Svolgimento del processo – Motivi della decisione
1. Con la sentenza impugnata il Giudice di Pace di Alcamo ha assolto, con la formula “perché il fatto non sussiste”, (omissis) dal delitto di cui all’art. 582 cod. pen. in relazione all’accusa di avere cagionato a (omissis) lesioni giudicate guaribili in giorni dieci.
2. Avverso l’indicata sentenza propone ricorso, per il tramite del difensore di fiducia munito di procura speciale, la parte civile (omissis), denunziando vizi di manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione nella parte in cui non ritiene raggiunta la prova del fatto ascritto al (omissis).
3. La denunzia di vizi motivazionali nel ricorso in esame impone, in via preliminare, di verificare:
– se il ricorso per cassazione sia l’unico mezzo di impugnazione a disposizione della parte civile, per cui esso va esaminato da questa Corte;
– se la parte civile abbia anche la possibilità di proporre appello, per cui si sarebbe in presenza di un ricorso c.d “per saltum”, che va convertito in appello ai sensi dell’art. 569, comma 3, cod. proc. pen., contenendo censure attinenti alla motivazione.
Infatti, il ricorso per cassazione che contiene tra i motivi la censura di cui all’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., relativa a vizi di motivazione della sentenza impugnata, non può essere proposto per saltum, e, se proposto, deve essere convertito in appello ai sensi dell’art. 569, comma 3, cod. proc. pen. (ex multis, Sez. 5, ord.n. 15667 del 18/02/2020, Rv 279177-01; Sez. 4, n. 1189 del 10/10/2018, dep. 2019, Rv. 274834; Sez. 3, ord. n. 48978 del 8/10/2014, De Boni, Rv. 261208; Sez. 6, n. 26419 del 3/7/2012, Laurito, Rv. 253122; Sez. 6, n. 26350 del 31/5/2007, Csollany, Rv. 236860).
4. Il ricorso in esame va convertito in appello.
Ritiene, infatti, il collegio che la parte civile possa impugnare con l’appello la sentenza assolutoria di primo grado ai soli effetti della responsabilità civile, in ragione della facoltà alla medesima riconosciuta dall’art. 576 cod. proc. pen., in sede di disposizioni generali sulle impugnazioni, contenute nel libro IX del codice di rito.
Secondo i principi stabiliti da questa Suprema Corte (Sez. U, n. 27614 del 29/03/2007, Lista, Rv. 236539), anche dopo le modificazioni introdotte dall’art. 6 della legge 20 febbraio 2006 n. 46 all’art. 576 cod. proc. pen., la parte civile ha facoltà di proporre appello, agli effetti della responsabilità civile, contro la sentenza di proscioglimento pronunciata nel giudizio di primo grado, in quanto il novellato testo dell’art. 576 cod. proc. pen., disciplinando in via generale la legittimazione della parte civile ad impugnare, non limita detto potere al solo ricorso per cassazione né esclude espressamente o per implicito l’appello, sicché può essere inteso nel senso che è consentita ogni forma di impugnazione ordinaria (in tal senso, ex multis, Sez. 5, n. 6756 del 16/10/2014, dep. 2015, Alfieri, Rv. 262724-01).
La giurisprudenza di questa Corte ha condiviso la più estensiva interpretazione della portata della disposizione di cui all’art. 576 cod. proc. pen., ritenendola aderente al dettato letterale della norma e più adeguata ad una lettura costituzionale della stessa, anche sulla base del rilievo che l’ordinamento non potrebbe consentire l’ingresso della parte civile nel processo penale per poi precluderle l’esperimento dei mezzi di impugnazione ammessi dalla legge.
L’attuale assetto normativo, quindi, prevede che la parte civile non possa impugnare i capi penali della sentenza di primo grado se non indirettamente, attraverso il potere di sollecitazione del pubblico ministero previsto dall’art. 572 cod. proc. pen. (limite sopravvissuto alla riforma della legge n. 46 del 2006), mentre le è riconosciuto il potere di impugnazione contro i capi della sentenza di condanna che riguardino l’azione civile, nonché, ai soli effetti della responsabilità civile, contro le sentenze di proscioglimento pronunciate nel giudizio, così come espressamente previsto dall’art. 576 cod. proc. pen.
