era stata accertata, per la prima volta nel gruppo, l’insolvenza di un bond di importo esiguo, cfr. Sent. Trib. pag. 190), dopo che (omissis) aveva appreso delle allarmanti notizie sulla affannosa ricerca da parte del medesimo (omissis) di sostegno finanziario presso il sistema bancario, cioè che il FONDO EPICURUM non esisteva, che non vi era stato il riacquisto dei bond, e che non c’era più a disposizione del gruppo alcuna liquidità.

Dati che clamorosamente smentivano quelli enfatici della semestrale depositata il 30.9.2003.

Il Tribunale ha ritenuto (cfr. Sent. Trib. 194) che la circostanza – anche se malamente rappresentata al dibattimento, perchè proveniente da persona ansiosa – potesse scagionare il (omissis), poichè il colloquio supponeva proprio l’ignoranza del prevenuto su queste circostanze e dimostrava l’assenza di concorso nei reati.

Secondo i primi giudici non risultava possibile ipotizzare un intervento fattivo per impedire l’evento (aggiotaggio) ormai consumatosi a quella data reato, poichè quella fattispecie criminosa non è sovrapponile all’infedeltà del bilancio consolidato. La stessa data di ingresso nella società parmense attesta che egli era, prima del colloquio, ignaro del dissesto del gruppo.

La decisione della Corte territoriale (Sent. C. App., pag. 119 e ss.), sollecitata dall’appello del Pubblico Ministero e di alcune parti private, muove dalla diversa lettura della posizione di garanzia dell’amministratore non esecutivo e sottolinea che non risponde al vero che la condotta pretesa fosse inesigibile poichè, dopo lo sconvolgente colloquio dell’8.12.2003, PARFIN emise (come annotato dalla medesima sentenza dei primi giudici a pag. 110), alle date 8 e 10 dicembre 2003 ulteriori comunicati al pubblico, del tutto infedeli ed idonei ad influire decisivamente sul corso dei titoli del gruppo (Sent. pag. 121/122).

Di qui l’errore di tratteggiare lo scrutinio della posizione dell’imputato in termini di conoscibilità, quando vi è la prova dell’effettiva conoscenza.

Analogamente la Corte milanese segnala che poste inserite nel bilancio dell’esercizio 2001 dovevano essere note nella loro infedeltà al (omissis), avendo ignorato il debito conseguente ad emissione obbligazionaria e, nel bilancio dell’anno successivo, era rinvenibile medesimo silenzio in relazione al dichiarato riacquisto dei titoli.

Inoltre, quale presidente dell’istituto di credito ove erano accesi i conti del gruppo, era ragionevole ipotizzare la conoscenza dei reali flussi finanziari, segnatamente verso SATA, organismo finanziato dalla banca.

Infine, egli avrebbe dovuto ricordarsi dei dubbi della società di revisione Deloitte & Touche sul Fondo Epicurum, espressi nel giugno 2003.

La difesa di (omissis) ricorre sulla base dei seguenti motivi:

1) carenza della dovuta motivazione che, appartenendo a sentenza che riforma quella di primo grado, deve risultare assai rigorosa nel confutare i vizi della prima decisione;

2) omessa considerazione degli apporti difensivi, con particolare riguardo alle Memorie difensive;

3) erronea applicazione della legge penale e carenza di motivazione nel verificare il grado di conoscenza della situazione del gruppo, partendo da posizioni “emotive” (conoscenza personale di (omissis)), nel valutare il significato delle dimissioni del prevenuto; tenendo presente il diverso giudizio espresso sulla percezione dei ed. “segnali di allarme” da parte dei coimputati (omissis) e (omissis), che si trovavano in un’analoga posizione cognitiva;

trascurando l’esatto ruolo svolto presso la Cassa di Risparmio di Parma (ove rimase sino al giugno 2000) e le possibilità di conoscere i flussi del gruppo PAMALAT e, specialmente, della soc. SATA (finanziata da CARIPARMA) a cui, in passato, il (omissis) era stato interessato, ma soltanto per la parte contabile; ovvero, trascurando la possibilità di rendersi conto della posizione del gruppo PARMALAT nei rapporti con le “parti correlate”, il cui contenuto avrebbe dovuto essere oggetto di informazione ad opera dei consiglieri esecutivi e dei sindaci, ragguaglio che (almeno per quanto attiene alla relazione con SATA) tutti costoro omisero, così come il Comitato per il Controllo interno, di cui il (omissis) era divenuto presidente, mancò di ricevere ogni informativa (anche per quanto atteneva ai rapporti con società estere); nè il silenzio sul riacquisto dei bona1 poteva effettivamente rilevare nella comunicazione dell’anno 2002, poichè la notizia era nota agli investitori e, soprattutto, a CONSOB, che si limitò ad una raccomandazione per i futuri esercizi, senza addebitare alla società sanzione di sorta, convinta dai dirigenti di PARFIN della regolarità della situazione; che anche per la vicenda relativa all’emissione di ulteriore franche obbligazionaria (per 1 miliardo di Euro), ignorata dal bilancio consolidato al 31.12.2001, si dimostra così la buona fede dell’imputato, che stilò un’apposita relazione (allegata al verbale del Consiglio di Amministrazione), sottolineando che la emissione dei titoli proveniva da partecipate della holding e che, quindi, non era suscettibile di iscrizione nella comunicazione dell’emittente, e non di PARFIN; che, inoltre, l’operazione era nota al mercato; che, ancora, la finalità di queste operazioni era proprio di occultare il passivo maturato verso l’area esterna al gruppo, senza lasciare possibilità agli organi non esecutivi di percepire l’effettiva ragione delle stesse (del resto la medesima Corte territoriale ammette che l’imputato non ebbe percezione dell’effettivo ammontare dell’indebitamento, Sent. C. App., pag. 116); analogamente viene osservato per l’emissione di 14 miliardi di yen del 2001, non appostata nel bilancio consolidato al 31.12.2001, richiamando le ragioni per cui il Tribunale correttamente ha giustificato la possibile ignoranza in capo ad un amministratore indipendente (cfr. Sent. pag. 163 e ss.); che, venendo all’informazione ricevuta, in data 8.12.2003, la conoscenza dell’affannosa ricerca di prestiti era un dato generico, conosciuto per de relato, che attesta l’ignoranza dell’imputato, tenuto volutamente all’oscuro dal T. sino a quella data, delle reali condizioni del gruppo e dell’inesistenza del FONDO EPICURUM, la cui dotazione era stata verificata dalla società di revisione e dal collegio sindacale; che le immediate dimissioni erano un efficace segnale di dissenso verso il mercato; in punto di diritto, viene poi contestata la ricorrenza del dolo eventuale di cui si è servita la Corte territoriale: d’altra parte non vi è prova che egli potesse rappresentarsi l’emissione di ulteriori comunicati falsi, presagendo l’imminente dichiarazione di dissesto;

4) erronea applicazione della legge penale e carenza di motivazione in relazione all’idoneità dei comunicati dell’8 e 10.12.2003 ad alterare il corso dei titoli, poichè a quelle date qualsiasi condotta non avrebbe impedito l’evento illecito che era inevitabile; trascura, ancora, che il comunicato dell’8.12.2003 fu emesso prima (h. 8,19) dell’incontro tra (omissis) e (omissis) (h. 16); nè la sentenza accenna in quale modo il (omissis) avrebbe potuto impedire il risultato illecito del reato di aggiotaggio, egli – d’altra parte – si era dimesso da ogni carica societaria il 9.12.2003 e non aveva alcuna possibilità di interferire nelle vicende dell’organismo: è errata la concezione di una posizione di garanzia gravante sull’amministratore non esecutivo ed è necessario, per il meccanismo ex art. 40 cpv. c.p., che questi sia dotato di idonei poteri ostativi, non essendo corretto avere ritenuto insufficiente l’atto di dimissioni;

5) carenza e contraddittorietà della motivazione sull’elemento psicologico dei reati, tema specificamente dedotto con i motivi di appello, ma ove fosse stata accertata Pinevitabilità dell’evento la formula assolutoria avrebbe dovuto essere perchè il fatto non sussiste, argomento non trattato dal giudice di seconde cure;

6) carenza di motivazione quanto alla responsabilità dell’imputato nei reati di false comunicazioni alle società di revisione (capi b, e, d, dell’epigrafe);

7) erronea applicazione della legge penale e carenza di motivazione in relazione alla statuizione sanzionatoria (superiore al minimo edittale), ove rapportata al giudizio verso (omissis) e considerato il disvalore del fatto, concentratosi sul comunicato del 10.12.2003;

8) carenza di motivazione sul giudizio di equivalenza e non di prevalenza delle attenuanti sulle aggravanti;

9) carenza ed illogicità della motivazione quanto alle statuizioni civili avendo ritenuto inutile accertare il rapporto di causalità tra la condotta di aggiotaggio e la determinazione di acquistare o non vendere i titoli delle società PARMALAT, ed essendosi rimessa la Corte a criteri presuntivi nell’errata lettura dell’orientamento del giudice di legittimità;

10) erronea applicazione della legge nella condanna dell’imputato al risarcimento dei danni cagionati a CONSOB dalla condotta criminosa ascritta a (omissis).

La Memoria della Parte civile FARMLAND DAIRES confuta la proponibilità di una “esimente”, ravvisatale nel suolo svolto dal prevenuto, erroneamente ritenuto marginale (pag. 3). p.3.d) La posizione di (omissis).

Si tratta di funzionario dell’azienda di credito Bank of America.

Il suo ruolo, confinato nell’imputazione sub e), ha perso effettivo interesse in considerazione del proscioglimento nel merito per alcune ipotesi e della estinzione dei residui reati ascrittigli per prescrizione.

Il ricorso dell’imputato si fonda sulle seguenti censure:

1) Inosservanza della legge processuale e carenza di motivazione relativamente all’individuazione del giudice territorialmente competente, che sottolinea come il nuovo codice di rito non rischiami il requisito della identità di fase nel caso di connessione di procedimenti, essendo la connessione criterio originario e principale per la determinazione della competenza;

2) erronea applicazione della legge penale e carenza di motivazione in relazione all’eccepito assorbimento dell’aggiotaggio nei fatti di bancarotta fraudolenta (segnatamente in relazione alla previsione dell’art. 2638 cod. civ., richiamato dalla L. Fall.art. 223, comma 2, n. 1, ma che il Pubblico Ministero di Parma rubricò quali ‘operazioni dolosè);

3) violazione dell’art. 522 c.p.p., per avere rigettato l’eccezione di carente correlazione tra accusa (che ravvisava l’oggetto del informazione in una operazione di equity ma i destinatali non erano gli investitori) e decisione (di prescrizione), poichè l’obiezione era relativa ad un diverso oggetto della comunicazione ritenuta infedele, senza rassegnare al proposito alcuna motivazione;

4) erronea applicazione della legge penale e contraddittorietà della motivazione, quanto alla responsabilità a titolo di concorso di persone nel reato proprio, in assenza di ogni contributo causale fornito dall’imputato ai vertici di PARMALAT;

5) inosservanza della legge processuale per avere omesso di condannare le parti civili alla rifusione delle spese dell’imputato pur a fronte del rigetto del gravame da parte della Corte d’Appello.

Correlata a questa impugnazione è quella del Responsabile civile BANK OF AMERICA (originariamente interessato anche dalle imputazioni mosse a (omissis) e (omissis), di poi assolti nel merito).

Questi ha interposto ricorso avverso la sentenza (limitatamente all’addebito di cui al capo E1) sulla base dei seguenti motivi:

a) carenza e contraddittorietà della motivazione quanto alla determinazione della competenza territoriale poichè erroneamente è stato disatteso il criterio della connessione ex art. 16 c.p.p., che è criterio principale ed esclusivo; criteri che non suppone l’identità della fase processuale; erroneamente è stata rigettata la questione di legittimità costituzionale in reazione all’art. 12 c.p.p., lett. c), e art. 16 c.p.p., al cospetto degli artt. 25 e 76 Cost., risultando sussistente l’interesse all’impugnazione;

b) carenza ed illogicità della motivazione nella reiezione della configurata preclusione ex art. 649 c.p.p., della condotta di aggiotaggio con quella di operazioni dolose ravvisate dall’Autorità Giudiziaria di Parma, attesa la giurisprudenza delle Sezioni Unite che – accolta una larga nozione della litispendenza – impone la riunione dei procedimenti ovvero che venisse sollevato conflitto di competenza a favore dell’Autorità Giudiziaria di Parma;

c) erronea applicazione della legge penale con riguardo al concorso di persone nel reato, non avendo S. (extraneus rispetto al reato proprio) contribuito alla redazione del comunicato 22.12.2999, ritenuto falso, ma avendo soltanto avanzato al TO. una precisazione quanto all’entità dell’aumento di capitale, un rilievo che evidenziava errore materiale, condotta, quindi, coerente con il ruolo, nella vicenda, proprio della banca, senza entrare nella veridicità del messaggio; nè il rinvenimento delle bozze del documento giustifica la lettura data dalla Corte territoriale;

d) erronea applicazione dell’art. 187 T.U.F., poichè la notizia non era falsa ma soltanto fuorviante. p.4 I ricorsi delle Parti civili e le memorie difensive. p.4.a) le parti civili (omissis) + 16 (avv. (omissis)) interpongono ricorso avverso l’assoluzione di (omissis) e di (omissis), sulla base dei seguenti motivi:

– previa rivendicazione della legittimità del ricorso, anche in assenza di previo appello della sentenza di assoluzione, si rileva l’erronea applicazione della legge penale poichè (previa rassegna delle disposizioni in materia) gli amministratori indipendenti hanno l’obbligo di agire in maniera informata: la notizia riferita allo (omissis) da (omissis) forniva adeguato ragguaglio sulla situazione fallimentare della società, ed imponeva l’obbligo di impedire i successivi comunicati;

– la parte insta, inoltre, per la liquidazione delle somme richiesta dalle parti a titolo di risarcimento, essendo ormai nota e definita la misura del danno patito.

In data 19.4.2011 la stessa difesa avanzava Memoria che ricostruendo la fattispecie a tutela della trasparenza per una corretta informazione al mercato mobiliare, giudicando completa a corretta la motivazione della Corte territoriale e dimostrata la legittimazione dei creditori alla richiesta di risarcimento. p.4.b) Sono state, inoltre, depositate le seguenti Memorie da parte di:

FARMALAN DAIRIES LLC LITIGATION TRUST (avv. (omissis)), depositata in data 16.4.2011, si propone di contrastare i ricorsi degli attuali imputati e rammenta che:

– attiene al fatto l’istanza del (omissis) di riaprire l’istruttoria dibattimentale con l’escussione di tutti i risparmiatori danneggiati, onde comprendere quale fu la ragione del loro sfortunato investimento; e (pag.7/8) agli effetti della responsabilità per i danni civili la determinazione del risparmiatore non assume interesse;

– irrilevante la difesa del (omissis) quando lamenta l’omessa considerazione della marginalità del proprio ruolo nella vicenda;

– correttamente la Corte territoriale ha riconosciuto la provvisionale sul danno patito da FARMALAN DAIRIES, in forza della puntuale dimostrazione fornita;

– è indubbio l’apporto degli imputati, rappresentato dalle condotte di aggiotaggio, alla verificazione del danno in capo ai risparmiatori poichè nessuno di essi avrebbe investito nel titolo, se avesse conosciuto lo stato di dissesto del gruppo; del resto, il danno ex art. 185 c.p. non deve necessariamente conseguire in via diretta ed immediata alla condotta illecita ed inoltre la responsabilità risarcitoria grava in forma solidale su coloro che hanno contribuito al verificarsi dell’evento illecito (anche se il reato ascritto sia diverso); infatti, la Corte d’Appello ha precisato che l’aggiotaggio ha contribuito ad incrementare il passivo attesa la percezione di normalità del gruppo emittente; nell’interesse di (omissis) (avv. (omissis)), depositata il 15.4.2011, volta a rigettare il ricorso delle parti civili patrocinate dall’avv. (omissis) (parti (omissis) + 16) perchè:

– il ricorso è inammissibile a seguito della giurisprudenza per cui “è inammissibile, per mancanza di interesse, il ricorso per cassazione proposto dalla parte civile avverso la sentenza d’appello, qualora la stessa non abbia impugnato la decisione di primo grado a lei sfavorevole, in quanto tale mancata impugnazione nei termini comporta l’acquiescenza alla sentenza di primo grado in applicazione dell’art. 329 c.p.p.; ne deriva che la parte civile, qualora voglia ottenere una modifica della pronuncia di primo grado in senso per lei vantaggioso, deve proporre rituale impugnazione senza che a tal fine possa valersi dell’eventuale gravame del p. m., il quale mira a conseguire finalità del tutto diverse1 (Cass. pen., 23 settembre 1986, Di Sario; seguita da giurisprudenza assai recente Cass. Sez. 5^, 10 novembre 2010, n. 1461; Cass., Sez. 6^, 13 ottobre 2009, CED Cass. 245477);

– esso è, inoltre, manifestamente infondato non rilevandosi carenza nell’indagine sul dolo eventuale in capo allo SC., come osservato dalla Corte milanese;

– è, ancora, inammissibile perchè si sostanzia nell’istanza volta a ricostruire il fatto in maniera diversa da quanto ritenuto dai giudici del merito, essendo esso soppesato attentamente dalla Corte d’Appello segnalando che era impensabile, senza una verifica concreta e convincente, rivelare le notizie apprese da (omissis) al Consiglio di ammoni trazione del 9.12.2003. nell’interesse di CONSOB (che non ha avanzato ricorso avverso la decisione della Corte territoriale milanese), depositata il 14.4.2011, costituto che si oppone, con lunga e motivata argomentazione, alle istanze liberatorie interposte da (omissis) a vario titolo. nell’interesse delle parti civili (omissis) + 32.000 (prof. (omissis)) che ha confutato specifici rilievi degli imputati, temi ripresi nell’arringa del 2.5.2011 in relazione, alla competenza territoriale al nesso causale tra il reato ed il pregiudizio patrimoniale (nonchè all’onere probatorio in merito ad esso, alla misura del danno, all’ininfluenza di condotte di terzi come quella di intermediari finanziari come aziende di credito frappostisi tra le informazioni da PARMALAT e la determinazione dell’investitore, all’obbligo di devolvere la questione al giudice civile), alla denegata indeterminatezza dei capi di accusa, alla infondatezza della necessaria audizione dei risparmiatori danneggiati da parte dei giudici del dibattimento, alla prescrizione dei reati, sulla misura della provvisionale;

nell’interesse di (omissis), Memoria depositata il 29.4.2011 volta alla dichiarazione di inammissibilità dell’impugnazione delle parti civili patrocinate dall’avv. (omissis);

nell’interesse delle parti civili ((omissis) + 596) patrocinate dall’avv. (omissis) del Foro di Mondovì, depositata il 29.4.2011, insta per la dichiarazione di inammissibilità dell’impugnazione per motivi analoghi alla precedente memoria. in diritto. p.5 Le eccezioni preliminari e processuali. p.5. a) La prescrizione dei reati.

Con i motivi aggiunti e depositati da ultimo (13.4.2011), la difesa di (omissis) ha eccepito la prescrizione dei reati e, sul punto, è tornata la difesa nella sua arringa di udienza.

Il motivo è in buona parte fondato.

La sentenza di primo grado è stata emessa in data 18.12.2008, sicchè – ai sensi della L. 5 dicembre 2005, n. 251art. 10, comma 3, – il computo prescrittivo dipende dalla nuova disciplina conseguente alla riforma dell’art. 157 c.p..

Considerata la pena edittale detentiva, relativamente ai delitti per cui (con riferimento alle norme vigenti all’epoca dei fatti) è intervenuta la condanna e per cui è ricorso, artt. 26372638 e 2624 c.c., art. 185 T.U.F. (trattandosi di società quotata in borsa), la durata del decorso, segnato da interruzione è, per tutti gli addebiti, di anni sette e sei mesi.

Sono intervenute, nel corso del primo e secondo grado, cause di sospensione, per tutti gli addebiti per complessivi giorni 127.

Circostanze che non sono state oggetto di contestazione.

L’imputazione annovera fatti tra loro collegati da vincolo di continuazione, ma – per la nuova disciplina della prescrizione – il computo deve esser parcellizzato per ogni fatto di reato.

Da tanto discende che, seguendo gli episodi di aggiotaggio, di cui al capo a), come ricostruiti dalla sentenza del Tribunale (Sent. Trib., pag. 104/111), può ritenersi che una prima tranche dei comportamenti illeciti si siano consumati alla data del:

– 27.2.2003;

– 28.3.2003;

– 10.4.2003;

– 30.4.2003;

– 18.6.2003;

sicchè, integrandosi queste epoche con la sospensione del periodo prescrittivo, si accerta – per essi – la già avvenuta maturazione della causa di estinzione, da fissarsi in epoca antecedente al mese di maggio 2011. Pertanto, al riguardo, e limitatamente a questi episodi, la sentenza deve essere annullata senza rinvio.

In relazione al reato di cui all’art. 2638 c.c., il momento del compimento della causa estintiva decorre dal verificarsi del primo episodio, il quale datò del 10.7.2003.

Considerata la sospensione del decorso prescrizionale, la causa estintiva viene a fissarsi il 17.5.2011, data successiva al presente dibattimento.

Il fatto illecito non è, dunque, prescritto.

Risultano, invece, già prescritti gli addebiti di cui ai capi c) (fatti addebitati a DELOITTE & TOUCHE) e d) (fatti addebitati a GRAN THORNTON), per le condotte commesse nel dicembre 2002 (data di estinzione: 4.11.2010) e per quelle successive, rilevabili sino al giugno 2003.

Per quel che riguarda la rideterminazione della pena si rinvia alla parte finale di questo provvedimento.

Per i fatti commessi successivamente agli inizi di luglio 2003, compresi nel presente processo, è cioè le condotte di aggiotaggio, l’estinzione (successiva, comunque, alla decisione di primo grado e di appello) si fissa alle date 10.7.2003, 11.9.2003, 15.9.2003, 10.11.2003, 11.4.2003,27.11.2003, 8, 10 e 12.12.2003. Sicchè per essi la prescrizione non è a tutt’oggi compiuta.

