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Cassazione penale sez. V, 16/05/2018, n. 40153

Massima

Si configura il delitto di atti persecutori nella ipotesi in cui, pur essendosi la condotta persecutoria instaurata in epoca antecedente, si accerti, anche dopo l’entrata in vigore del D.L. 23 febbraio 2009, n. 11, convertito con L. 23 aprile 2009, n. 38, la reiterazione di atti di aggressione e di molestia idonei a creare nella vittima lo status di persona lesa nella libertà morale in quanto condizionata da costante stato di ansia e di paura.

Supporto alla lettura

ATTI PERSECUTORI

Il reato di atti persecutori (c.d. stalking) si sostanzia in condotte reiterate che ingenerano un fondato timore da parte della vittima di un male più grave, pure senza arrivare ad integrare il reato di lesioni o maltrattamenti. Introdotto dal D.L. 11/2009, convertito in L. 38/2009, con l’inserimento dell’art. 612 bis c.p., non tutela soltanto il soggetto che ne è stato vittima in prima persona, ma anche le persone legate a quest’ultimo da vincoli di parentela o relazioni affettive.

Atti persecutori possono essere per esempio:

  • il danneggiamento della propria auto;
  • le aggressioni verbali in presenza di testimoni;
  • l’invio di baci o sguardi insistenti, non desiderati e minacciosi;
  • lo stalking telefonico;
  • la pubblicazione di post o video a contenuto sessuale, minaccioso o ingiurioso su un social network;
  • lo stalking su whatsapp o quello sul lavoro;

Nel momento in cui si verifica un reato di atti persecutori, il giudice ha la possibilità di applicare alcune misure coercitive, come per esempio il divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, o dai parenti congiunti o legati a lei da relazioni affettive. In aggiunta la persona offesa prima di fare querela per atti persecutori, potrà scegliere di procedere con l’ammonimento al questore.

Il reato in esame rientra nelle previsioni del Codice Rosso. Fondamentale punto di riferimento è la legge 19 luglio 2019, n. 69 – in vigore dal 9 agosto 2019 – recante, tra gli altri, interventi sul codice di procedura penale accomunati dall’esigenza di evitare che eventuali stasi, nell’acquisizione e nell’iscrizione delle notizie di reato o nello svolgimento delle indagini preliminari, possano pregiudicare la tempestività di interventi, cautelari o di prevenzione, a tutela della vittima dei reati di maltrattamenti, violenza sessuale, atti persecutori e di lesioni aggravate in quanto commesse in contesti familiari o nell’ambito di relazioni di convivenza. Tra le principali innovazioni apportate vi è l’accelerazione dei tempi processuali, al fine di garantire risposte più rapide e incisive da parte della giustizia. Inoltre, sono state introdotte pene più severe per gli autori di questi reati, nell’ottica di deterrenza e punizione proporzionata. Il “Codice Rosso” presenta una serie di “nuovi” reati volti a contrastare specifiche forme di violenza e aggressione, ampliando così gli strumenti legali per la tutela delle vittime. Ecco i principali reati contemplati:

  • ​Diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti (Revenge Porn) – Articolo 612-ter del Codice Penale;
  • Deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso – Articolo 583 quinquies del Codice Penale;
  • Costrizione o induzione al matrimonio – Articolo 558 bis del Codice Penale;
  • Violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa – Articolo 387 bis del Codice Penale.

 

Il Codice Rosso Rafforzato, in vigore dal 30 settembre 2023, mira a potenziare la risposta giudiziaria contro la violenza domestica e di genere, accelerando indagini e introducendo nuove misure cautelari.  Questo codice introduce due modifiche alla legge del 2019 relative alle misure contro la violenza domestica e di genere. La prima modifica riguarda il ruolo del pubblico ministero assegnato a un caso di violenza domestica e di genere. In base al nuovo provvedimento, il pubblico ministero deve ascoltare la persona che ha denunciato i fatti entro tre giorni dalla ricezione del caso. Se non lo fa, il suo procuratore ha il potere di togliergli il caso e assegnarlo a un altro pubblico ministero.

L’obiettivo dichiarato di questa misura è quello di velocizzare le indagini e rendere più stretti i termini di operatività del Codice Rosso, presumibilmente per garantire una risposta più rapida e efficace ai casi di violenza domestica e di genere.

Ambito oggettivo di applicazione

1. Con la sentenza impugnata, la Corte d’appello di Napoli ha confermato la decisione del Gup del tribunale in sede del 20 gennaio 2016 che ha affermato la responsabilità penale di P.G. in ordine ai delitti di violenza privata, lesioni aggravate ed atti persecutori in danno di Q.R., oltre statuizioni accessorie.

2. Avverso la sentenza della Corte d’appello di Napoli ha proposto ricorso l’imputato, per mezzo del difensore, articolando plurime censure.