Sez. U Papaleo (sent. n. 28911 del 28/03/2019, Rv. 275953 – 01), in un caso in cui la Corte era chiamata a risolvere la questione dell’ammissibilità dell’impugnazione della parte civile avverso la sentenza che ha dichiarato l’estinzione del reato per prescrizione, ha ribadito i principi espressi da Sez. U Guerra (sent. n. 40049 del 29/05/2008, Rv. 240815). Si è affermato, infatti, che la parte civile è legittimata all’impugnazione di tutte le sentenze di proscioglimento pronunciate nel giudizio, senza alcuna distinzione, ritenendo che la possibilità di ottenere il risarcimento del danno al di fuori del processo penale non possa annullare l’interesse a ottenerlo in sede penale. È stata inoltre ritenuta condivisibile la considerazione secondo cui, in caso di assoluzione perché il fatto non costituisce reato, le limitazioni all’efficacia di giudicato, previste dall’art. 652 cod. proc. pen., non incidono sull’estensione del diritto all’impugnazione, riconosciuto in termini generali alla parte civile nel processo penale dall’art. 576 cod. proc. pen., giacché, tra l’altro, ove si ritenesse il contrario, la parte civile che intendesse impugnare la sentenza assolutoria sarebbe costretta a rinunciare agli esiti dell’accertamento compiuto nel processo penale e a riavviare ab initio l’accertamento in sede civile, con conseguente allungamento dei tempi processuali (Sez. 2, n. 41784 del 18/07/2018, Edilscavi, Rv. 275416; Sez. 2, n. 36930 del 04/07/2018, Addonisio, Rv. 273519; in senso conforme: n. 36930 del 2018 rv. 273519 – 01, n. 15245 del 2005 rv. 232157 – 01, n. 6581 del 1999 rv. 213840 -01, n. 13621 del 2003 rv. 227194 – 01).
Tali principi sono stati ribaditi anche di recente da Sez. Un. n. 16208 del 28 marzo 2024, non ancora massimata (si veda, in particolare, par. 11 del Considerato in diritto).
5. Si pone, però, la questione dell’interpretazione dell’art. 593, ultimo comma, cod. proc. pen., la cui portata è stata ampliata dal punto di vista oggettivo per effetto dell’art. 34, comma 1, lett. a), D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, entrato in vigore a decorrere dal 30 dicembre 2022, ai sensi dell’art. 99-bis del medesimo decreto legislativo.
Nel testo attualmente vigente, l’ultimo comma dell’art. 593 cod. proc. pen. dispone nel senso che “sono in ogni caso inappellabili le sentenze di condanna per le quali è stata applicata la sola pena dell’ammenda o la pena sostitutiva del lavoro di pubblica utilità, nonché le sentenze di proscioglimento relative a reati puniti con la sola pena pecuniaria o con pena alternativa”.
L’ambito dell’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento è stato dunque esteso ai procedimenti concernenti anche i delitti, puniti con la sola pena pecuniaria o con pena alternativa, come quelli di competenza del giudice di pace.
Dal punto di vista soggettivo il D.Lgs. n. 150 del 2022 non ha operato alcuna esplicita modificazione dell’art. 593 cod. proc. pen., che, disciplinando i casi di appello, si occupa, nei primi due commi, solo del pubblico ministero e dell’imputato, mentre, nel terzo comma, non individua le parti destinatarie della regolamentazione, disponendo con una formula generale che sono “in ogni caso” inappellabili le sentenze ivi indicate.
L’inciso “in ogni caso” è stato introdotto dall’art. 2, comma 1, lett. a), D.Lgs. 6 febbraio 2018 n. 11 e, secondo alcune opzioni interpretative, vale ad esprimere l’intento del legislatore di circoscrivere la portata del rimedio impugnatorio di secondo grado, escludendolo per le sentenze di proscioglimento relative ai reati di minore gravità.