Per quanto trae ai capi afferenti alla responsabilità degli imputati nel loro rapporto con i revisori si rileva che i fatti compresi nell’esercizio 2002 (segnatamente la falsa revisione resa nel dicembre di quell’anno) si sono prescritti al 4.11.2010.

Mentre non sono ancora prescritte le condotte del dicembre 2002 (che verranno ad estinzione nel novembre 2011).

Sono anche estinti per prescrizione i reati dedotti dal capo e), in relazione alla commissione dei relativi fatti in epoca successiva al luglio 2003: in questa ottica, dal capo di imputazione si evince la causa estintiva soltanto quanto al n. 3) della rubrica e soltanto per gli information memorandum predisposti e diffusi nell’agosto 2003.

Ma la condotta non assume interesse, per l’assenza di connotazione illecita (cfr. Sent. C. App. pag. 162/168).

La difesa di (omissis), all’odierna udienza, ha avanzato dubbi sull’effettiva potenzialità sospensiva del corso della prescrizione assegnata ai rinvii di udienza disposti nei giudizi di merito dal redattore della sentenza di seconde cure.

Il rilievo è privo di fondamento. Ed, invero:

– la prima critica si indirizza alla sospensione concessa in ragione dell’impedimento del difensore, ragione di due rinvii del dibattimento. Ma questo motivo è espressamente previsto dall’art. 159 c.p., comma 2, n. 3.

– per quanto trae alla vicenda connessa all’astensione collettiva degli avvocati dalle udienze, l’assenza dell’efficacia sospensiva in questa ipotesi di rinvio, secondo la difesa di T., discenderebbe dal fatto che la medesima difesa ebbe a dichiarare di non voler seguire l’iniziativa degli altri difensori e di intendere proseguire nel corso della vicenda processuale.

Ma, se è vero che, secondo giurisprudenza prevalente, l’astensione indetta dagli avvocati in sè non integra valido motivo di sospensione del corso prescrizionale, trattandosi di esercizio di un diritto di libertà sindacale e non di vero e proprio impedimento del difensore (cfr. ex multis, Cass. pen., sez. 2^, 12 febbraio 2008, n. 20574, Rosano), purtuttavia la manifestazione della diversa volontà dei difensori del T. non assume rilevanza, essendo mancata espressa istanza da parte dei difensori dell’attuale ricorrente, domanda che avrebbe dovuto essere formalmente annotata a verbale e volta a segnalare la diversa determinazione dei difensori, con contestuale domanda di separazione dei procedimenti e di prosecuzione della vicenda nei confronti della sola parte che non intese aderire allo sciopero.

Nulla di tutto ciò occorse e, per quel che è dato conoscere, l’atteggiamento della difesa dell’attuale ricorrente si concretò in una mera intenzione, una riserva mentale, scevra da esiti processualmente apprezzabili.

– analoga è la conclusione per quanto riguarda la vicenda che portò i giudici a fissare un termine entro cui dirimere la supposta incompatibilità difensiva dell’avv. (omissis).

La decisione di sospendere il corso del processo è ipotesi regolata dall’art. 106 c.p.p., norma che, al secondo comma, espressamente prevede la determinazione di un lasso di tempo capace di permettere la rimozione della patologia processuale ostativa all’esercizio della corretta difesa della parte. Dunque, poichè non determinano l’effetto sospensivo del termine di prescrizione del reato quelle cause che seguono ad ipotesi obbligatoria, imposta al giudice da una particolare disposizione di legge, il rinvio disposto ai sensi dell’art. 106 c.p.p., comma 2, si sottrae al regime dettato dal novero delle ipotesi sospensive del corso della prescrizione, in ragione della disciplina enunciata dall’art. 159 c.p., comma 1.

Con riguardo alla previsione di cui all’art. 129 c.p.p., comma 2, è agevole osservare che per tutti gli imputati è indubbiamente prevalente sulla formula di merito ancorata alla prescrizione: per nessuna delle relative posizioni, invero, può affermarsi l’evidenza della prova di innocenza a fronte delle risultanze acquisite.

Segnatamente, in relazione ai reati di cui sono chiamati a rispondere -escludendo le doglianze di ordine processuale, non interessanti questo profilo e qui richiamando tutto quanto sarà oltre osservato – le risultanze esposte dalla Corte d’Appello, conclusasi con la condanna dei prevenuti, di per sè sole precludono la possibilità di adire un proscioglimento nel merito. Al contempo, deve osservarsi come nessun ricorrente ha negato la ricorrenza oggettiva dei fatti, limitandosi, piuttosto, a comprimerne la rilevanza o dubitando dell’importanza del partecipazione fornito da ciascun compartecipe ai fatti ovvero screditando la certa ricorrenza del profilo soggettivo;

il disastro finanziario, d’altra parte, attesta la commissione di gravi condotte alterative dei dati interessanti gli investitori, ovvero comportamenti di inganno verso CONSOB e di concorso nell’esito illecito con le società di revisione che assecondarono gli intenti fraudolenti dei vertici del gruppo parmense. Si tratta di principi di prova idonei ad escludere quell’evidenza dell’innocenza, che sola può giustificare l’assoluzione nel merito di cui all’art. 129 cpv. c.p.p., l’evidenza dell’innocenza è concetto che sottende la manifestazione di una verità processuale così chiara, manifesta ed obiettiva, che ogni dimostrazione appaia superflua, concretizzandosi, così in qualcosa di più di quanto la legge richieda per l’assoluzione ampia, oltre la correlazione ad un accertamento immediato.

5. b) La questione coinvolgente la competenza territoriale, avanzata da (omissis) e da (omissis) e proposta anche dal responsabile civile BANK OF AMERICA. Occorre svolgere una breve premessa in via generale.

L’eccezione di competenza territoriale è stata svolta dai ricorrenti, nel presente procedimento, con riguardo a tre parametri di valutazione:

1) il locus commissi delicti;

2) la connessione con altri reati;

3) l’assorbimento dei delitti qui ascritti agli imputati, in altra fattispecie;

per la completezza del discorso, occorre una partita disanima di questi referenti processuali.

4bl) L’art. 8 c.p.p., comma 1, stabilisce che la competenza per territorio è determinata dal luogo in cui il reato è stato consumato: il locus commissi delicti è il criterio che integra il requisito della “naturalità” del giudicante, richiesto dall’art. 25 Cost., comma 1 (così, secondo la costante giurisprudenza costituzionale, attese le ragioni di prossimità dell’AG. al fatto, ed alle istanze di celere raccolta delle prove, agevolando anche l’esercizio del diritto di difesa).

Poichè, come esattamente ricordato all’udienza dal Procuratore Generale e come si ribadirà ancora in prosieguo, il delitto di aggiotaggio è un reato di mera condotta (di pericolo concreto) e che, pertanto, “uno actu perficitur” l’illecito si consuma nel momento stesso in cui la notizia, foriera di scompenso valutativo del titolo, viene comunicata o diffusa e, cioè, esce dalla sfera del soggetto attivo.

Per la sua ricorrenza è, quindi, sufficiente che siano poste in essere le cause dirette a cagionare una sensibile alterazione del prezzo degli strumenti finanziari quotati nelle liste di borsa, senza che sia necessario il verificarsi di questo evento (il quale se si verifica, è posto a carico dell’agente nel contesto dell’art. 501 c.p., come circostanza aggravante, ma non delle fattispecie descritte dall’art. 2637 c.c. o da quelle del D.Lgs. n. 58 del 1998).

Gli accertamenti svolti nelle fasi del merito hanno appurato che, nel caso di PAR. FIN., la “diffusionè” dell’informazione illecita avvenne mediante l’inserimento della stessa nel sistema informativo del mercato di Borsa. Vale a dire, con l’immissione nel server del “Network Information System – NIS”, sistema che mette a disposizione degli operatori finanziari e dei risparmiatori la notizia (cfr. Sent.

Trib., pag. 32/33). In tal modo consentendo alla notizia una comunicazione estesa a tutti i possibili interessati (Sent. Trib., pag. 33; cfr. per un’ipotesi analoga Cass., Sez. 3, 9.6.2009, Ratschiller ed altro, CED Cass. 244595).

Poichè i comunicati del novero societario PARMALAT erano trasmessi al mercato mobiliare dal “NIS'”operativo in Milano (come dimostrato a pag. 34/35 della detta sentenza, mediante le dichiarazioni di (omissis), (omissis), (omissis), (omissis) che hanno descritto la prassi operativa interna al gruppo, non sono, invero, convincenti le critiche – integralmente articolate in fatto – svolte al proposito dal ricorso T., poichè i deposti sono sufficientemente nitidi e provenienti da persone competenti), i giudici del merito hanno giustamente individuato nel capoluogo lombardo il luogo della commissione del reato e, quindi, della competenza territoriale, ivi essendosi consumato il reato (o ciascun frammento della vicenda continuativa di aggiotaggio). Non essendovi, d’altra parte, possibilità di distinguere, nella struttura di reato di “pericolo concreto”, il momento dell’invio della notizia rispetto a quello della possibilità della rilevante alterazione del corso dei valori, non è corretto assegnare interesse ad un successivo tempo della condotta illecita. Del resto, anche per questo secondo momento il locus commissi delicti deve identificarsi in Milano, ove risiedono gli uffici della Borsa Valori, al cui interno si sarebbe palesata l’idoneità effettiva dell’informazione, protesa ad alterare il valore degli strumenti finanziari interessati.

La difesa di (omissis) (così quella di (omissis) e di BANK OF AMERICA) contesta questa conclusione, lamentando la scorretta fissazione della competenza in Milano del giudice chiamato a conoscere del reato di manipolazione informativa.

Il ricorso di (omissis) ha sottolineato che l’azione ingannevole (predisposizione di dati informativi mendaci sulle condizioni delle società del gruppo) si sarebbe venuto a consumare sistematicamente in (omissis), ove si tenevano i Consigli di amministrazione. E’ nel contesto di quelle riunioni – si afferma – che i primi destinatali dei ragguagli infedeli espressi dalla dirigenza ((omissis), (omissis), ecc.) furono proprio gli amministratori medesimi, chiamati a soppesare gli schemi di bilancio o di prefigurare il testo dei comunicati medesimi a divenire destinatali dell’informazione criminosa. Quali primi percettori del dato manipolato essi davano vita (ancorchè ignari e non partecipi della condotta delittuosa) all’avvìo della fattispecie di aggiotaggio.

Soggiunge la difesa che, infatti, la struttura letterale del testo normativo, con l’utilizzo del verbo “diffondere” include ogni modalità di ragguaglio, in guisa più estesa che quella (presente nella precedente versione legislativa) di divulgazione. Trattandosi di un primo episodio in una serie continuativa, esso determina la complessiva legittimazione giudiziale a trattare il processo.

Risulterebbe, di conseguenza, passaggio giuridicamente ininfluente quello che facesse leva su successivi accadimenti verificatisi presso la sede del gruppo in Milano (e del luogo dal quale – come dianzi detto – i comunicati illeciti erano diffusi al mercato, mediante il sistema NIS, cfr. Sent. C. App., pag. 94 e ss., sulla base della dep. (omissis), responsabile dei rapporti con il mercato e presente all’ufficio sito in Milano, che riceveva la bozza delle comunicazioni redatte in (omissis) e destinate alla divulgazione, la quale attesta come i comunicati stampa di vicende occorse in (omissis) erano, in realtà, trasmessi (“diffusi”) dalla sede di (omissis)).

L’argomentazione difensiva non è convincente.

Innanzitutto, non ha pregio la lettura (ricorso (omissis)), ancorata ad una stretta letteralità, della norma – vigente all’epoca – cioè l’art. 2637 c.c., laddove definisce l’azione illecita nella “diffusione” delle notizie false, formulazione formalmente diversa da quella di “divulgazione”, così da contrassegnare l’azione criminosa nella comunicazione limitata ad una ristretta cerchia di persone.

L’elegante disquisizione sulla differenza tra divulgare e diffondere palesa (come opinato anche da parte attenta dottrina che si è soffermata sul rilievo linguistico della disposizione) la sua irrilevanza, nel caso qui esaminato, laddove si consideri la natura della notizia oggetto materiale del reato. Il legislatore ha abbandonato la precedente versione (che includeva anche le notizie false e tendenziose), ma ha mantenuto il verbo proprio della diffusione (che era in precedenza utilizzato soltanto dall’art. 2628 c.c.) senza curarsi del limitrofo concetto di “divulgazione” (proprio sia dell’art. 501 c.p. sia del D.Lgs. n. 58 del 1998art. 181), poichè la più autorevole dottrina dell’epoca lo ritenne un mero sinonimo del comportamento qui censurato (mentre potrebbe diversamente opinarsi se i due diversi verbi fossero calati nel contesto del reato dettato dall’art. 600 c.p., comma 3, in cui il richiamo alla “diffusione” fu aggiunto alla L. 6 febbraio 2006, n. 38art. 2, comma 3, epoca, oltretutto, successiva ai fatti in esame).

Ciò premesso, il Collegio osserva che – comunque – non è possibile, se non a costo di configurare un atto illecito in capo ai preposti al gruppo societario, supporre che i ragguagli percepiti nel chiuso di un Consiglio di amministrazione ovvero di poi appresi dai dirigenti in Milano nelle fasi prodromiche alla sua trasmissione all’esterno, potessero essere oggetto del reato di aggiotaggio.

Infatti, a ragione la Parte civile CONSOB (Memoria 13.4.2011, pag. 5) ricorda che il tratto essenziale della fattispecie si rinviene nella comunicazione al pubblico, cioè, ad un numero indeterminato di persone, con esclusione del rilievo della informazione rivolta ad un solo o a pochi destinatali. Ma, soprattutto, questa Corte sottolinea che questa condotta riguardava informazioni dai connotati ‘privilegiati1 (informazione specifica, di contenuto determinato, che il pubblico non disponeva), connotazioni che, in forza della fattispecie di cui al D.Lgs. n. 58 del 1998art. 184, comma 1, lett. c), impediscono a chi le possiede di comunicarle ad altri, al di fuori del normale esercizio del lavoro o della sua funzione o del suo ufficio. Una volta venuti in possesso di quelle notizie, gli amministratori di (omissis) ed i dirigenti operativi in (omissis) -perciò solo – erano obbligati a modalità comunicative a terzi, esterni alla società, mediante prescritte modalità, essendo essi gravati dall’obbligo di abstain, perdurante durante il possesso dell’informazione privilegiata.

Al contempo, la cadenza modale (obbligatoria), disciplinata dal D.Lgs. n. 58 del 1998art. 114, era l’unica che consentisse la diffusione della notizia fuori dalla sfera di PAR. FIN. e fuori di essa, proprio in ragione della severa tutela della informazione destinata al mercato degli investitori, ogni comunicazione di natura ‘privilegiatà, si connotava per la riservatezza.

Ne consegue che ogni fatto materiale, antecedente alla formale disclosure da parte della società, doveva assumersi come dotato di valenza esclusivamente interna all’organismo societario ed irrilevante ai fini informativi (ovvero, illecito).

Tornando, dunque, al caso qui dedotto, soltanto con il formale “invio” e con il comunicato stampa, autorizzato dai preposti alla governance della società, può ravvisarsi la effettiva comunicazione al mercato dei risultati di bilancio consolidato (portante indicazione manipolata dei margini operativi al lordo ed al netto, per l’esercizio 2002), quali concordati nella seduta di consiglio di amministrazione del 28.3.2003 di PAR. FIN. Spa. L’invio del comunicato fu operazione espletata in Milano, ivi, pertanto, si consumò l’aggiotaggio informativo.

L’ipotesi “ricostruttiva” della dinamica dei fatti occorsi il 28 marzo 2003, effettuata dalla difesa, risulta sprovvista di sostegno probatorio ed anche inammissibile in quanto alternativa a quella affacciata dal giudice del merito. Infine, si appalesa irrilevante (una volta considerato che il comunicato trasmesso da (omissis) a (omissis) era ancora frutto di una fase interna all’organismo emittente e non ancora integratore di manipolazione informativa) per le ragioni sopra esposte.

Giustamente silente è al proposito la decisione impugnata sull’ipotesi per cui da (omissis) siano stati trasmessi direttamente ad agenzie di stampa i dati sulla situazione finanziaria del consolidato (Motivi T. pag. 8/9), perchè di questa supposizione non vi è riscontro agli atti (o, se si vuole, il ricorso viola il principio di autosufficienza nell’omettere cenno di sorta al riguardo). p.5.b 2) Le difese (di (omissis), (omissis), BANCA OF AMERICA) hanno, in secondo luogo, invocato la relazione di connessione, che legherebbe le vicende milanesi a quelle dibattute avanti il Tribunale di Parma e che influisce sulle individuazione della competenza territoriale.

Anche siffatta prospettazione dell’eccezione di incompetenza territoriale, avanzata sotto quest’altra visuale processuale, non viene accolta, perchè infondata.

Nel nostro sistema processuale, la competenza territoriale dispone di paradigmi meno vincolanti di quelli previsti per quella funzionale o per materia. Poichè non incide su profili essenziali della legittimazione del giudice, l’interesse mostrato dal legislatore al proposito è piuttosto quello della celerità processuale, poichè la definizione del giudice competente attiene, in ultima analisi, a ragioni di speditezza (istanza che prevale anche sulla necessità dell’esatta identificazione del giudice) e praticità (individuazione del giudice che sia più prossimo ai fatti ed al loro accertamento).

Un aspetto che, quindi, resta collaterale alla vicenda processuale.

Tanto spiega gli stretti termini di decadenza entro cui può esser fatta valere la relativa eccezione, come si rileva dall’art. 21 c.p.p., comma 2, e art. 491 c.p.p., sia essa originaria sia che derivi da connessione e, soprattutto – rilievo che giustifica l’effetto conservativo della affermata competenza – pur al succedersi di eventuali successive vicende che, in linea astratta, potrebbero comportarne il mutamento, grazie anche alla regola della perpetualo jurisdictionis, che fornisce, nella vicenda processuale, un supporto stabilizzante alla determinazione della competenza.

Sempre nell’ottica pragmatica a cui si ispira sul punto la legge processuale, si comprende la regola identificativa del referente sul quale deve essere individuata la competenza territoriale.

Vale a dire il compendio processuale acquisito al momento in cui trae origine l’azione penale.

Da tanto consegue che il vaglio della competenza territoriale deve riguardarsi sulla scorta delle acquisizioni processuali acquisite al momento della formulazione dell’imputazione da parte della pubblica accusa (corredo probatorio depositato anche alle parti private, comprensivo anche delle eventuali produzioni effettuate) o del termine ultimo entro cui può essere formulata l’eccezione di incompetenza (anche quella derivante dalla connessione), vale a dire quello indicato dall’art. 491 c.p.p.. Su questo medesimo compendio deve fissarsi anche la valutazione del giudice di impugnazione, che mediante vaglio ex ante individuerà la competenza territoriale “non potendo quanto di diverso eventualmente evidenziato dalla successiva dinamica dibattimentale essere preso in considerazione per tale verifica, che ha ad oggetto la correttezza o meno della soluzione adottata in ordine a questione preliminare che, proprio perchè tale, non implica il confronto con gli esiti istruttori del dibattimento…” (cfr. Cass. Sez. 6, 5 ottobre 2006, Battistella ed altri, CED Cass. 234348, in motivazione).

Per questo motivo lo sviluppo argomentativo esposto dai ricorrenti, nella parte in cui evocano la connessione con il procedimento apertosi in Parma, vertente sull’accusa di bancarotta fraudolenta societaria, scema di interesse, anche a prescindere dalla reiterata proposizione dell’eccezione formulata nel contesto della vicenda parmense.

Invero, quest’ultima prese corpo successivamente all’avvio del procedimento apertosi in (omissis), sicchè – per quanto dianzi osservato – gli eventi collegabili a questa nuova procedura non possono influire sulla determinazione della competenza territoriale, già definita per il giudice milanese, fissazione che si consolida nel prosieguo per il principio della “perpetuano jurisdictionis”.

5. b 3) Ulteriore istanza difensiva (cfr. Motivi (omissis), (omissis) e Bank of America), afferente al tema della incompetenza territoriale dell’Autorità Giudiziaria milanese, è proposta nell’invocazione dell’assorbimento del delitto di cui all’art. 2638 c.c., in quello di bancarotta fraudolenta impropria (L. Fall.art. 223, comma 2, n. 1, con peculiare riferimento ai fatti di false comunicazioni sociali, ovvero con riguardo all’art. 223, comma 2, n. 2, con richiamo alle c.d. “operazioni dolose”).

La domanda ha una sua apparente giustificazione, considerata sia la (sostanziale) soggettività “propria” della fattispecie, sia la modalità commissiva del delitto di aggiotaggio, sia la qualità della comunicazione diffusa, tanto che il Procuratore Generale, nella sua requisitoria di udienza, e lo stesso difensore del ricorrente (omissis), hanno segnalato l’istintiva tendenza degli inquirenti nell’attuale processo alla confusione dei due tipi di reato. Ma tanto non giustifica affatto quell’omogeneità di figure criminose che possa legittimare l’assorbimento.

Ed, anzi, in tema di bancarotta fraudolenta societaria le condotte di infedeltà della comunicazione sociale e quelle di aggiotaggio per manipolazione dell’informazione diretta al mercato possono concorrere tra loro. Non tanto per la diversità dei beni giuridici protetti, criterio che – come giustamente ha sottolineato il Procuratore Generale all’udienza – non è sempre di utilità, per la incertezza dell’oggetto protetto, ma perchè evidente è la difformità strutturale delle rispettive fattispecie.

