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Cassazione penale sez. V, 10/04/2025, n. 14196

Massima

In tema di diffamazione a mezzo stampa (nella specie, su testata web), l’esercizio del diritto di cronaca giudiziaria, pur garantito dall’art. 21 Cost., trova un preciso limite nel rispetto della reputazione altrui e può operare quale causa di giustificazione solo se sono rispettate le condizioni di verità della notizia pubblicata, interesse pubblico alla conoscenza dei fatti e obiettività e continenza dell’informazione.

Supporto alla lettura

DIFFAMAZIONE

Rispetto all’ingiuria ex art. 594 c.p., l’art.595 c.p. consiste nell’offesa all’altrui reputazione fatta comunicando con più persone, con il mezzo della stampa o tramite i social network a causa della loro capacità di raggiungere un numero indeterminato o apprezzabile di persone; persegue la condotta dell’offendere rivolta verso persone non presenti, ovvero non solo assenti fisicamente, ma anche non in grado di percepire l’offesa (la c.d. maldicenza in assenza dell’interessato).

La nuova costituzione italiana (art. 21) ha esteso la garanzia costituzionale a tutte indistintamente le manifestazioni del pensiero. Alla costituzione ha fatto seguito la legge 8 febbraio 1948, n. 47, che, pur avendo carattere provvisorio, tuttavia regola per la prima volta compiutamente la materia della stampa. Mentre la CEDU si è espressa più volte sul tema sostenendo che quando la diffamazione si realizza a mezzo social network, ad essere violato è l’art. 8 della CEDU, che tutela la vita privata del singolo in cui deve intendersi ricompreso anche il diritto alla reputazione.

Ambito oggettivo di applicazione

Svolgimento del processo

1. (omissis) ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte d’Appello di Reggio Calabria, che ha confermato quella di primo grado, dichiarativa della sua responsabilità penale e civile per il delitto di cui all’art. 595 commi 2 e 3 cod. pen., commesso in qualità di autore di un articolo di giornale sulla testata web di (omissis) Canale (omissis), il (omissis), in danno di (omissis), appuntato della Guardia di Finanza, tacciato nella circostanza come “in combutta coi Narcos” nel contesto di una informazione sull’esecuzione di numerose misure cautelari nell’ambito di un procedimento penale, attinente ad un caso di narcotraffico, di competenza della Procura della Repubblica di Reggio Calabria.

2. L’atto di impugnazione, a firma di un difensore abilitato, consta di 4 motivi, tutti fondati sugli assunti vizi di cui all’art. 606 comma 1 lett. b) ed e) cod. proc. pen., di seguito richiamati nei limiti di stretta necessità di cui all’art. 173 comma 1 disp. att. cod. proc. pen.

2.1. II primo motivo ha lamentato il mancato riconoscimento della causa di giustificazione del diritto di cronaca, influente sulla punibilità del reato di diffamazione; egli si sarebbe limitato a riportare quanto comunicato nella conferenza stampa indetta dalla Procura di Reggio Calabria riguardante gli esiti di un’operazione investigativa detta “(omissis)”; avrebbe tratto la notizia dall’ordinanza di custodia cautelare, nella quale sarebbe comparso il nome della parte civile, (omissis), quale appartenente alla guardia di finanza; avrebbe curato di utilizzare il “condizionale” nella dazione della notizia; non vi sarebbe prova della mancata iscrizione di (omissis) nel registro cieli indagati, anche perché l’iscrizione non avrebbe potuto essergli comunicata nemmeno a sua richiesta, stante la tipologia del reato contestato; la valutazione della condotta del giornalista avrebbe dovuto essere calibrata sulle circostanze concrete e sulla capacità di percezione del “lettore medio”.

2.2. Il secondo motivo ha censurato la sentenza impugnata sotto il profilo della reputata sussistenza dell’elemento soggettivo del reato, che esige in ogni caso l’uso consapevole di parole socialmente interpretabili come offensive; la notizia incriminata avrebbe semplicemente dato conto di un’operazione di polizia finalizzata alla lotta al narcotraffico i cui presunti responsabili avevano avuto contatti telefonici con militari della Guardia di finanza.

