Secondo la ipotesi accusatoria, la diffamazione era stata commessa mediante la pubblicazione, sui numeri de “(omissis)” del (omissis), di due articoli di stampa contenenti affermazioni lesive della reputazione dell’avv. (omissis), Presidente del Consiglio direttivo della Fondazione antiusura “(omissis)”. Era stata cioè divulgata la notizia che dai bilanci della fondazione sarebbero emersi degli ammanchi di denaro che, si prospettava, sarebbe finito nelle casse della organizzazione che gestiva l’Istituto (omissis), a sua volta al centro di indagini della magistratura riguardanti soprattutto la persona che dirigeva tale Istituto.
Si sottolineava anche che il Vescovo aveva chiesto spiegazioni le quali sembravano non essere mai pervenute dai vertici della fondazione.
Il Gup aveva prosciolto sotto il duplice profilo che la descrizione dei fatti contenuta negli articoli non era risultata lesiva della reputazione della fondazione (omissis) e della figura del suo presidente (omissis), essendo incentrata piuttosto su tale (omissis), al centro delle indagini della magistratura riguardanti l’istituto (omissis).
In secondo luogo il giudice aveva ritenuto comunque che la notizia fosse quella dei possibili sviluppi della indagine in corso, tanto era vero che era stata data con l’uso del verbo al condizionale. Si trattava quindi di notizia se non di fatto vero, quantomeno verosimile.
Deduce il Procuratore Generale – la violazione di legge (art. 595 c.p.) e il vizio di motivazione.
Ad avviso del ricorrente il giudice non aveva fatto uso corretto dei parametri fissati in tema di scriminante del diritto di cronaca. In particolare non risultavano indicate le fonti dalle quali il giornalista avrebbe appreso le notizie propalate, di cui mancava, infatti, qualsiasi riscontro oggettivo. In altri termini difettava il requisito della verità della notizia, che nella specie era quella della possibile implicazione dell’Istituto diretto dal (omissis) negli ammanchi illegittimi.
Il ricorso è fondato.
In primo luogo la giurisprudenza di questa Corte ha affermato più volte che l’intento diffamatorio può essere raggiunto anche con mezzi indiretti e mediante allusioni o espressioni che risultino insinuanti o si limitino ad adombrare il dubbio.
Qualunque sia la forma grammaticale o sintattica delle frasi o delle locuzioni adoperate, ciò che conta è la loro capacità di ledere o mettere in pericolo l’altrui reputazione, e il reato si realizza anche quando il contesto della pubblicazione determini il mutamento del significato apparente di una o più’ frasi, altrimenti non diffamatorie, dando loro un contenuto allusivo, percepibile dal lettore medio (rv 214234).
Il Giudice della udienza preliminare non ha fatto buon governo di tale principio avendo arrestato la propria analisi al fatto che l’articolo aveva preso le mosse dalla inchiesta giudiziaria riguardante tale (omissis), indagato dalla Procura di Paola, senza analizzare quale effetto avrebbe potuto avere sul lettore medio l’accostamento della notizia di tale indagine a quella della ulteriore affermazione riguardante l’ammanco riferito alle casse della fondazione diretta dal querelante: accostamento “vestito” col riferimento al flusso di denaro che dalla fondazione sarebbe finito nelle casse dell’Istituto diretto dal (omissis).
Ed anzi, la mera negatoria, contenuta nella sentenza impugnata, di qualsiasi effetto offensivo derivante dall’accostamento, da luogo ad una radicale aporia della motivazione che necessita di una adeguata rivisitazione, sia pure essendo libero il giudice di pervenire ad una decisione liberatoria, sia pur senza ripetere il percorso argomentativo qui censurato.
Quale che possa essere la decisione sul punto della esistenza di una condotta lesiva della altrui reputazione, occorre poi qui affrontare anche il secondo punto della doglianza del ricorrente, riguardante, ai fini della eventuale applicazione della scriminante del diritto di cronaca ad un fatto ritenuto di rilevanza penale, il requisito della “verità della notizia”.