Basti infatti por mente che:

– il “fatto” previsto dall’art. 2622 c.c., richiamato nel catalogo della L. Fall.art. 223, comma 2, n. 1, è indubbiamente un reato ad evento di danno, ed il pregiudizio è ravvisabile per una limitata categoria di destinatali, la massa dei creditori;

– per la medesima ragione, ulteriore profilo differenziale sta nella configurazione dell’aggiotaggio quale reato di concreto pericolo, mentre l’infedele comunicazione sociale nella prospetta ione dell’art. 2622 c.c. è reato ad evento di danno;

– l’aggiotaggio rinviene momento consumativo nell’azione della diffusione della notizia manipolati va, mentre l’altra figura si consuma (ed ivi radica la competenza territoriale del giudice) con le accertate conseguenze pregiudizievoli maturate in capo al destinatario dell’informazione dannosa;

– i soggetti attivi sono esponenti societari nel reato di infedele comunicazione sociale, mentre, seppur formalmente indeterminata (attesa la necessità di armonizzare la previsione anche per l’ambito bancario) la categoria dei soggetti dell’aggiotaggio si restringe in ragione della descrizione modale dell’azione vietata;

– la manipolazione informativa non è momento integrativo della comunicazione sociale di cui all’art. 2622, la quale ultima rispetta – nel suo profilo oggettivo – la disciplina dettata dall’art. 2423 e ss., mentre la notizia dedotta dall’art. 2637 c.c., norma incriminatrice vigente all’epoca del fatto, doveva attenersi a quella propria del D.Lgs. n. 58 del 1998;

– l’oggetto materiale, costituito dalla notizia infedele, assume interesse illecito per ragioni difformi: in un caso il paradigma è la rilevanza quantitativa del mendacio, comparato con le risultanze patrimoniali/economiche del bilancio, nell’altro è la idoneità all’alterazione del corso del valore del titolo;

il dolo nell’aggiotaggio è generico (consistente nella coscienza e volontà di diffondere notizie manipolative), per contro il falso in bilancio richiede un momento soggettivo particolarmente qualificato (rilettura dell’abrogato avverbio “fraudolentemente” caratterizzante il vecchio art. 2621), ma un fine specifico di ingiustizia e l’intenzionalità rivolta all’inganno di soci o pubblico;

– il reato fallimentare presuppone la dichiarazione di fallimento in connessione causale con l’azione di infedeltà informativa, elemento essenziale della fattispecie, mancante in quella della norma sull’intermediazione finanziaria (così come, proprio in questo senso, non priva di significato è la consapevole omissione del delitto dell’intermediario finanziario nel catalogo di quelli elencati dalla L. Fall.art. 223, comma 2, n. 1);

– tutto ciò per tacere della eterogeneità dei fini sottesi alle due fattispecie incriminatrici, difformità che si riflette anche sulle modalità di commissione quale – come ricordato da alcune difese e dal Procuratore Generale all’udienza – l’istantaneità del danno alla persona offesa, connessa alla violazione dell’art. 2637 c.c., mentre la ben più complessa modalità lesiva conseguente alla complessiva notizia sulla situazione patrimoniale o finanziaria o economica della società quale desumibile dal bilancio.

Non sussiste, pertanto, omogeneità strutturale e si deve escludere qualsiasi rapporto di consunzione o di assorbimento o specialità della seconda fattispecie nella prima.

Sulla base di questo assunto si evidenzia l’inconsistenza anche dell’argomentazione che legge nella condanna ai sensi della L. Fall.art. 223, comma 2, n. 1, un momento preclusivo verso l’attuale azione penale, mancando ogni possibilità di cogliere l’identità del fatto, come previsto dall’art. 649 c.p.p., nella lettura resa da questa Corte (cfr. ex multis, Cass. Sez. Un. 28 giugno 2005, Donati, CED Cass. 231799).

I ricorsi sono al riguardo infondati e sono rigettati.

5 d) Sull’omessa citazione delle persone offese nell’economia probatoria dell’addebito di aggiotaggio: in particolare il reato di aggiotaggio ed il danno da esso derivante.

La difesa di (omissis) si duole, con il quarto motivo del ricorso, dell’omessa citazione dei testimoni, indicati nelle liste di cui all’art. 468 c.p.p. e dell’omessa acquisizione di ulteriori elementi probatori, tra cui le dichiarazioni di (omissis). Il ricorrente censura al riguardo anche la carenza e contraddittorietà della motivazione (ma trascura di segnalare le ragioni per cui detto apporto probatorio risulterebbe determinante per un esito diverso del processo).

L’interesse dell’imputato era quello di verificare in concreto, presso ciascuno dei 32.000 investitori danneggiati (oltre ad altri soggetti pregiudicati nel patrimonio dalla condotta di PARMALAT), se la determinazione di impiegare il proprio denaro nell’investimento nella società casearia fosse effettivamente derivato dai falsi comunicati diffusi da (omissis). Ma, più specificamente, posto che le attuali parti civili lamentano la produzione di un danno, l’impugnazione domanda la verifica se questo pregiudizio sia scaturito dall’azione decettiva di PAR.FIN., ovvero, da autonome informazioni, soprattutto quelle provenienti da altri intermediari finanziari (per es. il consiglio di altro operatore sul mercato, professionista nel settore, ecc.) e, soprattutto, dalla spregiudicata condotta di aziende di credito, interessate a disfarsi della dotazione di tìtoli ormai insuscettibili di rivendita, incautamente acquistati in precedenza, e della cui inconsistenza appresero ben prima del formale default per la loro posizione professionale, comportamento estraneo agli imputati, ma convergente nell’inganno.

Per questa via si è introdotta nel processo l’istanza volta a verificare la rilevanza del nesso di causalità tra l’illecito penalmente rilevante e la verificazione del pregiudizio patrimoniale che si suppone essere da questo conseguito, dando vita ad un dibattito giuridico dai delicati contenuti (su cui cfr. in particolare la Memoria di FARMLAND DAIRIES LLC. LITIGATION TRUST nonchè quella di identico contenuto depositata da AFLAC-AMERICAN FAMILY LIFE ASSURANCE e, segnatamente, b e c, pervenendo alla conclusione che in questo ambito assume precipuo rilievo la prova per presunzioni, come insegnato da Cass. Civ., SS.UU. 24 marzo 2006 n. 6572; nonchè memoria parti civili (omissis) + 16, depositata il 19.4.2011, che sottolinea anche il pregiudizio rinveniente dalla perdita di chance di investimento).

La sentenza impugnata prende atto che il rilievo difensivo attiene, innanzitutto, all’Ordinanza che limitava la lista testimoniale presentata dalla difesa ex art. 468 c.p.p., premessa che garantisce del fatto che i giudici di seconde cure non hanno identificato, come lascia supporre il ricorrente, la domanda probatoria con un’istanza di rinnovazione del dibattimento. Va, per vero, osservato che proponendosi quale mezzo di appello, la censura – nonostante il diverso parere del ricorrente – si traduce implicitamente pure in una domanda di rinnovazione ai sensi dell’art. 603 c.p.p., comma 1, e che, oggi, essa debba essere riguardata sotto questa veste.

Al proposito la Corte territoriale ha dichiarato (come anche il Tribunale) l’adeguatezza dell’apparato probatorio acquisito ai fini della propria decisione e tanto è sufficiente, secondo la consolidata lettura dell’istituto della rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, a ritenere legittima la reiezione, “attesa la completezza dell’istruttoria compiuta dal Tribunale” (Sent. C. App., pag. 100). Nel contesto, cioè, di una giustificazione adeguata secondo la lettura datane dal giudice di legittimità.

Nè siffatta risposta può essere riguardata come eccessivamente affrettata e non soddisfacente, adducendo il fatto che il quesito sugli effetti delle informazioni manipolative di PARMALAT nei confronti dei destinatati del mercato mobiliare ricorre nel contesto delle motivazioni delle due decisioni che hanno sinora scandito il processo. Infatti, i giudici della Corte milanese hanno anche soggiunto che una ragionevole conduzione processuale impedisce l’esame particolareggiato di ben 32.000 testimoni, dovendosi consentire la celebrazione del dibattimento in tempi ragionevoli, come impone l’art. Ili della Carta Fondamentale.

Osservazione che ha innescato ulteriore polemica (e prospettazione di questione di legittimità costituzionale) che ha rivendicato l’incomprimibilità dei diritti delle garanzie dell’imputato.

Si tratta, tuttavia, di doglianza destinata ad esaurirsi in poche battute di replica, sia perchè, nella sua radicalizzazione, finisce di perdere di vista che il diritto di difesa, al pari di tutti gli altri diritti sanciti dalla carta costituzionale, non può considerarsi assoluto e svincolato da qualsiasi limitazione, dovendosi coordinare con altre situazioni giuridiche soggettive od oggettive di rilevanza costituzionale e soddisfare anche il tempestivo esercizio della giurisdizione, una volta che siano assunti soltanto quegli incombenti probatori che il giudice – con determinazione suscettibile di controllo e rimedio – ritenga in dispensabili all’accertamento della penale responsabilità o dell’innocenza dell’imputato. Inoltre, la garanzia, dettata dal’art. 24 Cost., non attiene al massimo delle garanzie formali astrattamente concepibili, bensì alla tutela degli ambiti della relativa esplicazione nel rispetto del principio del minore sacrificio necessario, sicchè il diritto, costituzionalmente garantito, deve ritenersi violato solo quando il legislatore ordinario, nel disciplinare il diritto di difesa nelle varie fasi del processo, abbia formalmente o sostanzialmente escluso il diritto medesimo e non anche quando lo abbia soltanto sottoposto a ragionevoli limitazioni, raccordandolo al potere valutativo di chi è preposto istituzionalmente alla direzione del dibattimento.

Tutto questo dibattito (che si è anche esteso alla differenza della disciplina penale – ed alla conseguente diversità della relativa prova – rispetto a quella civilistica in tema di rapporto causale tra l’illecito ed il danno), tuttavia, si rivela ozioso perchè il motivo di impugnazione, nel suo contenuto, non presenta fondamento.

In primo luogo, va osservato che – come già esattamente accennato dalla Memoria della parte civile patrocinata dell’avv. Grosso, (omissis)+ 32.000 (oltre agli esatti rilievi portati dal 3) – l’aggiotaggio, quale delitto di pericolo, prescinde dalla necessaria dimostrazione di un evento e, cioè, del danno patrimoniale, cagionato ai destinatari dell’informazione decettiva. Donde l’irrilevanza della dichiarazione di chi, successivamente alla condotta delittuosa dell’autore di aggiotaggio, risulta essere danneggiato, per quanto concerne la definizione della penale responsabilità degli imputati (diversa, ovviamente, essendo il tema della definizione della loro responsabilità civile, argomento che verrà devoluto al giudice civile ai sensi dell’art. 622 c.p.p.).

Inoltre, il concorso di cause simultanee o preesistenti all’azione illecita che indebitamente abbia determinato l’investitore non esclude il rapporto di causalità, come dispone l’art. 41 c.p., comma 1.

Quest’ultima disposizione scredita di interesse la ricerca della causa esclusiva nell’efficienza del fatto occorso posto che l’art. 41 c.p., comma 2, nel momento in cui allude soltanto ai moventi del tutto autonomi, indipendenti ed estranei alla condotta, tali da sfuggire al controllo ed alla prevedibilità dell’agente. Il consiglio di un terzo (esperto, professionista, operatore specializzato, ecc.) mai avrebbe potuto, anche astrattamente, prescindere dall’influenza del dato di bilancio proclamato da PAR.FIN. (se non altro per esprimere un giudizio di personale discredito o, quantomeno, di perplessità).

L’eventuale concorrente distorsione della rappresentazione finanziaria indotta dai comunicati in discorso non può sicuramente configurarsi interruzione del rapporto causale, non trattandosi di fatto assolutamente anomalo ed eccezionale frapposto tra l’azione ingannatrice e la percezione del destinatario (cfr. Sent. Trib, pag. 333, ove il tema è espressamente ed adeguatamente trattato).

Infine, l’argomentazione è valida anche nel campo della responsabilità civile (l’art. 185 c.p., l’art. 74 c.p.p. e l’art. 2043 c.c. alludono a pregiudizi ‘cagionatì dall’illecito), poichè pure per questo ambito il nesso di causalità può escludersi solo se si verifichi una causa autonoma, rispetto alla quale la precedente sia da considerare tamquam non esset e, conseguentemente, scada a rango di mera occasione.

La responsabilità civile del colpevole sussiste non solo in relazione all’offesa del bene oggetto della specifica tutela penale, ma anche in relazione ad ogni altro interesse patrimoniale riconducibile nell’ambito della condotta delittuosa del condannato in virtù di un nesso di derivazione eziologico, (cfr. Cass. pen., 22 aprile 1989, Morelli, CED Cass. 182579).

Dunque, l’accertamento di un fatto potenzialmente produttivo di conseguenze dannose (qual è la condotta di mero pericolo, sottesa alla fattispecie di aggiotaggio) legittima la pronuncia della sentenza del giudice penale alla condanna generica al risarcimento dei danni, senza che sia necessaria quantificazione del pregiudizio (cfr. Cass. pen., sez. 6^, 26 febbraio 2009, Giorgio, Ced Cass. 243310).

L’onere dimostrativo sul punto è stato assolto dal giudice penale, senza necessità del ricorso a tramiti “controfattuali”: una volta dimostrata la falsità dell’informazione (circostanza non contestata dagli imputati) e, dunque, accertata l’obiettiva ricorrenza di un atto produttivo di potenziali conseguenze dannose, risulta legittima la pronuncia della sentenza di condanna generica al risarcimento dei danni, senza la necessità che il danneggiato provi l’effettiva sussistenza dei danni ed il nesso di causalità tra questi e l’azione dell’autore dell’illecito (cfr. Cass. pen., sez. 6^, 26 febbraio 2009, Giorgio ed altri, Ced Cass. 243310).

Al contempo, il quadro della vicenda, nella sua evidenza fraudolenta, non richiede di invocare, per l’accertamento degli effetti dannosi nei terzi, il ricorso a massime di esperienza, nè palesa la necessità di una specifica indagine psicologica (dai contorni incerti e controvertibili) nella mente dell’investitore danneggiato.

L’iter formativo della convinzione dell’investitore si presenta con tratti di indiscutibile chiarezza mediante la stringente esposizione della successione storica dei fatti e con il riscontro della pluralità di identici comportamenti (del tutto irragionevoli agli occhi di un investitore medio, consapevole della effettiva realtà di insolvenza dell’ente emittente) per sincerarsi dello stretto collegamento tra la mendace notizia e la scelta di investimento. p.5 e) La legittimazione delle parti civili (omissis) + 16 al ricorso.

(omissis) ed (omissis). sono stati assolti da tutti gli addebiti loro mossi (capi a, b, c, d dell’epigrafe), con formula di cui all’art. 530 c.p.p., comma 2, non essendo stata ritenuta raggiunta la prova piena sull’elemento soggettivo (cfr. Sent. C. App., 126/130).

Per il vero, la posizione di (omissis) era già giunta alla sicura irrevocabilità poichè il Pubblico Ministero non aveva appellato la decisione del Tribunale.

Mentre quella dello (omissis) era stata impugnata soltanto dalla pubblica accusa, ma non dalle parti civili.

Avverso questa soluzione liberatoria, “interpongono ricorso alla Corte di Cassazione le parti civili, patrocinate dall’avv. (omissis) ((omissis) + 16), hanno interposto ricorso lamentando l’l’inosservanza della legge penale, atteso il novero degli obblighi normativi (discendenti dal codice civile nonchè dal c.d. “codice di autodisciplina”), che gravano sull’amministratore indipendente che risulta gravato da una ‘posizione di garanzia rafforzatà (dei cui testi normativi rilevanti hanno effettuato rapida ricostruzione).

Con Memoria, depositata il 15.4.2011, la difesa di (omissis) eccepisce l’inammissibilità di questi ricorsi, allegando (tra l’altro) la carenza della loro legittimazione (oltre che la genericità della doglianza, non ancorata ad effettiva violazione di legge).

Il rilievo processuale (che si profila come preliminare al prosieguo dello scrutinio sul ricorso) richiama un (apparente) contrasto giurisprudenziale presente presso questo giudice di legittimità.

Da un lato, parte della giurisprudenza ritiene inammissibile l’impugnazione per cassazione proposta dalla parte civile avverso la sentenza d’appello, qualora la parte non abbia impugnato la decisione di primo grado, per lei sfavorevole. Si afferma, infatti, che il principio dell’immanenza degli effetti della costituzione di parte civile, di cui all’art. 76 c.p.p., può evocarsi nel rispetto di tutti gli altri principi, tra cui quello della tempestività dell’impugnazione, la cui mancanza determina il passaggio in giudicato della sentenza a norma dell’art. 329 c.p.c..

Si ritiene, inoltre, che il principio della “immanenza” della costituzione di parte civile sia destinato a produrre effetti in favore di questa, anche in presenza dell’appello del solo Procuratore della Repubblica contro la sentenza di assoluzione, ma soltanto qualora la decisione di secondo grado sia favorevole all’impugnante e, cioè, si tratti di pronuncia di condanna (cfr. Cass. Sez. 5^, 8 maggio 1998, SOGEAM, CED Cass. Rv. 211844 e, nello stesso senso, Sez. 6^, 13 ottobre 2009, Pubblico Ministero in proc. Miralo, CED Cass. Rv. 245477; Cass. Sez. 5^, 10 novembre 2010, Messineo, CED Cass. 249096, che include nell’inammissibilità anche i casi di invalida impugnazione della parte civile). Quando, invece, la sentenza di appello, pronunciata a seguito del solo gravame del Pubblico Ministero, sia sfavorevole alla parte pubblica impugnante e sia di conferma alla decisione assolutoria di primo grado, ai fini della successiva ricorribilità della decisione non viene più in considerazione il principio dell’immanenza della parte civile, che, avendo omesso di esercitare l’esercizio del diritto di impugnazione verso la prima decisione, determina nei propri confronti l’avverarsi del giudicato. Donde l’inammissibilità dell’impugnazione.

Al contempo, la Corte di Cassazione aveva affermato che il giudice di appello, investito del gravame del solo pubblico ministero, deve provvedere anche sulla domanda della parte civile ancorchè questa non abbia impugnato la decisione assolutoria, quando condanni l’imputato assolto nel giudizio di primo grado, (Cass. Sez. Un. 10 luglio 2002, Guadalupi, CED Cass. Rv. 222001 e, di recente, con il richiamo a questa decisione, Cass., Sez. 5^, 12 febbraio 2010, Lazzeretti, CED Cass. 246876).

Il Procuratore Generale, nella sua requisitoria di udienza, ha espresso giudizio di inammissibilità del ricorso, convenendo sulla posizione della difesa (omissis).

La Corte ritiene fondata l’opinione della difesa di (omissis) e dichiara, pertanto, inammissibile l’impugnazione delle parti civili (omissis)+ 16.

Non può, invero, invocarsi funzione estensiva dell’impugnazione del Pubblico Ministero, capace di devolvere di diritto anche l’ambito delle questioni civili, poichè il capitolo di siffatte questioni è autonomo rispetto alla statuizione penale e, d’altra parte, manca al proposito un richiamo positivo del legislatore a questa lettura dell’effetto estensivo dell’impugnazione della parte pubblica (del resto dall’effetto estensivo dell’impugnazione può desumersi che l’imputato possa beneficiare soltanto degli effetti favorevoli allo stesso scaturenti dalla sentenza impugnata, non anche di esiti diversi discendenti dalla medesima).

Ancora, il testo dell’art. 76 c.p.p., comma 2, non sembra sancire un abbandono dai principi fondamentali dettati dal legislatore in tema di impugnazione (cfr. Cass. Sez. 6^, 13 ottobre 2009, Miralo, cit.), quale la necessaria continuità delle stesse, ed il rispetto di termini previsti a pena di inammissibilità.

Del resto, non riesce agevole desumere dall’enunciazione del principio di immanenza (limitato alla permanenza di effetti prodotti dalla costituzione della parte) la fungibilità dell’istituto dell’impugnazione della parte privata a sovvenire ad interessi fra loro radicalmente differenti, quali la pretesa punitiva, di natura squisitamente pubblicistica, conseguente al rimedio affidato al Pubblico Ministero, rispetto all’istanza risarei tona contenuta nell’impugnazione della parte civile, essendo certo (soprattutto nel regime che connota di tassatività il potere impugnatorio) che dalla sua costituzione non si genera la pretesa punitiva accordata alla parte pubblica e che la norma non accenna anche alla capacità di mantenere – senza alcuna impugnazione – legittimazione alla pretesa risarcitoria.

Non appare convincente sottolineare che, nel caso di impugnazione vittoriosa dal Pubblico Ministero, la Parte Civile viene a giovarsi della condanna al ristoro dei suoi danni, condanna che mai sarebbe pronunciata, senza il gravame dell’organo pubblico: tratteggiare un’analogia tra questa posizione con quella oggetto del ricorso è del tutto improprio, poichè il vantaggio conseguente all’esito per la parte civile dell’appello della pubblica accusa altro non è che l’applicazione del principio di immanenza, senza necessità di postulare anche un potere di impugnazione a favore della parte privata.

Questo approdo ermeneutico, a ben vedere, non confligge con la diversa posizione di talune decisioni: esse si sono limitate a seguire l’indirizzo dettato da Cass. Sez. Un. 10 luglio 2002, Guadalupi, cit., sottolineando il dovere del giudice di secondo grado “quando pronuncia sentenza di condanna”, di decidere “sulla domanda per le restituzioni e il risarcimento del danno”, anche se la parte civile non ha proposto impugnazione, con richiamo all’art. 538 c.p.p., comma 1, ed all’art. 598 c.p.p..

Non, come nel caso in esame, quando il giudice di impugnazione abbia assolto l’imputato, recidendo un percorso processuale nel cui ambito la parte privata non dispone più di autonomo potere sollecitatorio.

Poichè la questione processuale è delicata la Corte non ritiene di irrogare la sanzione di cui all’art. 616 c.p.p., pur valutando l’inammissibilità dei relativi ricorsi. p.5 f) Sull’eccezione di indeterminatezza del capo di imputazione, con conseguente nullità dell’art. 429 c.p.p., comma 2.