2.1 Con il primo motivo, deduce violazione della legge penale in riferimento alla sussistenza della fattispecie di cui all’art. 612 bis cod. pen., in difetto degli elementi costitutivi della condotta, per avere il giudice di merito ritenuto integranti plurimi atti persecutori fatti oggetto di accertamento in diversi procedimenti penali o già accertati con sentenza, potendo rilevare solo i segmenti della condotta, temporalmente collocati in epoca successiva al 2014, per i quali il pubblico ministero non avesse esercitato l’azione penale.

Con la conseguenza per cui, circoscritta in tal guisa la contestazione, i residui fatti procedibili – minacce e lesioni contestati ai punti 5) e 6) della contestazione sub a) – non integrano la condotta abituale di cui all’art. 612 bis cod. pen., come escluso nella sentenza di primo grado.

2.2. Con il secondo motivo, censura violazione di legge processuale in riferimento al principio del ne bis in idem, per essere oggetto di separato accertamento processuale il fatto – qualificato ai sensi dell’art. 660 cod. pen. contestato sub c), con conseguente preclusione processuale ex art. 649 cod. proc. pen., come interpretato dalla giurisprudenza di legittimità.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è fondato.

2. Assume rilievo assorbente e decisivo la questione posta nel secondo motivo di ricorso e, in parte, nel primo in riferimento all’incidenza del principio del ne bis in idem sulla complessiva valutazione dei fatti oggetto di imputazione, che avvince plurimi episodi, consumati in un considerevole lasso temporale, e dei quali la difesa ha parzialmente dedotto l’improcedibilità per essere stati oggetti di separate vicende processuali.

2.1. Il thema involge l’applicazione del principio enunciato dalle Sezioni unite, nella sentenza n. 34655 del 28 giugno 2005, Donati, Rv. 231800, secondo cui non può esser nuovamente promossa l’azione penale per un fatto e contro una persona per i quali un processo già sia pendente, anche se in fase o grado diversi, nella stessa sede giudiziaria e su iniziativa del medesimo ufficio del pubblico ministero, di talchè nel procedimento eventualmente duplicato deve essere disposta l’archiviazione oppure, se l’azione sia stata esercitata, deve essere rilevata con sentenza la relativa causa di improcedibilità.

Siffatta ampia interpretazione del principio del ne bis in idem, ormai consolidata nella giurisprudenza di legittimità, rende evidente che se un fatto (eventualmente insieme ad altri) ha costituito materia di esercizio della azione penale nell’ambito di un procedimento, il medesimo ufficio del pubblico ministero non può, nella medesima sede giudiziaria, procedere nuovamente per la stessa fattispecie, anche diversamente qualificata, iscrivendo un nuovo procedimento contro il medesimo soggetto.

2.2. Il principio enunciato, appare, invero – in parte – correttamente applicato dal pubblico ministero anche nel presente procedimento, come si desume dal fatto che i fatti contestati sub a) risalgono al 2011, mentre il capo di imputazione indica una condotta perdurante dal 2013, con evidente esclusione delle aggressioni e delle lesioni enunciate nei primi tre punti della rubrica.

La difesa ha, tuttavia, dedotto tanto nel giudizio di primo grado che in appello, come anche per ulteriori episodi, pure oggetto di contestazione, si fosse proceduto separatamente ad iniziativa del medesimo ufficio del pubblico ministero, documentando come le condotte descritte ai punti 1) e 3) del capo a) ed i fatti sub c) fossero oggetto del procedimento RGNR 15176/10, pendente in fase dibattimentale, mentre i fatti delineati al punto 2) del medesimo capo a) fossero oggetto del procedimento RGNR 107009/11, definito con sentenza.

Donde la necessità di verificare la sovrapponibilità dei fatti oggetto dei diversi procedimenti penali, in quanto l’operatività del principio del ne bis in idem preclude di valutare, come fatto integrante il reato oggetto del giudizio, anche condotte già devolute alla cognizione di altro giudice.

Preclusione che, nel caso in esame, dispiega effetti non solo sulla procedibilità del reato sub C), ma anche in punto di ricostruzione dei segmenti fattuali che declinano l’elemento materiale del delitto di cui all’art. 612 bis cod. pen., contestato al capo A).

3. L’operatività del principio del ne bis in idem fa sì che “i fatti che non possono essere contestati…non possono neppure essere valorizzati come elemento integrante la nuova condotta. Possono essere, soltanto, valutati come antecedente storico-giuridico, come accade quando si valorizza un reato definitivamente accertato, secondo il disposto e con le modalità dell’art. 238 bis cod. proc. pen.” (Sez. 5, sentenza n. 48391 del 24/09/2014, Rv. 261024).