Si è allora sostenuto (si veda in tal senso Sez. 5 n. 14370 del 22 marzo 2024, non massimata) che tale intento è stato potenziato dalla riforma cd. Cartabia, dal momento che l’art. 1, comma 13, lett. c), legge 27 settembre 2021 n. 134, con carattere di generalità, persegue l’obiettivo di escludere l’appellabilità delle sentenze di proscioglimento relative a reati puniti con la sola pena pecuniaria o con pena alternativa. Si tratterebbe, quindi, di un mutamento del contesto normativo che impone una rimeditazione dei confini dell’impugnazione di secondo grado, tenendo conto che la conclusione, nel senso dell’inappellabilità, non priva comunque la parte di uno strumento di controllo della decisione giurisdizionale, alla luce della persistente possibilità di proporre ricorso per cassazione.
Nello stesso senso si è pronunziata Sez. 4, n. 24097 del 16/04/2024, Rv. 286471, che, confermando la decisione del Tribunale, in funzione di giudice dell’appello, che aveva ritenuto non proponibile ai sensi dell’art. 593, comma 3, cod. proc. pen. l’appello delle parti civili avverso una sentenza assolutoria del Giudice di pace, ha pure affrontato la questione di illegittimità costituzionale della norma come interpretata, affermando che “È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 593, comma 3, cod. proc. pen., come modificato dall’art. 34, comma 1, lett. a), D.Lgs. n. 150 del 2022, per contrasto con gli artt. 3, 25, 27, 32, 97, 102, 106 e 111 Cost. e 6 CEDU, nella parte in cui prevede l’inappellabilità delle sentenze di condanna alla sola pena dell’ammenda o a quella del lavoro di pubblica utilità e delle sentenze di proscioglimento relative a reati puniti con pena pecuniaria o con pena alternativa, non avendo il doppio grado di merito copertura costituzionale e corrispondendo l’inappellabilità delle sentenze concernenti fatti di modesta rilevanza a una scelta legislativa legittima, in quanto finalizzata a migliorare l’efficienza del sistema delle impugnazioni. (In motivazione, la Corte ha altresì evidenziato che le garanzie della giurisdizione risultano comunque assicurate nell’ambito del giudizio di primo grado e per effetto dello scrutinio di legittimità della sentenza, nonché, per la persona offesa, dalla facoltà di adire la giurisdizione civile a tutela dei propri diritti)”.
6. Questo collegio non ritiene condivisibile l’interpretazione sopra esposta, perché la modifica dell’art. 593, comma 3, cod. proc. pen. è inidonea a limitare i poteri di appello della parte civile, in quanto la determinazione dell’impugnabilità deve effettuarsi tenendo conto della specialità del sistema, in base alla disposizione contenuta nell’art. 576 cod. proc. pen., senza la possibilità di configurare alcun limite alla facoltà di impugnazione della parte civile avverso le sentenze di proscioglimento e per i soli interessi civili, perché non contemplato espressamente.
Va qui ricordato che sulla autonoma portata regolatrice dell’art. 576 cod. proc. pen. si è pronunziata la Corte Costituzionale con la sentenza n. 176 del 2019, che ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale della norma sollevate dal giudice rimettente, che aveva dubitato della costituzionalità della disposizione censurata laddove consente alla parte civile di impugnare la sentenza dibattimentale di proscioglimento dinanzi al giudice penale, anziché al giudice civile, seppure ai soli effetti della responsabilità civile.
In effetti, non si può trascurare che l’attuale assetto dell’art. 593 cod. proc. pen., risultato di una travagliata costruzione dapprima giurisprudenziale e solo successivamente legislativa individua in maniera chiara e precisa i soggetti legittimati all’appello, ravvisabili nelle sole parti necessarie al processo e, in ogni caso, non esclude l’appello della parte civile che, ove legittimata ai sensi dell’art. 576 cod. proc. pen., può impugnare “contro i capi della sentenza di condanna che riguardano l’azione civile e, ai soli effetti della responsabilità civile, contro la sentenza di proscioglimento pronunciata nel giudizio” o delle parti eventuali, cioè il responsabile civile e il civilmente obbligato per la pena pecuniaria, che mantengono il loro potere di proporre appello nei casi consentiti all’imputato e disciplinati dall’ art. 575 cod. proc. pen.