L’eccezione – già avanzata nelle fasi del merito e posta a fondamento del ricorso per Cassazione – è stata riproposta dalla difesa di (omissis), con i motivi nuovi, da ultimo depositati e rivolti alla dichiarazione di estinzione di tutti i reati per prescrizione.

Non vi è dubbio che, nella presente vicenda, la formulazione dei capi di accusa sia frutto di un formalistico recepimento di asserti contabili, inseriti nella contesto processuale senza la necessaria attenzione alle istanze di chiarezza e completezza. Al contempo, evidente è l’improprio utilizzo del paradigma delle fattispecie proprie delle false comunicazioni sociali per modellare la contestazione delle condotte di aggiotaggio.

Non ha, quindi, torto la difesa nel censurare la tecnica di imputazione, la quale ha, indubbiamente, creato momenti di incertezza e difficoltà, come si ricava dall’esegesi che relativamente ad essa hanno svolto i giudici del merito, con compito di supplenza (in sostituzione di quelli gravanti sulla pubblica accusa). La doglianza difensiva, dunque, non è manifestamente infondata.

Tanto osservato, deve soggiungersi che la censura del (omissis) non prospetta, tuttavia, una patologia così grave da reclamare la radicale nullità dei capi di imputazione.

Invero, è dato escludere – convenendosi sul punto con le osservazioni della impugnata decisione (Sent. C. App., pag. 101) – ipotesi di nullità ogniqualvolta il prevenuto abbia avuto modo di individuare agevolmente gli specifici fatti con riferimento ai quali l’accusa è stata formulata. Al proposito, non interessa tanto la faticosa elaborazione integrativa svolta dalle sentenze per enucleare i fatti addebitati ai prevenuti dall’accusa. Ed, infatti, il vizio di incertezza assume interesse processuale allorquando oscuri il fatto che determina l’imputazione. Quando – cioè – l’imputato non sia stato posto in grado di conoscere l’oggetto dell’addebito così da impedire decisivamente la risposta difensiva.

Nè è, quindi, dato apprezzare alcun effettivo pregiudizio difensivo, nè il ricorrente – richiamandosi ad un astratto profilo di patologia processuale – indica una concreta menomazione delle potenzialità difensive. Al riguardo è anche ragionevole l’osservazione del Procuratore Generale che – qualificando il vizio denunciato come nullità a regime intermedio – reclami la carenza di dimostrato interesse nell’eccezione (circostanza che la difesa non ha saputo attestare, neanche in seno alle arringhe di udienza).

La richiesta di una specificazione anche del singolo comunicato incriminato risulta, pertanto, ai fini della conoscenza qui sottesa, superflua o, comunque, sicuramente non così essenziale da determinare le eccepite patologie processuali.

Nel caso in esame, la specificazione delle indicazioni infedeli, occorsa all’esito della fase del dibattimento di primo grado, sia quanto ai dati economici, sia relativamente a quelli finanziari e patrimoniali, nonchè ai collegamenti con parti correlate (cfr. Sent. C. App., pag. 19/28), rispecchiando gli esiti del dibattito processuale, permettevano una puntuale ricognizione dell’oggetto dell’accusa nel corso del dibattimento, sia con riguardo alla fattispecie di aggiotaggio, sia con riferimento all’addebito di ostacolo alle unzioni dell’Organo di vigilanza.

Del pari i capi di imputazione contenevano la descrizione essenziale dei soggetti, del contenuto infedele dei comunicati rivolti all’esterno, i profili storici essenziali della vicenda compresa in espliciti termini cronologici entro cui essa si era sviluppata, con gli accenni d’accusa modellati sui requisiti richiesti dalla fattispecie incriminatrice, sicchè può affermarsi che l’analisi di poi svolta dalle decisioni di merito non ha introdotto alcun tema nuovo, bensì ha enucleato i fatti già posti a base della vicenda processuale e, mediante le successive disclosures, portati a conoscenza delle difese.

In tema di violazione dell’art. 429 c.p.p., per affermare la ricorrenza della fattispecie processuale di insufficiente indicazione dei requisiti del fatto (comma 3), non rilevano nè l’imprecisione e la carenza di completezza dei capitoli di accusa, se la dialettica del processo permetta adeguato ragguaglio, se – in particolare – le circostanze ascrittegli sono agevolmente desumibili dagli atti processuali, o dallo sviluppo del dibattito dibattimentale al quale il prevenuto abbia partecipato o direttamente ovvero per l’assistenza tecnica della difesa (del resto, sempre attenta e professionalmente avveduta).

Non assume neppure interesse l’eccepita (e non inammissibile per asserita nota di aspecificità, come vorrebbe il Procuratore Generale) nullità ex artt. 521 e 522 c.p.p., a proposito della formulazione dell’accusa di violazione dell’art. 2624 c.c..

L’osservazione (Sent. C. App., pag. 100/101) per cui l’inclusione del (omissis), nel quadro dell’addebito, senza la precisazione del suo ruolo, in seno alla condotta concorsuale che conforma l’illecito e che lo vede quale compartecipe esterno all’azione illecita, commessa dai revisori, esecutori materiali del fatto, è implicita nella logica dell’articolazione giuridica dell’accusa.

La lettura (dispiegata con un minimo tasso di razionalità) della rubrica di accusa, già di per sè evidenzia la condotta di istigazione addebitata al (omissis) e rivolta agli esecutori materiali dell’illecito (i revisori a cui allude il paragrafo d’imputazione), considerato sia il perimetro temporale indicato sia la forma del concorso di persone, precisata in rubrica, sia la funzione svolta dai revisori nella vicenda del gruppo societario fallito. In altri termini, non è dato assistere alla violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza, poichè il fatto contestato, non è stato mutato nei suoi elementi essenziali e determinanti, tali da comportare un effettivo sconvolgimento della prospettazione utile alla difesa.

Si osserva, al contempo, così richiamando la giurisprudenza in tema di bancarotta, ma un tema (ritenuto affine anche dalla difesa) a quello qui esaminato, che deve escludersi la violazione del principio di correlazione tra reato contestato e reato ritenuto in sentenza, nella decisione con la quale sia condannato un soggetto quale concorrente extraneus in un reato di bancarotta fraudolenta, anzichè quale artefice per investitura formale, qualora rimanga immutata l’azione illecita (cfr. per es. Cass. pen., sez. 5^, 9 dicembre 2009, Prosperi, Ced Cass., rv. 246100).

Considerata la generale, ma esplicita, allusione al “concorso tra loro e con altri” (capi ced dell’epigrafe), non ricorre un’ipotesi di mutamento della contestazione qualora l’imputato, cui sia stato contestato di essere l’autore materiale del reato, venga riconosciuto responsabile a titolo di concorso morale in esso, tale modificazione non comportando una trasformazione essenziale del fatto addebitato, nè potendo provocare menomazione del diritto di difesa (cfr. per es, Cass. pen., sez. 1^, 25 settembre 2008, Pipa, Ced. Cass. 241825).

Anche relativamente all’imputazione, mossa ai sensi dell’art. 2638 c.c., seppur fondatamente la difesa ricordi che il portato accusatorio deve esser guardato nella versione originaria, all’avvio del processo (sicchè risulta ininfluente la modifica effettuata nel corso del processo dal Pubblico Ministero), il Collegio conviene con le osservazioni della Corte territoriale (Sent. C. App., pag. 100) sull’infondatezza della censura di indeterminatezza del capo di imputazione in ragione dell’omessa (originaria) specificazione delle date dei comunicati infedeli.

Infatti, l’accusa circoscrive dettagliatamente il contenuto del mendacio, precisando anche il soggetto a cui esso era riferibile e prevede termini cronologici entro cui si era sviluppata l’azione di ostacolo.

In siffatto contesto non era impedito al prevenuto, preposto al gruppo incriminato, rendersi perfettamente conto di quale fosse l’oggetto dell’accusa, avendo egli avuto modo di individuare agevolmente gli specifici fatti (dei quali era stato storicamente artefice e protagonista) in riferimento ai quali l’accusa è stata formulata. p.6) L’imputazione di aggiotaggio informativo (art. 2637 c.c.). p.6.a) Il Capo A) della rubrica ascrive ai soggetti preposti all’amministrazione del gruppo di Collecchio l’illecita manipolazione informativa rivolta al mercato. L’addebito si riferisce alle notizie diffuse, in tempi diversi, dalla sede milanese della società finanziaria, per mezzo di comunicati indirizzati al mercato borsistico. Informazioni protese alla configurazione ottimistica della situazione economica e patrimoniale. Esse avevano l’idoneità di provocare sensibile alterazione del corso dei titoli quotati in Borsa (circostanza non discussa dalle difese, se non per gli ultimi comunicati).

Il Tribunale ha mosso severa critica (Sent. Trib., pag. 96/97) al criterio di imputazione formulato dalla pubblica accusa, rilevando la mancanza di alcuni momenti di rilievo, di certo – come già osservato sulla scorta dei rilievi del Procuratore Generale alla pubblica udienza e come dianzi si è convenuto – appiattendosi sulla trama propria della diversa ipotesi incriminatrice dettata dagli artt. 2621 e 2622 c.c..

Le sentenze di merito hanno precisato che i fatti oggetto del processo debbono ridursi alle condotte consumate nel corso del solo esercizio 2003.

Il reato ascritto sorge da una complessa vicenda normativa. La L. 11 aprile 2002, n. 61, riformulò le fattispecie dei reati societari e tra esse anche quella dell’aggiotaggio, illecito che fu collocato in seno all’art. 2637 c.c. (previa abrogazione del D.Lgs. n. 58 del 1998art. 181) e ripropose la figura criminosa negli art. 180 e ss. del citato testo normativo, arricchendola da più particolareggiata descrizione della nozione di “informazione privilegiata” (art. 180 comma 3, corredandola da dettagliate sanzioni amministrative di diretta derivazione comunitaria (D.Lgs. n. 58 del 1998artt. 187 bis e 187 ter). Di poi, la L. 28 dicembre 2005 n. 262 (disposizioni per tutela del risparmio e la disciplina dei mercati finanziari) ha inasprito notevolmente le sanzioni penali e pecuniarie ed ha esteso le conseguenze di responsabilità amministrativa – ex D.Lgs. n. 231 del 2001 – per le società che si rendano responsabili degli illeciti di market abuse.

I fatti dell’attuale procedimento hanno trovato sanzione sotto l’egida del novellato art. 2637 c.c. (foriero di pena della reclusione da uno a cinque anni), in cui sono state evocate le distinte fattispecie, precedentemente disciplinate autonomamente nella precedente prospettazione incriminatrice. Allo stato attuale, il precetto proprio dell’art. 2637 è rifluito nel D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 185, per quanto attiene alle società quotate.

La modifica del tessuto normativo, conseguente alla radicale riforma del D.Lgs. n. 61 del 2002, influisce direttamente nel contesto della bancarotta societaria, non potendosi più giustificare il richiamo che un tempo, prima dell’intervento novellatore, effettuava l’art. 223, comma 2, n. 1, all’art. 2628 c.c., (in allora denominato “Manovre fraudolente sui titoli della società”, ma recante in sostanza il precetto dell’aggiotaggio, poi confluito nell’art. 2637 c.c.), essendo intervenuta una causa di abolitio criminis. La vecchia disposizione è scomparsa dal catalogo dei fatti di reato integrativi del reato fallimentare; al suo posto è stata introdotta una figura del tutto diversa.

Dunque, unico referente per l’accertamento della violazione penale risulta, oggi, la fattispecie dettata dall’art. 2637 c.c..

Rispetto a quest’ultima norma, le modifiche succedutesi nel tempo non hanno infranto la continuità che le ha tra loro collegate, come ha già affermato questa Corte, considerata l’identità del disvalore del fatto (Cass. pen., sez. 5^, 20 gennaio 2010, Banca Profilo, CED Cass. 246242; Cass. Sez. 5^, 7 novembre 2008, Carpoca ed altri, CED Cass. 242958; Cass., Sez. 5^, 10 luglio 2006, Gnutti, CED Cass. 234375, poichè, quanto alle modalità commissive del reato, introdotte dal D.Lgs. n. 58 del 1998, nuovo art. 184, si tratta di mera precisazione dell’ambito di incriminazione della precedente fattispecie, senza alcuna innovazione nella descrizione del fatto tipico).

Dunque, gli attuali parametri normativi sono validi anche per fatti commessi anteriormente alla riforma portata dalla L. 18 aprile 2005, n. 62.

La norma incriminatrice presenta più fattispecie, tra loro non alternative, consistenti – per quel che qui interessa – nella diffusione notizie false (nel testo originario dell’art. 181 T.U.F., anche “esagerate o tendenziose”, inclusione oggi non più presente nella previsione incriminatrice, ma conservata soltanto per l’ipotesi di responsabilità amministrativa dell’ente, in seno al D.Lgs. n. 58 del 1998art. 187 ter), idonee a provocare una sensibile alterazione del prezzo di strumenti finanziari, in modo tale che il pubblico degli investitori sia indotto in errore circa lo spontaneo e corretto processo di formazione dei prezzi. Si tratta della c.d. “manipolazione informativa”, già conosciuta dal precedente art. 2628 c.c., distinta da quella c.d. “manipolazione operativa” contemplata, in via alternativa, dal medesimo art. 2637 c.c.: “ovvero pone in essere operazioni simulate o altri artifici…”, accomunata alla prima dalla potenzialità distorsiva del corso della quotazione.

E’ condotta commissiva (non essendo ipotizzarle la responsabilità per omissione, come rettamente ritenuto dalle decisioni del merito), realizzata mediante ‘notiziè, informazioni – cioè – caratterizzate da un connotato oggettivo (con esclusione di meri apprezzamenti), contrassegnate dalla loro concreta idoneità ad influire sul corso delle contrattazioni mobiliari: è questa la condizione per apprezzare la lesività del fatto, caratteristica che si aggiunge all’ulteriore requisito discendente dall’attributo “sensibile” richiesto dal legislatore per far superare alla distorsione la soglia di rilevanza penale (esito che suole racchiudersi nella formula anglosassone della price sensitivity) e che non è stato ritenuto censurabile sotto il profilo della indeterminatezza nella tipicizzazione della fattispecie (cfr. Sent. C. Cost., 14 dicembre 2004, n. 382, attese le concorrenti indicazioni della fonte normativa comunitaria). Reato di mera condotta, poichè – come dianzi già osservato – prescinde dall’evento naturalistico dell’inganno.

L’illecito si realizza al momento della diffusione della notizia.

L’evento giuridico è, dunque, costituito dalla distorsione del gioco della domanda e dell’offerta sul mercato mobiliare, dipendente da situazione volutamente incidente sul corretto processo di formazione dei prezzi. Per il suo accertamento esso, conseguentemente, abbisogna di apprezzamento percepibile a mezzo di un giudizio di prognosi postuma, cioè, mediante una verifica di tipo contro-fattuale, onde comprendere se il mendacio sia stato potenzialmente capace di questa capacità distorsiva.

Per quanto attiene alla struttura del reato, sia il Procuratore Generale sia la difesa di (omissis), hanno giustamente segnalato che l’atto di diffusione della notizia esaurisce la condotta illecita, che deve definirsi unisussistente. L’osservazione diviene rilevante quando sia calata nella responsabilità definita ai sensi dell’art. 40 cpv. c.p.: l’azione impeditiva, che doverosamente il soggetto attivo deve porre in essere per scongiurare l’evento lesivo, viene -pertanto – riferita all’atto diffusivo della comunicazione, non già alle conseguenze che da esso possono derivare.

L’attività di diffusione della notizia, oggetto dell’addebito, si sostanzia in comunicazioni del soggetto emittente alla platea dei risparmiatori. Ma il canale di informazione non si identifica soltanto nelle cadenze considerate dall’art. 114 T.U.F.. La società emittente, infatti, è onerata nel nostro sistema dell’onere peculiare di costante doveroso ragguaglio ai terzi. Onere, che suole definirsi, per la sua intensità, di “informazione continua”. La norma testè citata (così come l’art. 43 del reg. CONSOB n. 16191/07, funzionale alla sola fattispecie dell’illecito amministrativo, dettato dall’art. 187 ter) non delimita le modalità attuative del delitto, poichè la fattispecie dell’aggiotaggio informativo non prevede una condotta sul punto vincolata, bensì richiama la generica categoria di ‘notizie falsè su titoli quotati (o non quotati) purchè dotate di “price sensivity”. Nel flusso dei doverosi ragguagli all’esterno, qualsiasi notizia proveniente dalla società con qualsiasi cadenza e modalità, concreta la penale responsabilità dell’emittente qualora essa si palesi falsa ed idonea a concretamente influire sul corso dei prezzi degli strumenti finanziari a cui si riferisce.

Così come non assume rilievo, come esattamente già osservato dal Tribunale (Sent. Trib., pag. 101), che l’informazione si rivesta di “novità”, sicchè assume interesse – contrariamente all’opinione del ricorrente (omissis), autore di numerosi casi di replica di ragguagli infedeli – anche il comunicato che succeda al deposito di un bilancio che quella notizia già aveva comunicato al mercato.

Non deve, per vero, sfuggire (come esattamente sostenuto dal Procuratore Generale all’udienza) che la reiterazione di un’informazione infedele riveste di autonoma valenza colora di illecito ogni episodio, nell’economia della persuasione, anche qualora si limiti ad asseverare quanto già detto. Tanto, invero, può concretamente influire sulla formazione della volontà negoziale dell’investitore e meglio persuaderlo alla convenienza nell’impiego del denaro con l’investimento nel titolo (ovvero ad indurlo alla dismissione di quell’investimento). Osservazione che non potrebbe riproporsi per il reato di falso in bilancio, allorquando la menzogna sia riferita nel contesto del processo decisionale che, muovendo dal deposito dello schema di bilancio giunge al suo esito con la complessiva discussione su di esso da parte dell’assemblea, dibattito che involge nuovo intervento degli amministratori al riguardo:

l’unitarietà di questo procedimento formativo della comunicazione sociale differisce dall’istantaneità della condotta di aggiotaggio.

Per evitare la confusione tra il reato di aggiotaggio e quello di false comunicazioni sociali (sulle cui diversità cui v. infra), giova sin d’ora sottolineare che la condotta proscritta dagli art. 2621/2622 cod. civ. si articola, di regola, all’interno di un procedimento scandito da momenti successivi (presentazione dello schema di bilancio, deposito presso la sede sociale, pubblicazione, ecc.) i quali rappresentano una pluralità di atti interni alla società che sfociano in una comunicazione all’esterno della medesima. E’, dunque, agevole ipotizzare che, nel corso di questa successione di evenienze, perduranti per un periodo di tempo non indifferente, possa individuarsi una qualche azione ostativa della comunicazione prima della diffusione ai terzi. Quando, invece, la condotta si riduce ad un solo atto, come nel caso dell’aggiotaggio informativo, questa individuazione riesce in sè impossibile.

L’osservazione, tuttavia, non esclude – come osservato attentamente dal Procuratore Generale presso questa Corte – che si possa assegnare rilievo penale nel caso di un comportamento iterativo dell’imputato e che il dovere di ostacolo si puntualizza – con immutata valenza penale in capo a chi è preposto alla posizione di garanzia – sull’informazione infedele che possa seguire a quelle precedenti.

Invero, in tema di responsabilità per omissione, la cui disciplina – quanto al nesso causale è tratteggiata dall’art. 40 c.p., comma 2, la responsabilità, per l’illecita inerzia a fronte della previsione di un evento dannoso, può apprezzarsi anche in relazione alla pluralità future evenienze che reiterino l’atto lesivo degli interessi protetti, nel rispetto dell’affermazione dei criteri di idonea rappresentazione (in termini diretti, ovvero di dolo eventuale) del fatto dannoso per le fattispecie a connotazione volontaria.

La sconcertante teoria di menzogne rivolte al mercato, all’ente di vigilanza ed, in vìa mediata, alla stampa specializzata, permette di non dilungarsi sul requisito della loro idoneità in concreto ad alterare il corso dei titoli del gruppo (espressione che certamente comprende il caso, come l’attuale, di mantenerlo artificiosamente invariato, pur nel reale deprezzamento della sua valenza occultata ai destinatario dell’informazione, cfr. sul punto anche la giurisprudenza di merito citata dalla Memoria 14.4.2011 di CONSOB, pag. 16 e ss.).

Basti considerare il capitale sociale era già integralmente perso in epoca assai prossima al momento della quotazione in Borsa (cfr. Sent. Trib., pag. 102). Eppure, il prodotto finanziario presso gli operatori professionali e la stampa specializzata, mantenne la sua apparente valenza, o, ancora, si incrementò.

L’induzione in errore dalle prospettazioni di PAR. FIN., supera i limiti della prova dell’oggettiva ricorrenza del requisito del delitto in discorso: sarebbe sufficiente la dimostrazione della potenzialità decettiva, mentre la vicenda PARMALAT attesta la capacità truffaldina del comportamento dei preposti al gruppo caseario (sul punto la decisione di primo grado analizza ancor più specificamente, e con logica ineccepibile, l’ininfluenza del trend di Borsa sulla incidenza delle notizie provenienti da PARMALAT, Sent. Trib., pag. 102/103).

Il disastro finanziario, seguito alla condotta di PAR. FIN., esime anche dal soffermarsi sul grado di “sensibilità” dell’alterazione, tanto cospicuo riuscì la condotta delittuosa a mantenere la quotazione lontana dalla valenza reale dei prodotti negoziati (su questo aspetto cfr. Memoria 14.4.2011 di CONSOB, pag. 12 e ss.).

I giudici di merito hanno – così completando l’onere argomentativo – fornito riscontro della puntuale eco di alterazione delle quotazioni dei titoli, successivamente all’emissione dei 14 comunicati manipolativi emessi da PARFIN ed illustrati in Sent. C. App., pag.45 e ss. (sul punto cfr. anche le osservazioni della Memoria della Parte civile FARMLAND DAIRES, pag. 5). p.6. b) Le singole condotte incriminate di aggiotaggio informativo.