2.3. Il terzo motivo ha dedotto l’illegittima e sproporzionata irrogazione della pena detentiva al giornalista, vietata alla luce della sentenza della Corte Costituzionale n. 150 del 2021; difetta, nella sentenza impugnata, ogni motivazione sull’aspetto dell’eccezionale gravità della condotta da lui tenuta.

2.4. Il quarto motivo si è soffermato sul mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti di cui all’art. 62-bis cod. pen., poiché la sentenza impugnata avrebbe valorizzato solo i connotati di segno negativo, senza considerare lo stato di incensuratezza del ricorrente ed il suo lungo corso professionale, sempre corretto e immune da rimarchi; egli non avrebbe esitato a porre rimedio all’errore, se l’interessato avesse richiesto formale rettifica della notizia.

Motivi della decisione

È fondato il terzo motivo di ricorso che investe il trattamento sanzionatorio, ma deve essere dichiarata l’estinzione del reato per intervenuta prescrizione, con salvezza delle statuizioni relative all’affermazione della responsabilità civile.

1. I primi due motivi sono generici, perché non si confrontano con la ratio decidendi della sentenza impugnata, e manifestamente infondati.

1.1. Di immediata percepibilità è la valenza lesiva, in pregiudizio della reputazione della persona offesa, appartenente alle forze di polizia, della diffusione di una notizia giornalistica, non rispondente al vero, attributiva di collusione (“combutta”) con individui dediti al traffico di stupefacenti, effettivamente raggiunti dall’applicazione di una misura cautelare coercitiva nell’ambito di un procedimento penale, come illustrato, con proposizioni ineccepibili, dalla sentenza della Corte territoriale.

Il diritto di cronaca giudiziaria, garantito dall’art. 21 della Costituzione, trova invero un preciso limite nel rispetto del diritto di ciascuno alla tutela della reputazione, di tal che il medesimo può essere efficacemente chiamato in causa – quando ne possa derivare un’offesa all’altrui reputazione, prestigio o decoro – soltanto qualora siano rispettate dal cronista alcune condizioni che la giurisprudenza di legittimità ha da tempo individuato: a) la verità della notizia pubblicata; b) l’interesse pubblico alla conoscenza dei fatti riferiti in relazione alla loro attualità ed utilità sociale; c) l’obiettività e la continenza dell’informazione.

1.2. E questa Corte di cassazione ha da sempre affermato, anche in tema di diffamazione a mezzo stampa, che l’imputato che invochi il diritto di cronaca ha l’onere, in primo luogo, di provare la verità della notizia riportata (Sez. 5, n. 10964 del 11/01/2013, Allam, Rv. 255434), perché, in difetto della corrispondenza tra fatti narrati e fatti realmente accaduti, è in radice da escludersi l’operatività della causa di giustificazione di cui all’art. 51 cod. pen. (ex multis, Sez. U n. 4950 del 26/03/1983, Narducci, Rv. 159240).

1.3. Una volta negata, come detto, la verità dei fatti riferiti, la scriminante potrebbe essere ipotizzata sotto il profilo putativo, ma solo quando il cronista dimostri di aver assolto all’onere di esaminare, controllare e verificare le trame della narrativa, al fine di superare ogni possibile dubbio o perplessità; solo in caso di rigorosa verifica dell’attendibilità della fonte, tanto più approfondita in caso di attribuzione di comportamenti gravi ed infamanti a persona determinata (Sez. 5, n. 38896 del 15/04/2019, Lang, non mass. sul punto), l’attuazione del dovere di controllo può consentire, in presenza degli ulteriori requisiti della pertinenza all’interesse pubblico e della correttezza dei modi e toni espositivi, di ravvisare l’errore percettivo che costituisce il presupposto dell’esenzione della responsabilità a norma dell’art. 59 comma 3 cod. pen. (Sez. 5, n. 51619 del 17/10/2017, Tassi, Rv. 271628; Sez. 5, n. 37435 del 09/07/2004, Perna ed altro, Rv. 229337; Sez. 5, n. 1952 del 02/12/1999, Latella ed altro, Rv. 216437; Sez. 5, n. 7393 del 14/06/1996, Scalfari ed altro, Rv. 206792).