Nella delineata prospettiva, la giurisprudenza di legittimità ha enunciato il principio per cui anche fatti di molestie o minacce antecedenti alla data di entrata in vigore della L. n. 38 del 2009, che ha introdotto il reato di atti persecutori, pur non essendo addebitabili a tale titolo di reato, possono tuttavia dispiegare valenza dimostrativa ai fini della lettura e interpretazione soprattutto della gravità – nell’ottica della prova dell’evento – di altri fatti di molestia o minacce ricadenti nell’alveo applicativo della norma incriminatrice sopravvenuta, autonomamente suscettibili, per la loro reiterazione, di integrare il reato in parola (v. Sez. 5, sentenza n. 10388 del 06/11/2012, Rv. 255330).

Di guisa che si configura il delitto di atti persecutori nella ipotesi in cui, pur essendosi la condotta persecutoria instaurata in epoca antecedente, si accerti, anche dopo l’entrata in vigore del D.L. 23 febbraio 2009, n. 11, convertito con L. 23 aprile 2009, n. 38, la reiterazione di atti di aggressione e di molestia idonei a creare nella vittima lo status di persona lesa nella libertà morale in quanto condizionata da costante stato di ansia e di paura.

3.1. Al di fuori della – limitata – attitudine dimostrativa dell’evento del reato, singoli fatti, caratterizzati da autonomo disvalore penale ed oggetto di accertamento in diversa sede processuale, non possono essere contestati nè valutati sotto il versante della condotta tipica del reato di atti persecutori, in conseguenza della consunzione dell’azione penale già esercitata dal pubblico ministero in diverso procedimento penale, pendente in qualunque stato e grado o definito.

A tal fine, la identificazione delle coordinate ontologiche della condotta e la verifica del rapporto di interferenza tra le contestazioni involge questioni di fatto, assegnate all’apprezzamento del giudice del merito che, ove rilevata l’identità del fatto, deve pronunciare declaratoria di improcedibilità per divieto di un secondo giudizio ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen..

3.2. La consumazione dell’azione penale in relazione ai segmenti fattuali dell’imputazione in applicazione del principio del ne bis in idem e la conseguente preclusione processuale derivante dall’improcedibilità impone la verifica della – residua – sussistenza del minimum necessario, sotto il profilo della condotta, ai fini dell’integrazione del reato.

Ed invero il delitto di atti persecutori, quale reato abituale improprio a reiterazione necessaria delle condotte, si caratterizza in quanto l’evento nella triplice declinazione alternativa prevista dalla norma incriminatrice deve essere il risultato della condotta persecutoria nel suo complesso, nel cui ambito la reiterazione degli atti considerati tipici costituisce elemento unificante ed essenziale della fattispecie, facendo assumere a tali atti un’autonoma ed unitaria offensività, in quanto è proprio dalla loro reiterazione che deriva nella vittima un progressivo accumulo di disagio che, infine, degenera in uno stato di prostrazione psicologica in grado di manifestarsi in una delle forme descritte dalla norma incriminatrice (Sez. 5, Sentenza n. 54920 del 08/06/2016 Ud. (dep. 27/12/2016) Rv. 269081 N. 51718 del 2014 Rv. 262636).

Di guisa che integrano il delitto di atti persecutori di cui all’art. 612 bis cod. pen. almeno due condotte di minaccia o di molestia, come tali idonee a costituire la reiterazione richiesta dalla norma incriminatrice (Sez. 5, Sentenza n. 46331 del 05/06/2013 Ud. (dep. 20/11/2013) Rv. 257560; N. 6417 del 2010 Rv. 245881). Infatti, un solo episodio, per quanto grave e da solo anche idoneo, in astratto, a determinare il grave e persistente stato d’ansia e di paura che è indicato come evento naturalistico del reato in disamina, non è sufficiente a determinare la lesione del bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice, potendolo essere, invece, alla stregua di precetti diversi: e ciò in aderenza alla volontà del legislatore il quale, infatti, non ha lasciato spazio alla configurazione di una fattispecie solo eventualmente abituale.

4. La corte territoriale non ha fatto corretta applicazione degli enunciati principi, adottando una errata interpretazione della latitudine applicativa dell’art. 649 cod. proc. pen. ed omettendo di verificare analiticamente i singoli fatti per i quali l’azione penale era stata già esercitata, in relazione ai quali deve essere pronunciata – ove rilevata l’identità rispetto ai fatti contestati nel presente procedimento ai capi A) e C) – declaratoria di improcedibilità.

5. La sentenza impugnata deve essere, pertanto, annullata con rinvio affinchè il giudice, in applicazione dei principi enunciati e nei limiti declinati ai sensi dell’art. 624 cod. proc. pen., proceda a nuovo esame rideterminando, se del caso, anche il trattamento sanzionatorio in relazione alla contestazione sub B).

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Napoli, limitatamente ai capi a) e c) per nuovo esame e per eventuale rideterminazione del trattamento sanzionatorio anche in relazione al capo b).

In caso di diffusione del presente provvedimento omettere la generalità e gli altri identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto disposto d’ufficio.

Così deciso in Roma, il 16 maggio 2018.

Depositato in Cancelleria il 7 settembre 2018

Allegati

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