I singoli episodi sono stati indicati nella parte narrativa, relativamente allo svolgimento della vicenda che precedette la dichiarazione di default.

In sintesi si annoverano due comunicati il giorno 27.2.2003 (essi seguivano di un giorno il preannuncio dell’emissione obbligazionaria) proteso a sorreggere il titolo caduto in ribasso (anzi, in una politica di più efficace reazione alla divulgazione di dati pessimistici sulle società, si minacciavano anche azioni giudiziali, a cui succedette anche una nota di protesta inviata a CONSOB alcuni giorni dopo).

Al comunicato seguì un rialzo della quotazione del 5,84% (Sent. Trib., pag. 105). hi data 28.3.2003 una rassegna di rassicuranti informazioni sulla situazione del gruppo (soprattutto sugli investimenti finanziari e sulla strategia di massima nel collocamento della liquidità del gruppo), accompagnava la comunicazione della nomina di preposto al settore finanziario (Chief Financial Officer) di (omissis) e dell’approvazione del progetto di bilancio consolidato al 31.12.2002: la notizia consentì un costante trend positivo della quotazione, sino al mese di settembre di quell’anno.

Il giorno 10.4.2003 – in concomitanza con la presentazione degli esiti della gestione finanziaria (e l’assicurazione di impiegare la sopravveniente liquidità alla riduzione dell’esposizione debitoria) – fu emesso un comunicato stampa che determinò l’aumento del corso dei titoli del 4,59%.

Venti giorni dopo (30.4.2003, in coincidenza con l’approvazione del bilancio al 31.12.2002) si segnalarono alla comunità degli investitori, con un comunicato stampa, i confortanti risultati del gruppo e le linee di tendenza per il successivo triennio, informazione che determinava ulteriore crescita nel corso dei titoli.

Quindi, il giorno 18.6.2003 – in risposta al ribasso dei titoli PARFIN registrato il pomeriggio precedente – il comunicato preannunciò la futura emissione di bond NEXTRA, con forti infedeltà quanto al prezzo di emissione ed alle garanzie rilasciate – ma esso permise di far fronte al calo delle quotazioni e l’inversione di tendenza della quotazione.

In risposta alle richieste di informazioni, sollecitate da CONSOB e dalle segnalazioni di BLOOMBERG (ed agli articoli di stampa che fecero eco a dette analisi), PARFIN emise un comunicato, il 10.7.2003, fornendo una (infedele) spiegazione a proposito delle differenze riscontrate dall’agenzia e dagli analisti, diffondendosi con mendaci indicazioni sulle modalità di impiego delle dotazioni liquide del gruppo. Al ragguaglio seguì l’andamento positivo del corso dei titoli.

In data 11.9.2003 PARFIN presentò la semestrale dell’esercizio e diffuse un comunicato stampa rassegnando dati infedeli su diversi profili informativi (fatturato, utile maturato nel corso dell’esercizio, crescita del gruppo, riacquisito delle obbligazioni emesse, ecc.), svelando l’emissione di obbligazioni UBS del luglio di quell’anno. Questa volta i dubbi sulla credibilità di siffatte notizie non furono dissolti, anche a causa dell’informazione sulla nuova emissione di bond (esito che si verificò anche al ravvicinato – 15.9.2003 – preannuncio dell’emissione di bond DEUSTCHE BANK) sulla incongruenza di quella politica di indebitamento che non palesava ragionevolezza alcuna a fronte delle conclamate disponibilità liquide.

Il già avviato (dal 4.9.2003) corso negativo delle quotazioni non venne arrestato.

Sono rettamente annoverati alla categoria di informazioni manipolate ex art. 2637 c.c., anche i messaggi del novembre 2003 (alle date 10, 11, 12, e 14.11.2003), quelli emessi nel contesto del drammatico epilogo della vicenda e vanamente protesi a convincere gli operatori della solidità del gruppo di Collecchio.

Soprattutto, concentrati a rigettare come persecutoria la diffusione di notizie diffamatorie sulla stabilità delle società, asseritamente frutto di una regia di depressione del corso delle relative quotazioni.

La spaventosa crisi dell’organismo distanziava in guisa sideralè i dati e le rassicurazioni fornite dalla realtà desolante di PARFIN, anche a mezzo dell’ulteriore bugia connessa alla vicenda del FONDO EPICURUM, di cui dianzi si è detto e la cui liquidazione preannunciata per la fine del mese, venne “dilazionata” (comunicato del 27.11.2003) al 4.12.2003.

Direttamente incidente sulla posizione di (omissis) è il comunicato dell’8.12.2003 (e quello successivo), richiesto espressamente da CONSOB a chiarimento della vantata dotazione disponibile al FONDO EPICURUM. Esso rivelava che il detto fondo aveva richiesto una dilazione di pagamento a causa delle plurime richieste di liquidazione dei sottoscrittori.

E, sempre relativo a questo Fondo, fu l’ultimo comunicato reso dalla società di Collecchio, alla data del 10.12.2003, che proclamava lo sviluppo, ormai in fase avanzata, per un piano di liquidazione del corrispettivo della quota PARMALAT. p.6. c) Il rapporto corrente tra il reato di aggiotaggio e quello dettato dagli artt. 2621 e 2622 c.c., nonchè la possibile irrilevanza di condotte successive al reato (quali post-factum), i rapporti con la fattispecie di bancarotta impropria L. Fall., ex art. 223, comma 2, n. 2.

Con il terzo motivo, la difesa del (omissis) censura la sentenza della Corte territoriale milanese per l’erronea valutazione sia degli elementi strutturali del reato di cui all’art. 2637 c.c., (vigente all’epoca del fatto), sia dei rapporti dell’aggiotaggio con la fattispecie di false comunicazioni sociali (artt. 2621 e 2622 c.c.).

Occorre premettere al vaglio di questo motivo, il rilievo per cui non è posta in discussione l’oggettiva falsità del dato comunicato al mercato da PARFIN. Anzi, lo steso ricorrente osserva (Motivi, pag. 19) “il gruppo era tecnicamente e virtualmente fallito da anni” sicchè corretta deve intendersi l’osservazione dei giudici di appello che stimano in “zero” il valore delle azioni del gruppo, all’epoca delle comunicazioni incriminate.

La Sentenza oggetto di ricorso (Sent. C. App., pag. 51 e ss.) ricostruisce le modalità di falsificazioni dei bilanci (tutte protese ad iscrivere ricavi mai conseguiti, occultare l’indebitamento e le perdite) ed il ruolo dei manager del gruppo nell’illecita condotta.

Quanto, poi, alle relazioni che intercorrono tra diverse ipotesi criminose in discorso si osserva:

– la difforme individuazione dei soggetti attivi (stabilita con descrizione formale per il falso in bilancio, in ragione delle categorie proprie del diritto commerciale; genericamente racchiusa nella indicazione “chiunque” per l’illecito di aggiotaggio, anche se, poi, nella pratica catalogazione dei comportati antidoverosi rilevabile nella medesima normativa, è lecito enucleare tratti identificativi più congrui, ma non interamente sovrapponibili ai preposti societari), essendo parimenti escluso che l’autore debba appartenere alla società emittente, nè che da essa dipenda nè che con essa collabori, ecc.);

– la diversità del bene tutelato. Erroneamente il ricorrente invoca l’identità della protezione patrimoniale, poichè aggiotaggio informativo protegge l’integrità e la regolarità del mercato mobiliare e, più specificamente, la corretta formazione dei valori dei titoli quotati e la fisiologica genesi volontà negoziale in capo ai risparmiatori (si tratta, quindi, di una lesione al diritto alla retta informazione, da cui – evento di cui la fattispecie tende la prevenzione – il patologico corso dei valori), mentre soltanto la complessiva fattispecie del reato di false comunicazioni sociali si connota per la sua tutela (diretta o indiretta) patrimoniale.

Non deve sfuggire che anche la contravvenzione dettata dall’art. 2621 c.c. (richiamato pur esso dalla L. Fall.art. 223, comma 2, n. 1), pur non alludendo a conseguenze patrimonialmente pregiudizievoli per il destinatario, è dotato di un evento immateriale, economicamente valutabile in termini di pericolo per i destinatari delle comunicazioni sociali. Esso indica una protezione meno “patrimonializzata”, ma pur sempre soggetta a quantificazione ed anche se non (per fatti successivi al 2005) più soggetto alle soglie di rilevanza quantitativa (attesa la modifica degli artt. 2621 e 2622 c.c., disposta dalla normativa sul risparmio, L. n. 262 del 2005art. 30, che ha previsto come “fatto”, ancorchè non penalmente rilevante, il mendacio c.d. “sotto soglia”), eppertanto lontano dalla tutela della c.d. “trasparenza”. In sostanza una protezione anticipata di possibili lesioni patrimoniali.

– il novero dei soggetti danneggiati che (pur dirigendosi la comunicazione verso soci/pubblico) nelle ipotesi di bancarotta societaria si restringe a quanti sono soci o creditori al momento della diffusione della notizia, mentre l’aggiotaggio si rivolge ad una pluralità indistinta di destinatari;

il reato di aggiotaggio informativo proviene da una soggettività non qualificata, a differenza di quella delle norme penal/societarie;

– la diversa tipologia dell’oggetto materiale della condotta, ristretta, per un verso, dall’aggiotaggio informativo agli strumenti finanziari (non a specifiche e singole operazioni di mercato, come vorrebbe il ricorrente (omissis), essendo il divieto articolato sulla natura dell’informazione e non dell’oggetto della stessa) descritti dalla normativa in materia (ed è questo il dato qualificante della fattispecie penale), nel perimetro segnato dall’art. 2637 c.c., D.Lgs. n. 58 del 1998art. 185, (notizie price sensitive; con estensione anche al catalogo dettato dall’art. 114 del detto D.Lgs.) Per altro verso, svicolata dalla rigida classificazione degli artt. 2621 e 2622 c.c., potendosi realizzare con qualsiasi strumento idoneo a fornire esteso ragguaglio di fatti societari, non necessariamente previsto dalla legge (su questi punti cfr. anche sent. C. App., 53 e ss. che riassume pure la posizione dei primi giudici al riguardo);

– la diversità del rilievo penale assegnato all’informazione manipolativa, concretamente idonea ad influenzare sensibilmente il prezzo del titolo (eppertanto, soggetta ad una valutazione ex ante di prognosi postuma), rispetto alla fornita dal bilancio societario, la cui infedeltà penalmente rilevante discende dall’accertamento attuale della sua diversità rispetto alla relativa prescrizione legale;

– la diversa connotazione dell’elemento soggettivo, marcatamente contrassegnato nei fatti di infedeltà di bilancio, dal dolo specifico ed anche intenzionale;

– infine, ma rilevante per qualificare l’effetto illecito, esterno al dato patrimoniale, l’assenza di previsione (nella fattispecie di bancarotta societaria, non affine all’offesa del’aggiotaggio, secondo la Relazione Ministeriale alla riforma dei reati societari) di connessione causale con il dissesto (cfr. Memoria CONSOB, pag. 8).

Pertanto una ragguardevole difformità strutturale, rilevabile in via astratta.

Non dissimile è la conclusione, in replica al ricorso di BANK OF AMERICA (Motivo sub e), discendente dal raffronto tra l’art. 2637 c.c., (art. 185 T.U.F.), nell’ipotesi che qui interessa, cioè, la manipolazione informativa, con l’ipotesi punitiva della bancarotta impropria contemplata dalla L. Fall.art. 223, comma 2, n. 2, segnatamente con riguardo alla causazione del fallimento a seguito delle c.d. “operazioni dolose”.

Anche qui, nonostante la ben nota genericità della definizione della condotta, attesa la polivalente notazione di “dolosa” attribuita all’azione antidoverosa, non deve sfuggire come l’illecito concorsuale abbia struttura ad evento (il fallimento), diversamente dalla più volta ricordata essenziale configurazione di pericolo data dal legislatore all’aggiotaggio.

Diverge, dunque, in guisa essenziale anche il momento consumativo del reato, rilevabile, per la violazione dell’art. 2637 c.c., nell’atto di diffusione della notizia, mentre per l’illecito fallimentare esso si appunta al tempo dell’emissione del provvedimento del giudice fallimentare.

E’, al contempo, utile sottolineare che difficilmente il termine “operazione” assume il significato ristretto alla categoria dei messaggi informativi ed alla loro diffusione, palesando – piuttosto – una più o meno complessa condotta di gestione attiva di impresa.

Conclusivamente deve escludersi qualsiasi effetto preclusivo dalla contestazione mossa dall’Autorità Giudiziaria parmense agli imputati rispetto allo svolgimento dell’attuale processo.

Proprio per la diversità delle due figure di reato – come già osservato dai giudici di merito (cfr. Sent. C. App., 55 e ss.) non si pone possibilità di qualificare “post-factum” penalmente irrilevante, il succedersi dell’informazione ai sensi dell’art. 114 T.U.F. o mediante un bilancio infedele, anche perchè – non soltanto è diversa la configurazione dell’offesa, onde non è riconoscibile xìfactum che dovrebbe essere incluso nella fattispecie principale – ma diverge anche il rispettivo momento consumativo delle due figure (per es. la consumazione dell’illecito dedotto dall’art. 2622 c.c. si riscontra all’atto dell’evento decettivo in pregiudizio di un creditore o di un socio, sicchè la prova della sua realizzazione pretende tempi distanti dalla diffusione della notizia).

D’altra parte, nel caso in esame, come osservato nei rapidi cenni sullo svolgimento della vicenda, le informazioni societarie giovavano ad asseverare il mendacio dei bilanci via presentati, con azione di autonomia e con peculiare funzione di indipendenza nel ruolo di inganno verso il mercato del risparmio.

Infine, è sicuramente errata la prospettazione della valutazione del principio di specialità nell’ottica della sua concreta applicazione.

Al riguardo ha affermato questa Corte che ‘per non incorrere nel rischio di possibili disparità di trattamento determinate da una delega al giudice in ordine alla valutazione in concreto del criterio di specialità, sia tra norme penali che tra norme penali e amministrative, deve essere ripudiato il principio di specialità c.d. “in concreto”: una norma penale è speciale nei confronti di un’altra solo se ha tutti i requisiti costitutivi di quest’ultima con l’aggiunta di uno o più elementi suoi propri o specializzanti (Cass. pen., sez. 3^, 16 dicembre 1994, Nucci, CED Cass. 201757).

Gli argomenti superiormente considerati escludono in via astratta il rapporto reclamato dalla difesa. p.6.e) L’idoneità dell’azione ed il pericolo concreto nelle condotte di aggiotaggio ascritte agli imputati.

Lamenta il ricorso di (omissis) la confusione operata tra l’idoneità delle informazioni all’alterazione dei valori di mercato e la connotazione di pericolo concreto insito nel comportamento vietato.

In tema di aggiotaggio la potenzialità alterativa del dato mendace deve esser apprezzata nella sua concretezza in ragione dell’espressa indicazione del legislatore, requisito introdotto con l’inserimento dell’avverbio “concretamente”, nella vecchia fattispecie di cui al D.Lgs. n. 58 del 1998art. 181, dall’arT. 2637 c.c..

Si tratta di connotazione di reato di pericolo concreto (ove il rischio paventato e proscritto è quello della fissazione del prezzo in misura lontana dal valore reale, ipotesi conseguente all’influenza di momenti di fraudolenza ed infedeltà informativa) che in tal modo viene a distinguersi dalla figura di cui di cui al D.Lgs. n. 58 del 1998art. 187 ter, in cui manca ogni riferimento alla stessa “idoneità” della condotta.

La notazione esplicita il fine a cui mira la protezione penalistica, quello della corretta formazione della volontà negoziale nelle transazioni sul mercato mobiliare.

Non vi è dubbio che il requisito attenga alla condotta, ma è altrettanto certo che esso trova consistenza nel risultato a cui mira il soggetto attivo e nei riflessi che, nel mercato mobiliare si verificano a cagione della manipolazione informativa.

Dunque, il comportamento incriminato deve essere inquadrato nel contesto storico e finanziario (lineamenti del mercato al momento della condotta, qualità del titolo negoziato e sua appetibilità sul mercato mobiliare, e suo “trend” di valore) in cui opera, considerazione dello strumento che ha reso possibile l’alterazione (notorietà del mezzo di informazione, i caratteri di attendibilità con è riferita, ecc.).

Di questi elementi da atto il provvedimento milanese eppertanto la decisione non si discosta dalla giusta lettura della violazione quando verifica che le notizie, diffuse sul mercato, avevano una intrinseca capacità di alterazione del corso dei valori, riscontro che, nel concreto atteggiarsi dell’informazione, attesta l’oggetti va ricorrenza dell’elemento richiesto dalla norma.

In particolare è lucida e calzante la motivazione (Sent. C. App., pag.104) quando inquadra il paradigma valutativo non già nel soggetto professionalmente esperto, e quando rammenta che il corso dei titoli varia in continuazione e l’influsso su di esso può discendere anche dalla reiterazione di una notizia già data o dalla sua conferma (d’altra parte, la vicenda in esame presenta solida dimostrazione che soggetti istituzionali, votati al rischio speculativo, sono stati tratti in inganno dai comunicati di PARMALAT, nonostante l’affermazione difensiva di asseriti già da tempo – ma evidentemente sempre impalpabili – segnali di dissesto). Pertanto, anche per questo riguardo non è possibile identificare – in via pregiudiziale ed avulsa dal contesto storico – il comportamento informativo come “post-factum” penalmente irrilevante.

Nè si espone a censura la ritenuta irrilevanza del paradigma dell'”investitore ragionevole”, richiamato dalla Corte territoriale (Sent. pag. 105), paradigma esportato dal limitrofo reato di insider trading, quale tratteggiato dal D.Lgs. n. 58 del 1998art. 181, comma 4.

Si tratta di un ulteriore profilo della “concretezza”, su cui articolare il giudizio di “prognosi postuma”, accertati va dell’idoneità alterativa dell’informazione (evidente è lo sforzo di inquadrare la vittima dell’illecito in assonanza con la tipologia dei soggetti di cui all’art. 1176 c.c., comma 2).

Questo investitore è una persona di comune avvedutezza, tuttavia suscettibile di essere tratta in inganno.

Non convince la tesi della difesa di T. (Motivo sub 3 ed arringa di udienza) che, legando la circostanza per cui questo investitore “fa il prezzo del titolo”, egli debba identificarsi in un operatore professionale, dunque, in un professionista debitamente informato sui movimenti di borsa.

L’allusione ali “investitore ragionevolè, di evidente derivazione dalla cultura anglosassone e dalle relative soluzioni pragmatiche, insofferenti a categorie astratte, richiama proprio quell’uomo medio che opera sul pericoloso mercato finanziario, con ragionevolezza, non già con una peculiare dotazione di scienza e valendosi di un bagaglio informativo acquisito. Egli è colui che si giova di informazioni che presumibilmente un privato utilizzerebbe come uno degli elementi su cui fondare le proprie decisioni di investimento (cfr. Corte Giustizia Unione Europea, 23 dicembre 2009, n. 45/08) ovvero, con procedimento controfattuale, colui che, quale investitore privato avrebbe realizzato l’operazione controversa, pur conoscendo le condizioni dell’emittente.

Giudizio che deve formularsi con criteri che consentano una valutazione ex ante della agevole riconoscibilità della falsificazione dell’informazione (mentre la dinamica probatoria dell’illecito non impone una verifica ex posi sulla potenzialità ingannatrice, non essendo necessario ai fini della consumazione la prova dell’effettivo raggiro) e che si pone come criterio correttivo della valenza fraudolenta, propria del diritto penale comune.

Pertanto, se può affermarsi nell’area dei delitti contro la fede pubblica che la tutela è diretta ad un interesse pubblico sulla veridicità ideologica dell’informazione, non è più il quivis ex populo il referente del mendacio rilevante, bensì la persona di comune avvedutezza e discernimento.

Nel caso in discorso questo profilo risulta irrilevante, non già soltanto per la diffusione del titolo del gruppo PARMALAT tra i risparmiatori del mercato borsistico e per l’amplissimo novero dei potenziali interessati ai ragguagli sulla bontà dello stesso, ma anche – richiamando quanto già dianzi osservato – per le gravosissime perdite riscontrate in capo ad operatori di borsa (dunque, professionisti del settore, ben più provveduti di un ragionevole investitore) rapportate alle rassicuranti notizie provenienti da PAR. FIN..

Manifestamente infondata è, poi, la convinzione che le notizie provenienti da (omissis) “mai… sono state utilizzate come elemento su cui fondare le proprie scelte”. Trattasi di inciso, non soltanto, beffardo, alla luce del disastroso esito finanziario rappresentato dalla intrapresa PARMALAT, ma anche irrilevante, mancando indicazione di un qualche principio di prova al riguardo.

Si allineano al fatto le considerazioni della difesa di (omissis) per cui il gruppo fosse già fallito, all’epoca della diffusione dei ragguagli mendaci, e che taluni investitori ne fossero al corrente:

pertanto, la circostanza non può essere delibata dal giudice di legittimità.

Ma vi è ulteriore profilo di inammissibilità al proposito (trascurando l’immediata domanda su quale potesse essere, allora, la ragione dell’infedeltà comunicativa se davvero la comunità finanziaria già era consapevole del dissesto): le osservazioni difensive tralasciano di appuntarsi su quanto osservato dal provvedimento di cui è ricorso (cfr. Sent. C. App., pag. 102/103), ed insistono sulle medesime motivazioni del gravame di appello, con ciò esponendosi alla censura di aspecificità.

Infine, manifestamente infondata è la censura sulla considerazione, logica e ragionevole, per cui l’asserita notorietà della crisi imponeva maggior grado di callidità per rassicurare la comunità finanziaria, mediante la prospettazione di una situazione totalmente diversa da quella effettiva (come logicamente osservato da Sent. C. App., pag. 103).