D’altronde, nella sua formulazione originaria, l’art. 576 cod. proc. pen. abilitava la parte civile ad impugnare le sentenze ivi indicate (incluse le sentenze dibattimentali di proscioglimento) “con il mezzo previsto per ii pubblico ministero”. Tale ultimo inciso, tuttavia, è stato soppresso dall’art. 6 della legge n. 46 del 2006 (c.d. legge Pecorella) proprio per svincolare il potere di impugnazione della parte civile da quello del pubblico ministero, al quale, invece, l’art. 1 della stessa legge (prima di essere dichiarato incostituzionale da Corte cost., sent. 24 gennaio 2007, n. 26) precludeva di appellare le sentenze di proscioglimento.
Poi, come si è già evidenziato (si veda sopra par. 4), le Sezioni Unite di questa Corte hanno sancito la sopravvivenza alla legge n. 46 del 2006 dell’appello della sola parte civile, smentendo il diverso orientamento che, sulla base della disposizione di cui all’art. 568 cpv. cod. proc. pen., argomentava la possibilità di esperire soltanto il ricorso per cassazione (Sez. U., n. 27614 del 29 marzo 2007, Lista, Rv. 236539).
E, come è noto, tale decisione ha trovato l’avallo della Corte costituzionale, la quale ha invocato la giurisprudenza di legittimità, ormai consolidata, per dichiarare manifestamente infondate le molteplici questioni di costituzionalità sollevate rispetto all’art. 576 del codice di rito (si vedano, tra le tante, Corte Cost. ord. n.3/2008; ord. nn. 154 e 155 del 2008).
Peraltro, la Corte Costituzionale, con la citata sentenza n. 176 del 2019, ha dichiarato infondate le censure del giudice rimettente proprio ritenendo “del tutto coerente con l’Impianto del codice di rito che, una volta esercitata l’azione civile nel processo penale, la pronuncia sulle pretese restitutorie o risarcitone della parte civile avvenga in quella sede: pertanto, anche quando l’unica impugnazione proposta sia quella della parte civile non è irragionevole che il giudice d’appello sia quello penale con la conseguenza che le regole di rito siano quelle del processo penale”.
È evidente che il percorso argomentativo della Corte Costituzionale prende le mosse dalla considerazione del carattere accessorio proprio delle pretese restitutorie e risarcitorie azionate dalla parte civile nel giudizio penale, come emerge chiaramente dall’art. 538 cod. proc. pen., in forza del quale il giudice decide sulla domanda di restituzioni e risarcimento del danno soltanto quando pronuncia sentenza di condanna. L’eventualità di non conseguire una pronuncia sulle proprie pretese rappresenta un rischio che la persona offesa non può trascurare nella valutazione sull’opportunità di esercitare l’azione civile fuori della sua sede naturale: soprattutto tenuto conto dell’efficacia di giudicato che assiste la sentenza penale di assoluzione nel giudizio civile, ai sensi dell’art. 652 cod. proc. pen.
Nella citata sentenza la Corte Costituzionale ha precisato che il disposto dell’art. 622 cod. proc. pen. “trova la sua giustificazione nella particolarità della fase processuale collocata all’esito del giudizio di cassazione, dopo i gradi (o l’unico grado) di merito, senza che da ciò possa desumersi l’esigenza di un più ampio ricorso alla giurisdizione civile per definire le pretese restitutorie o risarcitorie della parte civile che abbia, fin dall’inizio, optato per la giurisdizione penale”.
7. A sostegno dell’opzione interpretativa qui sostenuta va pure considerato che inibire alla parte civile l’appello ai soli effetti civili delle sentenze assolutorie relative ai reati puniti con pena pecuniaria o con pena alternativa significa incidere in maniera profonda sul sistema dei procedimenti dinanzi al giudice di pace, tenuto conto del regime sanzionatorio, quasi completamente imperniato sulla “pena alternativa”, che caratterizza i reati di competenza di tale giudice (art. 52 D.Lgs. 274/2000).