In proposito, nessuna ragionevole verifica risulta effettuata, ma neppure seriamente allegata, dall’articolista, i cui motivi di ricorso si limitano a rilievi epidermici sui contenuti della notizia divulgata e ad agitare note di dissenso sulla sussistenza della prova del dolo, quantomeno nella forma indiretta valutata dalle pronunce di merito, con il richiamo sterile di massime giurisprudenziali che, ove non inconferenti, sono state comunque puntualmente rispettate dal corredo espositivo delle decisioni in doppia conforme.

1.4. L’uso del condizionale – tanto enfatizzato nei motivi d’impugnazione – non è sufficiente ad escludere la idoneità a ledere la reputazione altrui. Le espressioni usate sono invero limpidamente insinuanti e capziose ed inducono il lettore, anche in relazione all’indiscutibile portata suggestiva delle notizie di cronaca “nera”, a ritenere la effettiva rispondenza a verità dei fatti raccontati (cfr. sez. 5, n. 31912 del 18/04/2001, Garzia, non mass. sul punto).

In altri termini, non è nemmeno astrattamente ipotizzabile la scriminante dell’ esercizio del diritto di cronaca, anche solo nella forma putativa, quando il giornalista diffonda notizie offensive false e non verificate, a nulla rilevando che faccia ricorso anche a verbi al condizionale quando l’incedere complessivo delle proposizioni dia ad intendere, come accaduto nel caso di specie, anche a mezzo di espressioni confezionate in guisa da accostare l’informazione falsa a fatti veri, la sostanziale volontà di comunicare la notizia diffamatoria e non riscontrata, come, invece, effettiva e fondata (cfr. per il principio espresso, sez. 5, n. 35139 del 16/05/2016, Lolli, n.m.). Una tale modalità espositiva finisce insomma per ingenerare nella mente del lettore di media avvedutezza la persuasione che quel passaggio espositivo dell’informazione sia da inserire nell’obbiettivo resoconto fornito dal cronista sui tratti salienti degli avvenimenti realmente accaduti.

1.5. E si può ancora aggiungere come la pregnanza offensiva di siffatta tecnica narrativa appaia persino più intensa di quella delle esternazioni caratterizzate dalla forma dubitativa o interrogativa, che da tempo la giurisprudenza di questa Corte, qualora associate a fatti non corrispondenti al vero, afferma potenzialmente pregiudizievoli dell’altrui reputazione quando le frasi pronunciate nel contesto della comunicazione, in quanto ambigue, allusive, coinvolgenti e suggestive, ovvero accompagnate ad interrogativi retorici, siano idonee ad instillare nella mente dei destinatari il convincimento dell’effettiva rispondenza a verità del fatto formalmente solo adombrato (sez. 5, n. 8 del 12/11/2019, Parovel, Rv. 278318; sez. 5, n. 41042 del 17/06/2014, Scancarello, Rv. 260772; sez. 5, n. 45910 del 04/10/2005, Fazzo ed altri, Rv. 233039; sez. 5, n. 6062 del 04/04/1995, Scalfari ed altro, Rv. 201762). La portata semantica delle parole al “condizionale” evoca una possibilità, se non una probabilità di accadimento, che soprattutto in un contesto di un racconto di fatti reali, integra, quanto a dimensione di lesività, un quid pluris rispetto a locuzioni predisposte in forma interrogativa o perplessa.

2. Il terzo motivo, di carattere assorbente rispetto al quarto, che attiene all’illegittima irrogazione della pena detentiva della reclusione in carenza assoluta di motivazione, non è travolto dall’inammissibilità, come sostenuto dal Procuratore Generale, perché un motivo sull’entità del trattamento sanzionatorio, attraverso l’invocazione delle attenuanti generiche, era stato dedotto con i motivi di gravame (art. 606 comma 3 cod. proc. pen.).