Anche la difesa di (omissis) (4^ Motivo del ricorso) è ricorsa al paradigma dell’inidoneità, per affermare l’irrilevanza penale nella condotta del prevenuto, in considerazione dell’inevitabilità dell’evento, ormai irredimibile alla data dell’8.12.2003 (sulla scia delle considerazioni esposte da Sent. Trib, pag. 195) ed all’inesistenza di possibili rimedi per scongiurare ulteriori guai finanziari per gli investitori.

Ma l’argomento (pur preso in considerazione dall’impugnata sentenza, cfr. Sent. C. App., pag. 122), dimentica che l’accusa si focalizza non sugli accadimenti già trascorsi, bensì in vista dell’impedimento di ulteriori fatti di aggiotaggio, indubbiamente forieri di ulteriore distorsione informativa (anche per la ritardata comunicazione agli investitori dell’assenza di utilità in quell’impiego speculativo).

In tal senso, ancorchè destinati ad un rimedio di più ridotta (ma pur sempre sensibile) portata, la condotta ostativa del SI. avrebbe potuto sortire obiettiva elisione dell’altrui mendacio (sul punto la Corte d’Appello – cfr. Sent. ibidem – ha anche indicato gli specifici comunicati successivi all’8.12.2003, a cui ha correttamente annesso efficacia informativa distorta).

7) L’addebito di cui all’art. 2638 c.c. (Capo c).

Si è più sopra sottolineata la diversità strutturale delle fattispecie di aggiotaggio e di false comunicazioni sociali: gli stessi argomenti valgono anche per escludere l’omogeneità delle medesime con la figura dettata dall’ari. 2638 cod. civ., premessa dell’invocato assorbimento (cfr. Motivo 7 di T.). Deve qui aggiungersi che la fattispecie dettata dall’art. 2638 c.c. è reato “proprio”, appuntandosi nei confronti di esponenti societari, ovvero a quanti l’ordinamento già autonomamente impone il dovere di comunicazione agli enti di vigilanza, enucleando – dunque – categorie di soggetti già vincolati alla collaborazione informativa.

Per quanto attiene l’oggetto materiale del reato la Corte osserva che, tra le comunicazioni “previste in base alla legge”, rilevanti ai sensi dell’art. 2638 c.c., rientrano quelle inviate alla CONSOB in adempimento degli obblighi, gravanti sugli emittenti quotati e sulle società di revisione, previsti dal D.Lgs. n. 58 del 1998art. 115.

Allo stesso modo si osserva che, stando alla normativa vigente all’epoca dei fatti (cfr. anche Sent. Trib., pag. 164), ai sensi dell’art. 114 e del regolamento CONSOB 11971 del 1999 (nonchè delle direttive di Banca Italia), era dovere della società quotata comunicare, mediante inserimento nel “NIS”, le informazioni di natura privilegiata entro 24 ore: si tratta di un obbligo di “comunicazione continua”, che garantisce l’adeguato ragguaglio, in tempo ravvicinato, degli investitori ed,in genere, degli operatori di Borsa. L’elenco di queste comunicazioni incriminate è riportato dai giudici di merito con dettaglio (cfr. Sent. C. App., pag. 57).

Seppur queste comunicazioni provengano da una società, non è consentito ritenere che le notizie false in esse contenute e coincidenti con quelle riportate nei comunicati stampa, consentano l’assorbimento del reato in discorso in quello di aggiotaggio. A questa conclusione osta, invero:

– la già rilevata diversità dei soggetti propri (categoria estesa a quanti siano vincolati per legge alla collaborazione informativa, nel caso di specie, già assoggettati all’obbligo comunicativo circa i servizi di investimento speculativo), dell’interesse tutelato dalla norma a protezione dell’ente di vigilanza (per questo aspetto il bene giuridico difeso è di natura esclusivamente istituzionale ed ha caratteristica di prevenzione), e, in particolare di CONSOB, posta a presidio del suo regolare funzionamento, indispensabile per la correttezza delle transazioni mobiliari e conseguentemente, soltanto, in via successiva e mediata si presenta quale momento strumentale alla regolarità, efficienza ed affidabilità dell’attività speculativa (oggetto primario di tutela nel reato di aggiotaggio), rispetto gli interessi patrimoniali dei singoli enti e degli investitori (sicchè la norma è insensibile al verificarsi di eventuale pregiudizio in capo a questi ultimi);

– la natura dell’informazione che, come già segnalato, per le società quotate non è soltanto saltuaria o periodica, ma vincolata a fitte cadenze, correlate ad operazioni finanziarie, tanto da qualificarsi come informazione continua;

l’oggetto materiale dell’informazione che prescinde dalla situazione patrimoniale economica e finanziaria, di cui agli artt. 2621 e 2622 c.c., attenendo ai servizi prestati dalla emittente o, ancor più genericamente, che viene individuato in “comunicazioni dovute” a detta autorità (art. 2638 c.c., comma 2);

– i destinatati della comunicazione, individuati nei soci o nel pubblico in seno al reato societario, ed – invece – identificati nel solo ente di vigilanza (nel caso in esame, CONSOB), quanto all’art. 2638 c.c..

– il bene tutelato che nulla ha a che vedere con la fedeltà informativa, come nei reati di falso in bilancio, bensì con l’esercizio dell’attività di vigilanza. Proprio per questo motivo, l’art. 2638 c.c., punisce autonomamente le lesioni all’attività degli enti istituzionalmente deputati allo svolgimento delle (ben diverse tra loro) funzioni pubbliche di vigilanza o per la sola messa in pericolo (comma 1) o per l’effettiva compromissione (comma 2) dell’attività istituzionale di questi enti. Giustamente (Memoria CONSOB 14.4.2011, pag. 24) si sottolinea di diversità concettuale che corre tra la lesione dell’interesse al regolare svolgimento della funzioni di vigilanza, rispetto all’effettiva lesione del c.d. “bene finale”.

L’appunto difensivo non ha, pertanto, pregio.

Nè risulta convincente la ulteriore prospettazione di assenza di illecito nella condotta – qualificata dal ricorrente come ‘meramente passivà (passività consistita nel non smentire i comunicati nel loro contenuto infedele, cfr. Motivi T., pag. 44) – in capo ad un soggetto che era tenuto alla corretta comunicazione, quale preposto ad una società quotata sottoposta per legge all’autorità di vigilanza (art. 114 T.U.F.: “gli emittenti quotati ed i soggetti che li controllano informano il pubblico” e, per quanto attiene a CONSOB, cfr. 2 All. 3 al regolamento concernente gli emittenti, per tacere del vincolo sorgente dalla richiesta espressa di CONSOB all’ente).

La violazione del dovere di verità, sia nella forma commissiva del mendacio (comunicazione di fatti non rispondenti al vero) sia in quella omissiva del silenzio su comunicazioni doverose o di necessaria rettifica di comunicazioni infedeli (e, quindi, azione di ostacolo alla funzione tutoria mediante occultamento), integrano la previsione incriminatrice che, considera pure la più vasta categoria di “altri mezzi fraudolenti” inclusiva di modalità miste (per tacere del comma 2 della norma, che considera proprio l’omessa informazione uno strumento attuativo dell’illecito).

Da tanto discende che anche l’atteggiamento inerte, di chi era tenuto ad una corretta informazione, si riveste di interesse penale.

Osservazione che non intende contrastare la corretta conclusione dei giudici di merito, per cui potrebbe anche ipotizzarsi un comportamento di aggiotaggio meramente passivo (cfr. ad es. Sent. Trib., pag. 249 e ss.), ma che si limita a rilevare come la condotta di ostacolo all’organismo di vigilanza assume rilievo penale se sia frutto di sollecitazione da parte dell’organismo di vigilanza e se il ragguaglio fornito concreti una risposta parziale, frammentaria, volutamente incompleta e potenzialmente foriera di travisamento della realtà (oltre, ovviamente, i casi in cui l’informazione all’organismo sia in sè mendace ed impeditiva dell’espletamento della fruizione).

Per il vero, la sostanza del caso qui esaminato è nel senso di un attivo e reiterato comportamento di mendacio, attivo ed efficace verso l’Ente di Vigilanza, esteso alle diverse aree del gruppo e ripetuto per i momenti più critici, una vera e propria strategia difensiva e fraudolenta per fronteggiare i dubbi evidenziati dalla stampa specializzata, come annotato anche da Sent. Trib. 141 e ss.

La difesa di (omissis) ha, ancora, invocato la ricorrenza dell’esimente di cui all’art. 384 c.p. ma, come anche rammentato dal Procuratore Generale in udienza, questa è norma modellata sul più generale principio della scriminante dello stato di necessita (“non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità…”) ed è espressamente riferita ad ipotesi specificamente indicate dalla disposizione medesima; trattandosi di deroga alla disciplina generale, ogni sua estensione applicativa risulta indebita.

In particolare, la disposizione si colloca, nel contesto dei delitti contro l’autorità giudiziaria, in un quadro strettamente processuale. Si presenta come deroga ai peculiari obblighi di verità gravanti sul testimone: evidente è l’applicazione dell’ulteriore principio processuale ad essa sotteso, quello del nemo tenetur se detegere.

Orbene, seguendo quanto già affermato da questa Corte, a proposito delle informazioni infedeli mediante comunicazione sociale (cfr. Cass., Sez. 5^, 21 gennaio 1998, Cusani, CED Cass. 210036, Cass., sez. 5^, 22 gennaio 1992, Zampini, CED Cass. 190500; v. anche Sent. C. Cost., 282/08) ed, in genere, per reati di falso (da ultimo Cass. pen., sez. 5^, 15 gennaio 2010, Bassi, Ced Cass., CED Cass. 246157), questo principio non ha vigenza fuori delle cadenze e delle garanzie proprie del processo.

Nè è lecito confondere (cfr. Motivi T., pag.50/51) il ruolo dell’Autorità Giudiziaria, preposta a sanzionare condotte di illecito penale ormai consumato, con quello di CONSOB, che è preposta ad una vigilanza preventiva, diretta ad evitare condotte antidoverose e pregiudizievoli per il mercato mobiliare, compito svolto al di fuori delle regole che scandiscono l’accertamento processuale del fatto illecito e che non si conclude con un giudizio portante a restrizioni della libertà personale.

Corretta è sul punto l’argomentazione dei giudici di seconde cure (Sent. C. App., pag. 107), che esclude interesse alla sollevata questione di legittimità costituzionale, essendo siffatta configurazione penale frutto di una scelta discrezionale del legislatore, segnatamente in un campo in cui (come dimostra la severità della L. n. 262 del 2005, emanata proprio per contrastare l’opacità informativa delle società emittenti), il legislatore ha manifestato preoccupazione, con inasprimento delle sanzioni e più analitica configurazione degli illeciti, per i reati lesivi degli interessi diffusi del mercato mobiliare.

Esatta, d’altra parte, è l’osservazione per cui risulta ancora inapplicabile l’esimente poichè lo stato di pericolo all’onore deriva, nella situazione qui considerata, da azione propria del medesimo imputato, onde non è possibile scorgere la scusabilità in termini di stato di necessità (cfr. sul punto Cass. pen., sez. 6^, 15 dicembre 1998, Mocerino).

Infine, la censura del (omissis) sottolinea che la condotta di falsità nei confronti di CONSOB, era in realtà protesa all’esclusivo scopo di non far emergere il dissesto del gruppo, così esulando dal paradigma normativo. L’osservazione non riveste interesse.

E’ evidente che l’intenzione contiene e prevede in sè, come implicito riflesso volitivo, anche il secondo risultato, che non è logicamente scindibile dall’originario e primario interesse del prevenuto.

Nel resto il mezzo riporta al già denegato rapporto di assorbimento della fattispecie in discorso nella bancarotta (qui per connotazione documentale o societaria).

Ma il ricorrente trascura che il danno cagionato all’espletamento delle funzioni discende dalla condotta dolosa, anzi fraudolenta, degli imputati i quali hanno consapevolmente impedito a CONSOB di percepire i sintomi delle falsificazioni di bilancio.

Infatti, erroneamente nel ricorso viene parificata la situazione degli amministratori “indipendenti” a quella di CONSOB, soggetti accomunati nell’inerzia al cospetto delle falsità esposte da PARMALAT (cfr. Ricorso, pag. 124 e ss). Mentre, invero, per i primi la sentenza della Corte d’Appello ha enucleato sia la percezione di precisi segnali di allarme, nonchè di alcune prospettive da cui emergeva la distonia tra i dati esposti nelle comunicazioni sociali e quelli reali, tali da dover desumere una situazione ben diversa da quella “ufficiale”, per CONSOB nulla di tutto questo, poichè la Commissione era costretta a rifarsi alle infedeli e distorsive comunicazioni ricevute. Inoltre, l’impugnazione trascura come da parte di CONSOB fu rivolta espressa (e ripetuta) richiesta di ragguaglio e delucidazione, a far data dal marzo 2003, domande di delucidazioni formulate sia ai sensi dell’art. 114 T.U.F., sia con acquisizione documentale a mente dell’art. 115 T.U.F. (si vedano le indicazioni documentali in Sent. C. App., pag. 56/57), a cui seguivano sistematicamente ragguagli mendaci. Indagine obiettivamente puntigliosa, sfociata nell’esame del Collegio Sindacale di PAR. FIN. e dell’Amministratore delegato di quella società (Sent. C. App., pag. 43 e ss.), promossa a seguito delle perplessità e riserve già avanzate da operatori di mercato o dalla stampa specializzata. Ma anche per questo accertamento sugli interna corporìs PAR. FIN., ma dalla società di (OMISSIS) fu reiterato il comportamento ingannevole. Risulta, quindi, corretto riconoscere il danno (anche non patrimoniale) nella violazione – conseguente a delitto – dell’interesse giuridico protetto dall’art. 2638 c.c., che è strumentale al fisiologico svolgimento del mercato mobiliare e che ha inciso sulla ragione essenziale dell’esistenza del presidio pubblico al mercato borsistico. Quindi, la lesione di questo interesse vulnera la sfera soggettiva dell’ente e legittima il riconoscimento di uno specifico danno.

La doglianza sulla indeterminatezza della sanzione per mancanza di indicazione del reato più grave e degli aumenti conseguenti alla continuazione, non risulta dedotta con il gravame di appello e riesce, pertanto, inammissibile. p.8) La posizione di (omissis) ed i quesiti connessi al rapporto tra l’art. 2638 e l’art. 40 c.p., comma 2.

Con i primi motivi di ricorso, l’imputato (omissis) lamenta la preterizione di argomenti dedotti dalla difesa dell’appellante che invocavano un apparato argomentativo più ampio e più approfondito della sua posizione, soprattutto in considerazione del revirement decisorio intercorso tra i due gradi di giudizio.

Ma i rilievi (esaminati anche dalla Memoria CONSOB, pag. 29 e ss.) non colgono nel segno, ma giovano soltanto per abilmente prospettare istanze di puro merito.

Infatti, la Corte d’Appello ha esaminato le risultanze acquisite ed ha diversamente opinato, con passaggi logici e meditati, sulla penale responsabilità del ricorrente.

Nonostante la un po’ enfatica censura del ricorrente, non si rilevano vizi rapportabili al sindacato questa Corte.

Così come del tutto improponibile è la critica (4^ Motivo del ricorso della difesa di (omissis)) rivolta ad un inesistente travisamento della prova, non essendosi dato prova di atto mai versato al processo o della lettura di una risultanza in guisa del tutto difforme dal suo obiettivo significato: infatti, il giudice di legittimità deve limitarsi a verificare se il senso probatorio presenti una verosimiglianza non immediatamente smentibile e non imponga, per il suo apprezzamento, ulteriori valutazioni in relazione al contenuto complessivo dell’esame del dichiarante e siffatto riscontro non palesa l’incongruenza lamentata.

E’ preliminare al vaglio della posizione di questo imputato un cenno alla figura di “amministratore indipendente”, ruolo rivestito dal prevenuto in seno a PAR- FIN., disamina espressamente affrontata in termini generali, con non superficiale motivazione (anzi, talora connotata da vena polemica) dal Tribunale (Sent. Trib., pag. Iòle ss.) e tema ripreso dal ricorso delle parti civili (omissis) + 16 (avv. (omissis)).

Per il vero, a ben vedere, questa categoria poco interessa all’attuale vicenda poichè la figura in discorso è stata introdotta nell’ordinamento societario dall’entrata in vigore del D.Lgs. 1 gennaio 2003, cioè dal gennaio 2004, epoca successiva alle condotte censurate (e, quindi, la disciplina all’epoca dei fatti di causa correva sulle direttive dei “vecchi” artt. 2392 e 2381 c.c., che menzionavano soltanto gli amministratori delegati e privi di delega).

Tuttavia, di essa giova qualche succinta menzione, non soltanto perchè evocata dal ricorso di SI., ma anche perchè la disciplina delle società quotate la conobbe in epoca precedente.

L”amministratore indipendentè, imposto nel c.d. “modello monistico”, dall’art. 2409 septesdecies, era già presente in una diffusa prassi societaria che contemplava apposite clausole statutarie al riguardo.

Egli è amministratore privo di funzioni esecutive e proiettato ad una autonomia di giudizio (requisito che consente nel sistema anglosassone di privarsi dell’organo di sorveglianza), ma qualificato da specifici requisiti di eleggibilità contrassegnati da terzietà rispetto agli amministratori ordinari. Sicchè per costoro è accentuata (nei voti del legislatore) la funzione di controllo sull’amministrazione.

Per le società quotate in Borsa la figura dell’amministratore indipendente era già stata evocata, ancor prima della riforma societaria, dal c.d. “Codice di Autodisciplina”, introdotto nel corso del 1999 e rivisto nel 2002, testo finalizzato a garantire la correttezza della conduzione amministrativa per gli organismi preposti alla emissione di prodotti di investimento diffuso.

Caratteristiche ulteriormente sottolineate dalla legge sul risparmio e dall’introduzione nel T.U.F. degli artt. 147 ter, 147 quater, 148 bis per le società quotate (provvedimenti che non rilevano nella presente vicenda perchè posteriori ai fatti in esame).

E’ stato condivisibilmente affermato che l’autonomia ed indipendenza assegnata a questo organo attiene precipuamente al requisito di eleggibilità (così espressamente afferma il Tribunale, Sent. pag. 162), ma questo arresto non può assolutamente far ritenere che la riforma abbia alleggerito la sua responsabilità (come, invece, sembrerebbe arguirsi da Sent. Trib., pag. 133). Le preoccupazioni del legislatore della riforma, esplicitamente manifestate in seno alla Relazione governativa alla legge di riforma (riportata in Sent. Trib., nota 188) si appuntano sulla possibile estensione di responsabilità nei confronti di questi amministratori chiamati a rispondere (ma il legislatore si riferiva a contenzioso avviato in via civilistica, a seguito di azioni di responsabilità) nei casi di pur accertata oggettiva ignoranza delle condotte pregiudizievoli degli altri amministratori, da parte di questi soggetti carenti di adeguati strumenti capaci di evitare il paventato danno per la società.

Questo pericolo, nondimeno, è assente affaccia nella valutazione del corredo d’accusa, raccolto in questo processo e di cui la Sentenza impugnata ha fatto buon governo.

Può affermarsi, infatti, che la riforma della disciplina della società, portata dal D.Lgs. n. 6 del 2003, ha indubbiamente alleggerito gli oneri e le responsabilità degli amministratori privi di deleghe. Può anche segnalarsi che è stato formalmente rimosso il generale “obbligo di vigilanza sul generale andamento della gestione”, ma non può trascurarsi che quest’ultimo dovere è stato chiaramente sostituito dall’onere di “agire informato” e correlato al potere di richiedere informazioni ai delegati. Esso è agevolmente rinvenibile tuttora (secondo autorevole e condivisa dottrina civilistica) nel dovere di diligenza.

Ancora: il sistema societario ha mantenuto aree di gestione e di attribuzione che, per la loro rilevanza, non possono formare oggetto di delega. Esse, conseguentemente, restano nel perimetro della funzione propria di tutti i consiglieri. Tra esse (art. 2381 c.c., comma 4) è annoverata proprio l’informazione di bilancio e l’emissione di prestiti obbligazionari di cui all’art. 2420 ter c.c..

E’ doveroso aggiungere che il diritto individuale di richiedere informazioni si manifesta come espressione di un potere che – all’evidenza – sottende il dovere di doverosa conoscenza dell’operato degli altri amministratori (osservazione direttamente influente nella fattispecie dettata dall’art. 2381 c.c., comma 3) circa l’assunzione di piani industriali e finanziari della stessa. Questo obbligo, supposto dall'”agire informati”, deve modularsi con la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico (art. 2392 c.c., comma 1), e non – quindi – secondo il consueto criterio dell'”uomo medio”, secondo i referenti di questa responsabilità contrattuale (verso la società).

Quanto dianzi osservato dimostra che l’amministratore “indipendente” è soggetto pur sempre collocato dall’ordinamento in una posizione di garanzia, cioè, di protezione di interessi diffusi propri di categorie (azionisti, creditori, dipendenti, ecc.) che non dispongono di adeguate capacità cognitive della realtà societaria.

Soggetto – diversamente da quanto opinato dal tribunale (Sent. Trib., pag. 133) – la cui funzione, regolata dalla disciplina del codice civile, conosce espressi poteri e correlativi doveri (anzi, per quelli indipendenti, marcati obblighi di vigile attenzione, come esattamente osservano le parti civili ricorrenti). Paradigma obbligatorio che si rifrange sulla fattispecie regolante il nesso di causalità per fatto omissivo, prevista dall'(omissis) art. 40 c.p., comma 2.

L’atto di impugnazione del (omissis) richiama, innanzitutto, gli arresti di questa medesima sezione della Cassazione, protesi alla verifica, nel contesto del dolo eventuale, di una effettiva percezione di “segnali di allarme”, riferiti all’evento danno che la posizione di garanzia del soggetto deve impedire e non accontentarsi di una violazione a doveri di attenzione, così confondendo il piano della colpa da quello della volontarietà. Dunque, non già la perfetta rappresentazione del fatto, incerto e futuro, ma presagio (acquisito per tramiti non tipicizzati dal legislatore, cfr. art. 2392 c.c., comma 3, norma non modificata dalla riforma societaria), concreto e ragionevolmente (secondo la dotazione del bagaglio di professionalità, preteso – come si è detto – dal nostro sistema in capo all’espressione dell’organo amministrativo) rapportabile, all’incombenza dell’evento dannoso. Percezione che determina il dovere impeditivo.