Il giudice anche sul punto ha reso una motivazione in violazione dei principi interpretativi dell’art. 595 c.p., divenuti diritto vivente per effetto della assoluta costanza della interpretazione giurisprudenziale della Cassazione.
Si è ripetutamente osservato che ai fini della configurabilità dell’esimente di cui all’art. 51 c.p., per il reato di diffamazione a mezzo stampa, l’esercizio del diritto di cronaca e di critica, per avere efficacia scriminante, postula, oltre all’interesse per la opinione pubblica e alla correttezza dell’esposizione, anche la corrispondenza rigorosa tra i fatti accaduti e i fatti narrati, secondo il principio della verità, principio comportante l’obbligo del giornalista di accertare la verità della notizia e il rigoroso controllo della attendibilità della fonte (rv 216120).
E, nello stesso senso, si è pure sottolineato che ai fini della configurabilità dell’esimente del diritto di cronaca, anche sotto l’aspetto putativo o dell’eccesso colposo, in relazione al reato di diffamazione a mezzo stampa, la necessaria correlazione fra quanto è stato narrato e ciò che è realmente accaduto importa l’inderogabile necessità di un “assoluto” rispetto del limite interno della verità oggettiva di quanto riferito, nonchè lo stretto obbligo di rappresentare gli avvenimenti quali sono, risultando inaccettabili i valori sostitutivi di esso, quali quello della veridicità o della verosimiglianza dei fatti narrati; nè il giornalista può appagarsi di notizie rese pubbliche da altre fonti informative (altri giornali, agenzie e simili) senza esplicare alcun controllo, perchè in tal modo le diverse fonti propalatrici delle notizie – attribuendosi reciproca credibilità – finirebbero per rinvenire l’attendibilità in se stesse (rv 208085; rv 231687).
Alla luce di tali principi è dunque da censurare la affermazione contenuta nella sentenza impugnata sulla sufficienza del rispetto del canone della mera “verosimiglianza” della notizia, essendo necessaria, come detto, la dimostrazione della sua verità.
Nella specie, se è vero che la notizia è stata data con l’uso dei verbi al condizionale, può convenirsi col giudice a quo nel ritenere che l’effetto della propalazione della informazione potrebbe essere stato quello di rendere noto non il fatto dell’ammanco doloso dalle casse della Fondazione quanto la esistenza di indagini su un fatto del genere.
Ed in tal senso la notizia potrebbe definirsi vera.
Tuttavia è compito del giudice, in una ipotesi come quella formulata, motivare sulla esistenza di una fonte attendibile alla quale il giornalista abbia fatto riferimento.
La cronaca giudiziaria è infatti lecita quando diffonda la notizia di un provvedimento giudiziario, mentre non lo è quando le informazioni da esso desumibili siano utilizzate per effettuare ricostruzioni o ipotesi giornalistiche autonomamente offensive, giacchè, in tal caso, il giornalista deve assumersi direttamente l’onere di verificare le notizie e non può certo esibire il provvedimento giudiziario quale unica fonte di informazione e di legittimazione dei fatti riferiti(rv 232134).
In alternativa, poichè non può ritenersi di per sè attendibile una mera confidenza, il cronista, che raccolga, al di fuori delle comunicazioni ufficiali fornite nel corso di una conferenza stampa, ulteriori notizie relative ad attività di indagine, deve assumersi l’onere di verificarle direttamente e di dimostrarne la pubblica rilevanza (rv 220258).
L’erronea convinzione circa la rispondenza al vero del fatto riferito non può mai comportare l’applicazione della scriminante del diritto di cronaca (sotto il profilo putativo) quando l’autore dello scritto diffamante non abbia proceduto a verifica, compulsando la fonte originaria; ne consegue che, nella ipotesi in cui una simile verifica sia impossibile (anche nel caso in cui la notizia possa esser ritenuta “verosimile” in relazione alle qualità personali dell’informatore), il giornalista che intenda comunque pubblicarla accetta il rischio che essa non corrisponda a verità (rv 219638).
Uniformandosi a tali principi, il giudizio di merito dovrà quindi essere ripetuto in sede di rinvio.
Depositato in Cancelleria il 30 settembre 2008