Secondo quanto esplicitato nell’editto accusatorio e alla stregua di quanto ricavabile dalla motivazione della sentenza impugnata, il fatto ascritto al ricorrente è consistito nell’avere attribuito alla persona offesa, col mezzo della stampa, un fatto determinato. Tale fattispecie era prevista dall’art. 13 legge 8 febbraio 1948 n. 47, che prevedeva una circostanza aggravante del reato di diffamazione, statuente la relativa punizione con l’irrogazione congiunta della reclusione e della multa. La norma, tuttavia, è stata dichiarata incostituzionale con la sentenza numero 150 del 2021 della Corte costituzionale. A seguito di tale decisum, l’applicazione della pena detentiva per il delitto di diffamazione a mezzo stampa è consentita solo in presenza di eccezionale gravità del fatto dal punto di vista oggettivo e soggettivo. La Consulta, infatti, dopo aver dichiarato costituzionalmente illegittima la disposizione dell’articolo 13 legge n. 47 del 1948, nella sua interezza, per contrasto con gli artt. 21 Cost. e 10 CEDU, ha chiarito che l’abolizione della lex specialis non crea un vuoto di tutela, poiché si espande nuovamente l’ambito precettivo delle regole generali dettate dall’articolo 595, commi 2 e 3, cod. pen. Il Giudice delle leggi si è poi interrogato sulla compatibilità costituzionale del regime sanzionatorio delineato dall’articolo 595, comma 3, cod. pen. (che prevede la pena detentiva come alternativa a quella pecuniaria), ed ha elaborato risposta positiva, sia pur circoscritta entro rigorosi limiti, riferiti espressamente all’intera gamma delle ipotesi contemplate dalla norma, che riguardano l’offesa recata col mezzo della stampa, con qualsiasi altro mezzo di pubblicità ovvero in atto pubblico. In particolare, la Corte ha precisato che la comminatoria della pena detentiva non è incompatibile con le ragioni di tutela della libertà di manifestazione del pensiero, nei soli casi in cui l’offesa si caratterizzi per la sua eccezionale gravità. Il potere discrezionale che l’art. 595 cod. pen. assegna al giudice, nella scelta tra la reclusione e la multa, dunque, deve essere esercitato tenendo conto dei criteri di commisurazione della pena di cui all’articolo 133 cod. pen., ma anche dei precisi confini delineati dalla copertura costituzionale. Il giudice penale dovrà optare per l’inflizione della reclusione soltanto nei casi di eccezionale gravità del fatto, dal punto di vista oggettivo e soggettivo, mentre dovrà arrestarsi all’applicazione della multa in tutte le altre ipotesi. In definitiva, l’applicazione della pena detentiva è subordinata alla verifica della straordinaria gravità della condotta, che va individuata nella diffusione di messaggi diffamatori connotati da discorsi di odio e di incitazione alla violenza, o si traduca in campagne di disinformazione gravemente lesive della reputazione della vittima compiute nella consapevolezza dell’oggettiva e dimostrabile falsità dei fatti ad essa addebitati (Sez. 5, n. 28340 del 25/06/2021, Rv. 281602; Sez. F, n. 30572 del 28/07/2022, n.m.).

Tanto premesso, va rilevato che, nel caso in esame, pur in un contesto di rimarcata riprovazione del fatto incriminato, il tessuto argomentativo della sentenza non consente di coglierne il trasmodare nell’eccezionale gravità, che sola potrebbe giustificare l’applicazione della pena detentiva.

2.1. La sentenza, pertanto, sul punto e in accoglimento del terzo motivo di ricorso, dovrebbe essere annullata con rinvio per il profilo attinente al trattamento sanzionatorio; epperò, il collegio deve parimenti rilevare, d’ufficio, a norma dell’art. 129 comma 1 cod. proc. pen. (sez. U n. 17179 del 27/02/2002, Conti, Rv. 221403; sez. U n. 35490 del 28/05/2009, Tettamanti, Rv. 244275), la prevalente causa di non punibilità rappresentata dall’avvenuto spirare del termine massimo di prescrizione del reato in data 10 luglio 2024 (anni sette e mesi sei), maturato successivamente all’emissione della deliberazione di secondo grado, prima della proposizione del ricorso per cassazione.

3. Ne consegue l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata agli effetti penali per intervenuta prescrizione, mentre il ricorso, agli effetti della responsabilità civile, deve essere respinto.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata agli effetti penali, perché il reato è estinto per prescrizione. Rigetta il ricorso agli effetti civili.

Così deciso in Roma, il 7 marzo 2025.

Depositata in Cancelleria il 10 aprile 2025.

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