Il Collegio non può che confermare le proprie precedenti posizioni interpretative, del resto accolte anche dalla sentenza impugnata e cosi accogliere la condivisa lettura fornita dalla Corte territoriale, più corretta – ad avviso di questa Corte – di quella resa dai primi giudici.

Va, del pari, osservato che queste precisazioni, esposte in replica a spunti difensivi, risultano un po’ accademiche per due ragioni, su cui la decisione della Corte territoriale non si sofferma.

Eppure esse sollecitano una ulteriore approfondita riflessione, imposta anche dalle recise e diverse conclusioni del Procuratore Generale all’udienza:

– 1) in primo luogo, l’episodio del colloquio dell’8.12.2003 non coinvolse i c.d. “segnali di allarme” che imponevano all’amministratore il “devoir d’alerte”, tema su cui hanno lungamente disquisito i difensori nell’udienze avanti questa Corte: (omissis) (come già osservato dalla Corte milanese, Sent. pag. 122 e ss.) ebbe chiarissima contezza, in data 8.12.2003, della radicale falsità delle precedenti informazioni rese da PAR. FIN. al mercato con i comunicati ritenuti violatori dell’art. 2637 c.c.: tanto gli era stato espressamente rivelato dal (omissis), protagonista di quella gestione. Una notizia indubbiamente dotata di fede privilegiata, concretandosi in una vera e propria confessione, indirizzata all’amico e scevra – pertanto – da possibili infingimenti.

Se è considerazione corretta l’affermazione dei primi giudici per cui – stando alle risultanze processuali – il ricorrente era all’oscuro della reale situazione finanziaria della società, diviene inaccettabile giustificare il successivo comportamento silente del prevenuto da allora in poi (e tanto dispensa dallo scrutinio degli elementi sintomatici ricordati dalla Memoria CONSOB, pag. 46 e ss.) Si riflette, poi, nella richiesta di indagine sul merito, inammissibile per questo grado di giudizio, l’accertamento del grado di credibilità che gli altri imputati, (omissis) e (omissis), ricevettero dal messaggio riferito loro de relato:

cioè, se la notizia fu proposta in termini di certezza o di stravagante novità e quale considerazione ad essa diedero i percettori. Di qui rinammissibilità della rivisitazione richiesta sul punto dalla parte civile ricorrente.

Può, dunque, affermarsi che, da quel momento, (omissis) agiva “informato”, anche ad ipotizzare che egli abbia nutrito qualche dubbio, avendo ricevuto una segnalazione che lo obbligava ad agire per evitare ulteriori guai alla società ed agli investitori.

Argomento che elide di ogni portata l’obiezione dell’imputato (ed affacciata anche dai primi giudici, Sent. Trib. pag. 154) per cui anche CONSOB era rimasta all’oscuro della drammatica situazione finanziaria di PAR. FIN. (cfr. anche le sensate osservazioni di Memoria CONSOB, pag. 33 e ss.).

Risulta, pertanto, infondata la doglianza portata dal 7^ Motivo di ricorso del (omissis).

– 2) inoltre, il colloquio ebbe luogo in un momento successivo (al pomeriggio di quel giorno) alla diffusione del comunicato ritenuto strumento di aggiotaggio.

Così è dato leggere in Sent. C. App., pag. 125 (“(il comunicato fu) emesso verosimilmente prima del colloquio”) e la circostanza, risolvendosi in un profilo di fatto, non è ulteriormente verificabile da questa Corte. Ogni attività impeditiva, cioè, sarebbe risultata inutile, essendosi il reato già consumato (attesa la natura di reato di mera condotta) nella mattinata (viene segnalata come data di emissione quella delle 8,12 di mattina). Ed è esatta l’obiezione difensiva per cui l’attività di ostacolo, richiesta dall’art. 40 cpv. c.p., si sarebbe riflessa, al più, sugli effetti del comunicato già reso e, quindi, sulle conseguenze di un reato ormai commesso definitivamente (essendo chiaro che l’aggiotaggio si consuma con la propalazione della notizia).

Il rigetto di questo motivo priva di interesse quello successivo (pur astrattamente proponibile, quanto ad interesse, cfr. Cass. Sez. 5^, 28 settembre 2004, Carretti, CED Cass., 231680) essendo esclusa la proponibilità nel merito della premessa.

Non pone soverchi problemi il capitolo della prevedibilità in concreto dell’evento pregiudizievole: si è detto che questo colloquio si situava all’esito di un continua serie di comunicati mendaci e che spalancava l’orizzonte verso una devastante crisi patrimoniale e finanziaria. Non è illogico ritenere (così come affermato, con certezza dalla Corte territoriale, cfr. Sent. C. App., pag. 125) pertanto, non soltanto possibile, ma del tutto probabile che l’ingannevole prassi del protagonista ricalcasse le ben note orme di infedeltà, nel medesimo fine di salvaguardare la sopravvivenza del gruppo.

A questo punto, delicato è, invece, il quesito affacciato sia dal ricorrente sia dalla Pubblica Accusa.

Per addebitare al soggetto, obbligato ai sensi dell’art. 40 cpv. c.p., la responsabilità dell’evento pregiudizievole non è sufficiente dimostrare la sua concreta conoscenza dell’accadimento, che è suo obbligo evitare. Occorre anche provare la possibilità di disporre di strumenti a ciò ostativi. La causalità omissiva ha, infatti, natura normativa e non naturalistica e non potrebbe qualificarsi come “posizione di garanzia” quella che annovera soltanto un obbligo di vigilanza, senza che il dovere sia accompagnato da effettivi poteri impeditivi, tali da consentire al soggetto di evitare il verificarsi dell’evento. Si tratta di un profilo di esigibilità della condotta essenziale per consentire l’imputazione di responsabilità penale (cfr. per es. Cass. Sez. 5^, 18 febbraio 2010, Cassa di Risparmio di Rieti, CED Cass. 247316).

Questi poteri impeditivi non sono indicati dal precetto legislativo, che si limita a tratteggiare la trama del nesso causale nei casi di omissione colpevole.

Essi possono anche essere di portata indiretta ed anche di mera natura sollecitatoria (cfr. Cass., Sez. 4, 11 marzo 2010, PG. in proc. Catalano, CED Cass. 247015, in motivazione). Il loro accertamento si modula sulle situazioni concrete in cui si svolge la condotta censurata.

Poichè, dunque, la norma non restringe in alcun modo la categoria degli atti che abbiano la possibilità di influenzare il corso degli eventi, la loro valutazione è rimessa al giudice, che deve rinvenire la relativa esistenza nella dotazione disponibile al soggetto attivo.

Ma, in via astratta e generale risulta evidente che la scelta non può ricadere su comportamenti in sè antigiuridici e deve restringersi ad un comportamento alternativo lecito (cfr. Cass., Sez. 4, 11 marzo 2010, cit): osservazione che risponde alle ipotesi affacciate per paradosso dal Procuratore Generale.

Ovviamente, l’area interessata è quella più prossima all’attività professionalmente esercitata da costui, ma nulla vieta di ipotizzare rimedi diversi contrassegnati da efficacia impeditiva (non è, tuttavia, indebita l’allusione all’informazione di stampa).

Nel caso in esame, era agevolmente rinvenibile per l’imputato l’immediata comunicazione del ragguaglio pervenuto al (omissis) dal (omissis), di sconvolgente portata, ai componenti del Consiglio di Amministrazione (il tramite più immediato e fisiologico), al Collegio Sindacale, al Comitato di Controllo interno a PARFIN (previsto dal Codice di autodisciplina delle società quotate e che, pur essendo composto da dipendenti, ha onere di vigilanza sull’andamento della gestione sociale), agli organi di vigilanza, al dr. (omissis), appena nominato dal (omissis) quale collaboratore al risanamento, a CONSOB particolarmente preoccupata, in quel torno di tempo, delle sorti degli investitori in titoli del gruppo quotati in Borsa, ecc..

Ma, soprattutto, non va, ancora, trascurata la perdurante legittimazione dell’amministratore al ricorso per la dichiarazione di fallimento del debitore (ampiamente giustificata dalla ammissione della fattispecie di cui all’art. 2447 c.c.), senza necessità della preventiva autorizzazione dell’assemblea o dei soci, non trattandosi di un atto negoziale nè di un atto di straordinaria amministrazione, ma di una dichiarazione di scienza (secondo la normativa vigente al momento dei fatti ed anteriore alla riforma della legge fallimentare), peraltro obbligatoria per l’amministratore (ai sensi della citata norma del codice civile), non deve, infatti, sottacersi che la sua inerzia sino a quel momento si colorava di illegittimità anche nei suoi personali confronti, in ragione del ruolo svolto, per un’omessa sufficiente vigilanza sulla gestione a cui, ancorchè ignaro, aveva preso parte. Egli era, quindi, (cor)responsabile, per un profilo civilistico, verso il mercato del risultato (accertato a quella data) esiziale per gli investitori. Verso costoro e non soltanto nei confronti della società era richiesta l’azione impeditiva di ulteriori pregiudizi.

Ma la mancanza era anche risulta penalmente sanzionata, ai sensi della L. Fall.art. 217, comma 1, n. 4 (art. 224, comma 1) (cfr. per es. Cass. civ., sez. 1^, 16 settembre 2009, n. 19983).

Tutto ciò per tacere della logica indicazione dei giudici di appello, per cui – con strumenti esterni alla propria funzione – ma facilmente disponibili, come l’informazione a mezzo stampa, avrebbe sicuramente bloccato il corso delittuoso di quella gestione.

Obietta il ricorrente (omissis) (Motivo 5^ del suo ricorso) che egli diede le proprie dimissioni dalle cariche societarie, con ciò dimostrando di volere recidere ogni sua responsabilità dalle altrui condotte criminose. Certamente questa attività non integra (almeno nel caso concreto) la nozione di “potere impeditivo” sotteso dalla norma.

Infatti, proprio l’allontanamento (attività svolta ‘privatamentè) dall’organismo, era azione che distruggeva i tramiti attraverso i quali l’imputato avrebbe potuto istituzionalmente opporsi alla verificazione dell’evento dannoso (soluzione meramente “pilatesca” secondo la definizione dei giudici milanesi, Sent. C. App.,pag. 125).

Ma, in tema di interruzione del nesso di causalità, sotteso all’art. 40 cpv. c.p., deve affermarsi che la mera presentazione delle dimissioni dalla carica non è momento sufficiente ed idoneo ad interrompere il rapporto eziologico tra l’omissione e la verificazione del danno. Si tratta, invero, di un atto che non incide sulla continuità causale e che tende soltanto ad escludere la personale responsabilità dal fatto che può essere ascritto al soggetto attivo, rimasto colpevolmente inerte.

La circostanza, tuttavia influisce sulla determinazione della pena:

non vi è prova alcuna che il prevenuto fosse al corrente della miserevole dotazione finanziaria del gruppo, sino alla data dell’8.12.2003, con i suoi riflessi effettivi sul comunicato del 10.12.2003. Dunque non può affermarsi l’esistenza di prova di concorso penalmente rilevante nelle condotte precedenti.

Successivamente a quel momento egli risulta dimissionario, sicchè l’addebito non può che formularsi per quel periodo di tempo.

Valendosi delle medesime considerazioni svolte dalla Corte milanese in merito all’applicazione delle circostanze attenuanti generiche (incensuratezza, buon comportamento processuale) alla pena da comminarsi all’imputato (pag. 125 e 126) e considerata la modestia dello spessore dell’addebito, così come oggi risulta ascritto al (omissis), la Corte ritiene che a favore dell’imputato possa essere riconosciuta la sospensione condizionale della pena, beneficio che i giudici di appello non erano in grado di applicare, per l’elevatezza della sanzione in allora determinata (anni tre di reclusione).

Non è fondata la doglianza successiva del ricorso di (omissis) (Motivo sub 6^).

Una volta che si ritenga provata la consapevolezza della falsità delle comunicazioni al mercato del risparmio, è logica ed adeguata la conclusione (Sent. C. App., pag. 124/125) per cui si deve ravvisare la sussistenza degli altri addebiti ruotanti sulla identica dotazione di consapevolezza. La specificità del dolo richiesto dall’art. 2638 cod. civ. è inclusa nella rappresentazione che quel comportamento di così radicale mendacio, si atteggiava anche ad ostacolo delle funzioni di vigilanza. Così come il profitto sotteso dall’art. 2624 c.c. non è scindibile dalla concreta valutazione della condotta a cui giovava il silenzio del SI.. p.9) La prospettazione del possibile concorso doloso della persona offesa.

Manifestamente infondata è questo motivo che vorrebbe vedersi elisa la propria responsabilità, sia penale sia civile.

La circostanza attenuante evocata dal ricorrente, del concorso dell’evento per fatto doloso della persona offesa, ricorre quando la condotta di quest’ultima, non solo si inserisce nella serie casuale di produzione dell’evento, ma si collega sul piano della causalità psicologica a quella del soggetto attivo, nel senso della necessità che la persona offesa abbia voluto lo stesso evento avuto di mira dal soggetto attivo. Tanto non è predicabile nel caso in esame, non potendosi rappresentare quale interesse potesse avere l’investitore al proprio danno economico (cfr. Cass. pen., sez. 1^, 11 marzo 2008, Sorrentino, Ced. Cass. 239798).

L’ipotesi di una mera colpa nel terzo concorrente è ipotizzata nel solo caso in cui il “concorso” sottenda la cooperazione di cause indipendenti (art. 113 c.p.), fattispecie ammissibile in astratto, purchè il reato del concorrente sia previsto anche nella forma colposa (cfr. Cass. pen., sez. 4^, 14 novembre 2007, Pozzi).

L’aggiotaggio non consce forma colposa.

Non vi è, quindi, spazio per accreditare l’elisione della responsabilità civile quale conseguenza dell’informazione decettiva contestata al (omissis). p.10) La posizione di (omissis).

Il ricorso di (omissis) si sofferma sul tema della responsabilità discendente dalla sua posizione di amministratore (di BONLAT) a cui è conseguita anche quella ascritta agli altri amministratori del gruppo. Egli, infatti, si duole dell’erronea applicazione della legge penale da parte della Corte milanese, che ha riformato la prima decisione, per l’asserita errata lettura dell’art. 2392 c.c., non già in linea astratta, ma in quanto non sono state adeguatamente considerate le risultanze circa l’ignoranza sia sulle infedeltà di bilancio sia sulla conoscenza dello stato di crisi del gruppo, sia, infine, sull’effettivo portato dei c.d. “segnati di allarme”.

Dunque, la cesura si sostanzia nella critica del paradigma valutativo, passato dal piano della mera “conoscibilità” a quello della reale (ma contestata) conoscenza.

Ma il ricorso non prende in effettiva considerazione la complessa motivazione dei giudici di appello.

La Corte territoriale ha affermato che (omissis) ebbe certamente notizia delle infedeltà che accompagnarono la gestione della sua società (e, conseguentemente, delle economie da questa influenzate).

A sostegno della penale responsabilità del (omissis) i giudici d’appello hanno rammentato che il dovere di garanzia (proteso alla conservazione del patrimonio), incombe pur sempre sull’amministratore, come è agevole ricavare dal testo dell’art. 2392 c.c.. Norma che impone a costui (qui addirittura con delega) una dilatazione della nozione del “dolo eventuale”, atteggiamento soggettivo decisivo per la valutazione della omissione di controllo, penalmente rilevante.

Nel caso di specie, il (omissis) è stato ritenuto consapevole (considerando la sua brillante carriera, la posizione di fiduciaria dei vertici, sicuramente non un ignaro prestanome) la funzione assegnata dal gruppo a BONLAT, ente servile rispetto alle esigenze proprie di un gruppo davvero impresentabile al mercato speculativo, attesa la gravissima crisi che affliggeva quest’ultimo. L’imputato era preposto ad una cassaforte finanziaria del novero societario; una società utilizzata per rettifiche apparenti dei bilanci, come ammesso dall’imputato; votata (anche) a stratagemmi destinati ad abbassare artificiosamente il livello delle complessive perdite (per es. con il riacquisto fittizio di obbligazioni emesse da PARMALAT FINANCE BV.) Il ricorrente – come da quegli ammesso – era a conoscenza che BONLAT serviva prevalentemente a “far carta” e, cioè, a fornire una prospettazione contabile dei risultati di gestione non rispondente al concreto tratto finanziario delle operazioni, discrasia che poteva essere non influente sul bilancio consolidato in forza della compensazione dei debiti infragruppo. In questo senso deve annoverarsi la tecnica di trasferimento di utili verso l’economia del gruppo più claudicante (sul punto cfr. le riflessioni portate dalla Memoria CONSOB, pag. 76).

I giudici ricordano che egli si era visto inspiegabilmente rifiutare (da parte di (omissis)) la consegna di copia degli atti da lui stesso firmati e le bolle di consegna attinenti al negozio concluso, sintomo della fittizietà dell’operazione relativa al commercio del latte in polvere. Che, ancora, non si era stupito del diniego della copia delle pezze giustificative e dei documenti finanziari attestanti l’utile asseritamente derivato da quel commercio. La sentenza impugnata ha, ancora, ricordato che B. era messo in condizione di accertare che il versamento, dei dichiarati utili, conseguiti ad affari profittevoli di BONLAT, effettuato asseritamente da BONLAT sul “Fondo Epicurum” non era mai esistito, non essendovi mai stata comunicazione bancaria del relativo bonifico bancario di accredito da BONLAT a FONDO EPICURUM. Sono osservazioni ragionevoli e puntuali per quanto attiene al versante della conoscenza di possibili patologie. Sono, soprattutto, argomenti ancorati ad elementi di fatto.

La difesa ha opposto la singolare circostanza non soltanto dell’assente chiamata di correo nei suoi confronti, al cospetto di accusa esplicita verso altri amministratori di consociate, ma la risultanza positiva di una esplicita dichiarazione di innocenza in capo al prevenuto. Affermazione raccolta non a seguito di formale interpello del coimputato, bensì anche nella anche nel corso di un colloquio del T. con alcuni famigliari. Sfondo, quindi, immune da condizionamenti difensivi e garanzia di una qualche genuinità.

Priva di adeguata giustificazione è la supposizione di un’ipotesi di intesa, concordemente assunta dai coimputati, volta a tenere fuori dal processo un soggetto che non era – pervero – portatore di minori responsabilità degli altri preposti a società del gruppo.

Per questo profilo la decisione si presenta carente e meritevole di annullamento, i al fine di raggiungere una motivazione più adeguata.

Ma la debolezza dell’argomentazione risiede pure nella mancata esposizione delle disponibilità di poteri impeditivi capaci di prospettarsi reale e concreto ostacolo alla compilazione di altrui bilanci, segnatamente quelli della capo-gruppo, con la precisazione che, per quanto si ritrae dalla sentenza della Corte milanese, se è provata una inconsueta disinvoltura nelle operazioni finanziarie di BIONLAT, non è, ancora, dimostrata la sostanziale infedeltà della relativa rappresentazione capziosa, tale da influire su quella delle altre società del gruppo.

Manca, dunque, una effettiva e completa disamina dei presupposti, desunti dall’art. 40 c.p., comma 2, per poter ascrivere la sicura partecipazione del prevenuto agli esiti delittuosi da altri commessi.

Anche per questa ragione la sentenza viene annullata sul punto, con rinvio per migliore esame e motivazione, ad altra sezione della Corte territoriale. p.11) Sull’addebito di concorso del T. nel reato dei revisori ex art. 2624 c.c..

Si tratta delle imputazioni ascritte ai capi c) e d) dell’epigrafe.

Quella riportata al capo d) relativa alle violazione riferibili a DELOITTE & TOUCHE (revisore principale, incaricata dal 1999 sino alla dichiarazione di insolvenza, della revisione del bilancio civilistico consolidato di PAR. FIN, Sent. Trib, pag. 54) e d) (fatti riferibili a GRANT THORNTON, responsabile della maggiore grossolanità dei falsi, cfr. Sent. Trib., pag. 53), ricondotte da Tribunale al periodo 2002/2003 (cfr. Sent. Trib., pag. 115).

Le modalità di artefazione dei revisori sono compiutamente descritte in Sent. Trib., pag. 54 e ss.).

La prova della consapevolezza delle falsità è accennata da Sent. Trib., pag. 76 e ss.

Le violazioni in esame avevano come referente normativo l’art. 2624 c.c., comma 2, che ha abrogato il “vecchio” art. 175 T.U.F., nel contesto di una convulsa successione di norme nel tempo.

Sono fattispecie delittuose, a soggettività “propria” (soggetto attivo è il “responsabile della revisione”), ricadenti nella previsione del 2 comma della citata norma, per l’indubbia ricorrenza del pregiudizio patrimoniale che da esse è scaturito.

L’esegesi del passaggio dall’art. 175 T.U.F. all’art. 2624 c.c., è svolta a pag. 166/117 della sentenza dei primi giudici, che analizza pure la disposizione di cui all’art. 174 bis portata dal c.d. “decreto sul risparmio” (1. n. 262/05). Successivamente questa norma è stata abrogata dal D.Lgs. 27 gennaio 2010, n. 39art. 37, comma 34, recante “Attuazione della direttiva 2006/43/CE, relativa alle revisioni legali dei conti annuali e dei conti consolidati, che modifica le direttive 78/660/CEE e 83/349/CEE, che abroga la direttiva 84/253/CEE“. Attualmente, quindi, il precetto introdotto in luogo dell’abrogata disposizione stabilisce che (comma 1) qualora i responsabili della revisione i quali, al fine di conseguire per sè o per altri un ingiusto profitto, nelle relazioni o in altre comunicazioni, con la consapevolezza della falsità e l’intenzione di ingannare i destinatari delle comunicazioni, attestano il falso od occultano informazioni concernenti la situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società, ente o soggetto sottoposto a revisione, in modo idoneo ad indurre in errore i destinatari delle comunicazioni sulla predetta situazione, sono puniti, se la condotta non ha loro cagionato un danno patrimoniale, con l’arresto fino a un anno, (comma 2). Se la condotta di cui al primo comma ha cagionato un danno patrimoniale ai destinatari delle comunicazioni, la pena è della reclusione da uno a quattro anni.

Tra il contenuto del vecchio testo e quello uscito della riforma non vi è differenza di rilievo (essa è, invece, percepibile in seno alla disciplina del D.Lgs. n. 231 del 2001 che si giovava di una elencazione formale delle norme costitutive dei “reati/presupposto”):

i primi due commi del nuovo precetto sono sostanzialmente sovrapponibili all’art. 2624 c.c..

Può conclusivamente rilevarsi la continuità dei testi normativi succedutisi nel tempo, con possibilità di applicazione retroattiva alla data dei fatti ed escludersi, nel presente contesto, quindi alcuna abolitio criminis.

Il primo e l’ottavo motivo di (omissis) ricalcano quanto già esposto in sede di appello e trascurano la sostanza della replica giudiziale, così esponendo al vizio di genericità.

Non può che confermarsi la correttezza dell’incolpazione, ai sensi dell’art. 110 c.p., in colui che ideò il sistema alterativo del’informazione, lo pose in essere e, dopo averlo sottoposto alla revisione, ne accettò l’esito che chiaramente conosceva infedele, come rettamente ribadito dalla sentenza impugnata (Sent. C. App., pag. 109).

In tema di concorso dell’extraneus nel reato proprio del revisore (tema attentamente analizzato da Sent. Trib., pag. 120 e ss., anche in relazione all’elemento soggettivo di ciascuno dei concorrenti), il giudice deve dare riscontro alla volontarietà della propria condotta di apporto a quella dell’intraneus, a cui è contestato l’asservimento della funzione certificativa alle istanze illecite dei preposti al gruppo oggetto di revisione.

In questa veste i certificatoli della DELOITTE & TOUCHE e della GRANT THORNTON furono esecutori materiali dell’illecito, suggerito dal (omissis) e da questi controllata, senza che rilevi la sua ignoranza sui necessari passaggi (compito del concorrente materiale, professionalmente competente al riguardo) per giungere al risultato prefisso, con la consapevolezza che essa consente di raggiungere il risultato proscritto (attestazione del dato societario infedele), oltre che con la dimostrazione di un contributo causale oggettivo al raggiungimento dello scopo perseguito.

In tal senso l’autonoma opera di compiacente verifica dei dati contabili svolta dal revisore istigato (Grand Thornton, revisore principale ed operativo sino al 1998 compreso – cfr. Sent. Trib., pag. 53 – e Deloitte & Touche, società succedutesi nel tempo) al mendacio non esclude in alcun modo la penale responsabilità del preposto alla società oggetto della revisione, interessato ad un esito indi infedele revisione: la decisione da atto, ancora, che ogni informazione ai revisori passava al controllo del (omissis) (Sent. C. App., pag. 109, che richiama le dichiarazioni (omissis) e (omissis)): osservazione che scredita di interesse le considerazioni (Motivi T., pag. 58/59) sull’apporto dell’imputato nel contesto concorsuale della realizzazione dell’illecito risultato finale.

Infatti, del tutto speciosa è, nel merito, la doglianza che lamenta l’assenza della prova del concorso del (omissis) nella violazione dell’art. 2624 c.c..

Non è dato, nelle sentenze del merito, scorgere una indebita confusione tra la condotta del revisore (ed assoggettata a proprie regole operative, diverse sicuramente da quelle del redattore della comunicazione sociale, anche per la difformità delle prescrizioni normative) e quella di chi è preposto alla società oggetto di revisione. Per quanto ragguardevole sia lo scarto tra dato vero e quello infedelmente verificato dal revisore, non può ragionevolmente assegnarsi a quest’ultimo soltanto l’intera ed esclusiva responsabilità del reato, sia perchè siffatto ragionamento urta con la fondamentale equiparazione di responsabilità imposta dall’art. 110 c.p., sia perchè il divario quantitativo tra vero e falso non attiene all’oggetto della incriminazione (caso mai alle circostanze aggravanti della stessa).

Certamente i revisori procedettero con autonomia al loro vaglio, rispetto alle comunicazioni di PAR. FIN, ma è innegabile il diretto apporto di distorsione informativa, sottesa dalla sistematica esposizione di dati infedeli alle società di revisione, era tale da condurre maliziosamente alla raffigurazione di una realtà finanziaria e patrimoniale ben lontana dalla realtà.

La concorrente negligenza ed imperizia delle società di revisione non esclude in alcun modo l’astuta rappresentazione ingannevole loro fornita dal gruppo parmense.

Ed, anzi, proprio in considerazione del vistoso divario dal vero, si imponeva più che necessaria l’intesa tra i soggetti interessati alla comunicazione sociale, onde evitare che, pur operando ciascuno nel proprio ambito istituzionale, si palesassero sviluppi contradditori, tali da insospettire l’organo di vigilanza ed il mercato.

Il motivo di (omissis) risulta, quindi, quando non versato in fatto (richiedendo una nuova lettura delle emergenze di causa), manifestamente infondato.

L’impugnata sentenza giustamente ricorda, infine, il rilievo essenziale nell’economia della frode reso dai revisori incriminati, mediante la certificazione dei bilanci del gruppo, viatico decisivamente rassicurante per l’investitore sul mercato della borsa.

Argomento maggiormente perspicuo nel contesto di una costante reiterazione (Sent. C. App., pag. 111) del messaggio ingannatorio agli enti di revisione, per la durata di dieci anni.

Effettivamente, proprio a ridosso degli scandali finanziari (tra cui quello di PARMALAT) che hanno travolto il mercato italiano è stata introdotta la legge a tutela del risparmio (L. 28 dicembre 2005, n. 262), che ha insistito per l’autonomia dell’ente revisore e, così, si è preclusa la possibilità che la società di revisione presti attività di consulenza fiscale, giuridica, finanziaria, e ò via dicendo, nei confronti di chicchessia. Ovviamente anche verso il gruppo cliente per la revisione. Su queste premesse il ricorso interposto dal (omissis) chiede anche l’annullamento della sentenza nella statuizione civile (cfr. Sent. pag. 174 e ss.) per l’illiceità della prestazione.

Ma l’istanza deve esse rigettata.

Innanzitutto, all’epoca in cui occorse il pregiudizio, la normativa non era ancora vigente.

Inoltre, occorre accertare se l’incarico di consulenza sia valutabile, nel suo concreto svolgimento, sia stato suscettibile di pregiudicare l’indipendenza della società di revisione (secondo i principi della Vili direttiva, n. 84/253/Cee del 10 aprile 1984, relativa all’abilitazione delle persone incaricate del controllo di legge dei documenti contabili). Scrutinio che in cospicua parte sottende la regolamentazione di CONSOB e che interessa un profilo di fatto, non consentito a questo giudice di legittimità. Di qui la correttezza di riservare al giudice civile l’accertamento al proposito.

Non convince davvero (Motivi T., pag. 60/61) l’equiparazione tra revisore (preposto al vaglio critico) con il destinatario della comunicazione sociale (legittimato a pretendere un dato veridico):

anche in tal senso l’invocato assorbimento con la condotta di falso in bilancio non risulta proponibile. p.12) Le statuizioni sanzionatorie.

Si richiama quanto indicato all’inizio circa la già maturata prescrizione di episodi costitutivi i reati continuati di aggiotaggio, di ostacolo alle funzioni di CONSOB, di violazione dell’art. 2624.

A causa dell’estinzione di alcuni episodi delittuosi occorre rideterminare la pena.

La difesa di (omissis) (nei cui confronti è stata confermata la pena inflitta in primo grado, cfr. Sent. C. App., pag. 114) insta per l’annullamento con rinvio per tutte le violazioni dovendosi vagliare l’entità della pena, così modificata. Ma è, al contrario, agevolmente possibile pervenire ad una corretta rideterminazione della sanzione anche direttamente in questa sede.

Siffatta rideterminazione è possibile poichè, valendosi dei medesimi criteri esposti dalla Corte milanese, è consentito seguire il percorso argomentativo dei giudici di merito, quale traccia per il computo, evitando – in tal modo – scelte di mera discrezionalità, non permesse al giudice di legittimità, operazione, peraltro, prevista dal nostro sistema processuale ai sensi ai sensi dell’art. 620 c.p.p., lett. 1).

L’area di estinzione (valutati i periodi di sospensione, che sono stati, invece, pretermessi dai “Motivi Nuovi” della difesa di T.) si estende sino al 18.6.2003 (compreso), venendo a fissarsi al 24 aprile 2011, cosicchè si riscontrano n. 5 episodi prescritti.

Mentre liberi dalla causa estintiva sono i fatti di aggiotaggio svoltisi dal 10.7.2003 (ricadenti dal 17 maggio 2011 in poi) e, dunque, n. 9 episodi. Nessun episodio di violazione dell’ari 2638 cod. civ. può ritenersi prescritto (il primo della serie datò del 10.7.2003).

Poichè (omissis) assunse la carica amministrativa in BONLAT il 6.5.2003 (Sent. C. App., pag. 141), la sua posizione non è influenzata dal fatto estintivo, maturato in epoca successiva alla assunzione dell’impegno gestorio. Tutte le condotte di violazione dell’art. 2624 c.c., sono relative all’anno 2002.

Considerato fatto più grave, per le ripercussioni sul mercato mobiliare ed il pregiudizio diffusamente arrecato agli investitori, quello che annovera i comunicati dell’ultimo periodo (10.12.2003, cfr. anche Sent. C. App., pag. 126, relativamente al computo per (omissis)), e ritenuta evidente la continuazione tra i vari fatti illeciti (come congruamente dimostrato in Sent. Trib., pag. 125), si perviene alla seguente statuizione:

Capo a) Aggiotaggio, reato ritenuto più grave, in ragione della maggior severità della pena edittale prevista dall’art. 2637 c.c., pena base fissata in quattro anni di reclusione, a cui si è aggiunto un ulteriore anno in relazione all’aggravante di cui all’art. 112 c.p., n. 2 (sì da pervenire a cinque anni di reclusione, ulteriormente inasprita perla ricorrenza dell’aggravante di cui all’art. 61 c.p., n. 11, con fissazione della sanzione in 5 anni ed 11 mesi di reclusione.

A questa soglia punitiva occorre aggiungere la continuazione ex art. 81 cpv. c.p..

Sono stati enucleati 14 fatti illeciti (Sent. Trib., pag. 110). Di questi cinque episodi sono prescritti.

Sono, pertanto, rilevanti per il computo qui dedotto (oltre quello dianzi considerato per la pena/base) n. 8 ulteriori reati. Per essi l’incremento è stato fissato in misura di un mese ciascuno.

Pertanto, alla pena dianzi stabilita (anni 5 e mesi 11) occorre aggiungere ancora 8 mesi di reclusione, pervenendo in tal modo alla sanzione complessiva di 6 anni e7 mesi.

In relazione al capo b) (ostacolo alla vigilanza di CONSOB), attinente a fatti per cui non è intervenuta prescrizione alcuna, si recepisce la misura stabilita dai primi giudici, vale a dire 1 anno di reclusione, pervenendo alla soglia complessiva di 7 anni e 7 mesi di reclusione.

Per quanto riguarda i capi c) e d), tra loro, avvinti da continuazione, si evidenzia l’estinzione per gli illeciti compresi nell’anno 2002, mentre residuano quelli commessi nel 2003 eccetto i fatti siano al giugno dello stesso anno.

La pena viene stabilita in ulteriori complessivi sei mesi di reclusione.

Onde il dato sanzionatorio finale ammonta ad otto anni ed un mese di reclusione.

Per (omissis) la Corte d’Appello, definendolo – come sopra rammentato – il fatto più grave della serie continuativa, ha fissato l’illecito ascrivibile all’imputato in un anno mesi due e giorni quindici di reclusione: tale è la sanzione che discende dall’attuale provvedimento, che ritiene addebitarle al (omissis) questo solo episodio avendo esclusa la sua responsabilità per gli ulteriori fatti ascrittigli in via continuativa.

Lineare ed aderente agli esiti istruttori è la negazione del riconoscimento delle attenuanti generiche relativamente alla posizione di (omissis), così come quella del danno di lieve entità, in considerazione dei risultati disastrasi per il mercato borsistico che si fidò del prevenuto e delle sue comunicazioni e la fissazione della pena/base, giudizio sorretto da motivazione ragionevole valutata l’eccezionalità del portato illecito ascrivibile all’imputato.

Infondata, ancora, è le doglianza, portata dal medesimo ricorso di (omissis) (motivo 8^), relativa all’asserita assenza di giustificazione motivazionale nel rigetto del giudizio di prevalenza delle attenuanti sulle aggravanti contestate.

L’argomentazione giudiziale sul punto (Sent. C. App., pag. 113) richiama il ruolo svolto dall’imputato giovevole alla commissione di fatti di rilevantissima gravità e foriero di illeciti profitti per sè. Essa esclude, ancora, con aderenza al dato normativo, l’automatico riconoscimento delle attenuanti, in considerazione dell’incensuratezza (pag. 112).

Anche a prescindere dalla novella legislativa sul punto, non suscettibile di applicazione trattandosi di reformatio in malam partem, la motivazione è idonea a svelare il percorso seguito dai giudici del merito nella determinazione della sanzione ed a palesare il motivo per cui non sia stato ritenuto meritevole di un trattamento sanzionatorio più mite. p.12) Le statuizioni civili.

Vi è, da parte di (omissis) (ma sul punto si riscontra anche la doglianza – 2 motivo – portata dal ricorso delle parti civili (omissis) + 16) censura relativa alle statuizioni civili disposte dai giudici del merito, a ristoro (solidalmente con (omissis) e (omissis)) del danno cagionato all’Ente di vigilanza con la condotta di ostacolo alle sue funzioni. In particolare egli lamenta l’assenza di fondamento nella condanna al risarcimento per il “danno da immagine”, atteso che – se CONSOB si fosse mossa con la dovuta diligenza – avrebbe evitato lei medesima il pregiudizio di cui si tratta.

Dal che si diparte anche la domanda del riconoscimento di concorso di colpa ai sensi dell’art. 1227 c.c..

La censura relativa alla motivazione sulle statuizioni civili (9^ Motivo) non può esser accolta.

A ragione la Corte milanese (Sent. pag. 184) ha affermato che nel contesto dell’evento dissesto e, dunque, nel deprezzamento radicale del titolo che è stato comprato o che non è stato venduto, il nesso di causalità non può esser annullato dall’ accertata influenza che, successivamente alla condotta ingannevole degli esponenti di PARMALAT hanno assunto eventuali professionisti finanziari (operatori bancari, agenti di cambio, ecc.) attesa la regola dettata dall’art. 40 c.p. sulla continuità del legame eziologico, salvo ipotesi eccezionali, che qui non è dato scorgere.

Allo stesso modo è evidente che l’informazione mendace ha contribuito, al di là di ogni specifica verifica, al negozio di Borsa e, quindi, al pregiudizio dell’investitore.

La dinamica dell’incidenza del comportamento penalmente rilevante è stata assegnata dalla Corte d’Appello milanese al giudice civile ed in tal sede potrà avvenire ogni più specifico scrutinio della porzione di efficienza dell’azione illecita sul danno lamentato dalla parte civile. Mentre per la doglianza che interessa la provvisionale concessa si rammenta che la statuizione non è impugnabile per cassazione, in quanto per sua natura insuscettibile di passare in giudicato e destinato ad essere travolto dall’effettiva liquidazione dell’integrale risarcimento.

L’ultimo motivo del (omissis) lamenta la condanna al risarcimento dei danni a favore di CONSOB, sottolineando che se seppure l’Ente istituzionalmente preposto alla vigilanza sulle società quotate non era riuscito a prevenire l’illecito, siffatta prestazione non poteva addebitarsi a (omissis) che disponeva di poteri assai meno penetranti di CONSOB. L’argomentazione, certamente suggestiva, scontra – però – con l’accertata inesistenza della condanna degli imputati al risarcimento dei danni, patrimoniali e no, a favore di CONSOB, sicchè la doglianza risulta inammissibile perchè priva di interesse.

Non ci si sofferma sulle doglianze afferenti alla denegata eloquenza dei segnali sottesi all’emissione di obbligazioni per un miliardo di Euro, di private placements per 14 miliardi di yen, notizie sicuramente price sensitive, dati ignorati dal bilancio consolidato al 31.12.2001 pur approvato dal Consiglio di amministrazione di cui faceva parte l’imputato, quale premessa delle infedeltà delle comunicazioni al mercato ed a CONSOB, il silenzio su ulteriori manovre finanziarie di rilievo, anche per la loro particolarità, così l’omesso – pur obbligatorio – cenno ai rapporti don SATA nella relazione che accompagnava il consolidato (cfr. Sent. C. App., pag. 117, 123 e ss.), per la sua presenza al consiglio di amministrazione che approvò il bilancio dell’esercizio 2001 (e le successive informazioni al mercato, del 15.5.2001) nonchè al Comitato di Controllo interno a cui giunse la relazione relativa all’operazione che fa esplicita menzione di queste operazioni, di cui il bilancio consolidato non esprime menzione.

Del pari, i rapporti con parti correlate, contrassegnati da consistenti flussi finanziari coinvolgenti l’istituto di credito di cui il ricorrente era Presidente. La motivazione della sentenza impugnata si articola su rilievi di fatto e sviluppa l’argomentazione con logica, anche nella parte che rettifica l’opinione dei primi giudici sulla portata decettiva di tutti i comunicati, ivi compreso quello del 10.12.2003 (Sent. C. App., pag. 122).

Ogni più approfondita disamina su queste vicenda si traduce, in realta, su una nuova valutazione del fatto, analisi inibita al giudice di legittimità.

Il ricorso dell’avv. (omissis) si duole (11 motivo) del modesto riconoscimento della provvisionale, in seno alla condanna del danno risarcibile (il cui an è stato riconosciuto dal giudice d’appello).

Ma è affermazione di questa Corte che il provvedimento con il quale il giudice di merito, nel pronunciare condanna generica al risarcimento del danno, assegna alla parte civile una somma da imputarsi nella liquidazione definitiva, non è impugnabile per cassazione, in quanto per sua natura insuscettibile di passare in giudicato e destinato ad essere travolto dall’effettiva liquidazione dell’integrale risarcimento. La questione viene devoluta al ed. “definitivo” (cfr. Cass. Sez. 5, 17 gennaio 2007, Mearini ed altri, CED Cass. 236068).

Sulla doglianza che reclama l’indebito riconoscimento del diritto al risarcimento del danno di VIA ADVISOR, società di consulenza, a cui fu revocato il diritto all’uso della denominazione GRANT THORNTON, da parte della casa madre di revisione, non essendo consentito ad una controllata della società di revisione fornire attività di consulenza, attesa la disposizione dell’attuale D.Lgs. n. 160, art. 160, (come modificato dalla L. n. 262 del 2005, art. 159), con conseguente annullamento della statuizione civile, la Corte osserva che l’irregolare condotta di revisione, non esclude la responsabilità civilistica.

La Sentenza impugnata annota (Sent. C. App., pag. 176) che la sanzione dipese anche dal comportamento illecito (“a seguito degli addebiti nei confronti della società di revisione GRANT THORNTON & PARTNERS Spa…”). Corretto, quindi, è stata la individuazione della causale, non potendo ulteriormente scendere nel vaglio della responsabilità civilistica, poichè l’indagine si traduce in un esame sul fatto e sulla discrezionale valutazione del grado di influenza dell’addebito rispetto alla responsabilità discendente da reato.

P.Q.M.

La Corte annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di (omissis) limitatamente ai reati di cui al capo A), per gli episodi sino al 18 giugno 2003 compreso, perchè estinti per prescrizione; rigetta nel resto il ricorso di (omissis) e ridetermina la pena per i residui reati in anni otto e mesi uno di reclusione;

annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di (omissis) limitatamente a reati di cui al capo A) sino all’episodio dell’8 dicembre 2003 compreso, ed ai capi B), C), D) per non avere commesso il fatto; rigetta nel resto il ricorso di (omissis) e ridetermina la pena, quanto all’episodio del 10 dicembre 2003 del capo A) in un anno e due mesi e giorni quindici di reclusione; concede a (omissis) il beneficio di cui all’art. 163 c.p.; annulla la sentenza impugnata nei confronti di (omissis) con rinvio per nuovo esame ad altra Sezione della Corte di Appello di Milano; dichiara inammissibili i ricorsi delle parti civili (omissis) +16 che condanna ciascuna al pagamento delle spese processuali; rigetta i ricorsi di (omissis) e di BANK OF AMERICA che condanna ciascuno al pagamento delle spese del procedimento; condanna (omissis) e (omissis) in solido alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalle parti civili, liquidate per onorari:

– in Euro 5.000,00 a favore di (omissis) + 32.000, rappresentate dall’avv. (omissis);

– in Euro 3.000,00 a favore di CONSOBM;

– in Euro 3.000,00 a favore di Camera di Commercio Industria ed Artigianato di Milano;

– in Euro 3.000,00 a favore di (omissis) ed altri, rappresentati dall’avv. (omissis);

– in Euro 2.500,00 a favore di rispettivamente di (omissis) e (omissis);

– in Euro 1.500,00 a favore rispettivamente di (omissis) e (omissis);

– in Euro 1.500,00 a favore rispettivamente di (omissis) e (omissis);

– in Euro 3.000,00 a favore di American Family Life ed Euro 3.000,00 a favore di Farmland Dairies L.L.C.;

oltre accessori come per legge.

Così deciso in Roma, il 4 maggio 2011.

Depositato in Cancelleria il 20 luglio 2011

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