Giova qui ricordare che il carattere autonomo del sistema del procedimento dinanzi al giudice di pace è stato sottolineato dalle Sezioni Unite di questa Corte. Si è affermato, infatti, che: “La stessa competenza per materia e il catalogo dei reati attribuiti a questo giudice delineano, più di ogni altro parametro, i caratteri della sua giurisdizione, che conciliano il soddisfacimento delle esigenze deflattive, con un nuovo modello di giurisdizione volto alla composizione del dissidio interindividuale, consacrato in modo formale nell’art. 2, comma 2, D.Lgs. n. 274 del 2000, che funzionalizza il procedimento all’obiettivo della conciliazione tra le parti” sottolineando, inoltre, “il carattere autonomo e tendenzialmente separato di questa giurisdizione” e sostanzialmente servente rispetto alla mediazione del conflitto interindividuale (Sez. U, n. 28908 del 27/09/2018, dep. 2019, Balais, Rv. 275869 – 01).
Il carattere di autonomia e specificità è stato sottolineato anche dalla giurisprudenza costituzionale (Corte cost. n. 298 del 2008; n. 426 del 2008; n. 47 del 2014), che ha rilevato trattarsi di “procedimento connotato da una accentuata semplificazione e concernente reati di minore gravità, con un apparato sanzionatorio del tutto autonomo: procedimento nel quale il giudice deve, inoltre, favorire la conciliazione tra le parti e in cui la citazione a giudizio può avvenire anche su ricorso della persona offesa” (Corte cost., n. 50 del 2016).
Nella medesima direzione le Sezioni Unite hanno affermato la novità del “rito orientato, più che alla repressione del conflitto sotteso al singolo episodio criminoso, alla sua composizione”. Sez. U, n. 53683 del 28/11/2017, Perini, ha escluso l’applicabilità della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, prevista dall’art.131-bis cod. pen. nel procedimento davanti al giudice di pace, dando prevalenza alla peculiarità del complessivo sistema sostanziale e processuale introdotto dal D.Lgs. n.274 del 2000, nel cui ambito la specifica tenuità del fatto, già prevista dall’art. 34 del medesimo decreto, svolge un ruolo anche in funzione conciliativa, valorizzando proprio la posizione della persona offesa.
È allora evidente la frizione che si creerebbe tra i principi affermati dalla giurisprudenza citata e l’interpretazione restrittiva dell’ambito di tutela in sede penale della persona offesa-parte civile, che sostiene la non appellabilità da parte di quest’ultima di tutte le sentenze del giudice di pace, in virtù dell’applicazione del disposto dell’art. 593, comma 3, cod. proc. pen., e, quindi, priva in maniera generalizzata di un grado di giudizio proprio quella parte che viene valorizzata nel procedimento dinanzi al giudice di pace.
Non si può poi trascurare che, sempre in virtù delle modifiche sostanziali introdotte dalla riforma Cartabia, appartiene al giudice di pace, dopo l’entrata in vigore delle modifiche introdotte dall’art. 2, comma 1, lett. b), D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, la competenza per materia ex art. 4, comma 1, lett. a), D.Lgs. 28 agosto 2000, n. 274 in ordine al delitto di lesione personale di cui all’art. 582 cod. pen., nei casi procedibili a querela, anche quando comporti una malattia di durata superiore a venti giorni e fino a quaranta giorni, fatte salve le ipotesi espressamente escluse dall’ordinamento (Sez. U, Sentenza n. 12759 del 14/12/2023 -dep. 28/03/2024- Rv. 286153).
L’intervento di riforma ha, quindi, avuto un notevole impatto, ove si consideri che ha ricondotto nella competenza del giudice di pace condotte di una certa gravità. Invero, dalla disciplina oggi vigente derivano conseguenze significative in relazione alle lesioni personali attribuite alla competenza del giudice di pace, che per l’appunto comprende – ferme alcune eccezioni – le ipotesi in cui sia stata cagionata una malattia non superiore a quaranta giorni. Insomma, a seguito della novella, il giudice di pace è chiamato a conoscere fattispecie di lesioni personali che non possono sempre dirsi di gravità limitata e inibire alla persona offesa-parte civile una tutela processuale più ampia risulta distonico rispetto alla “peculiarità della giurisdizione di pace” in diverse occasioni evidenziata dalla citata giurisprudenza costituzionale e dalle Sezioni Unite e correlata sempre a “reati di minore gravità” (si veda pure Sez. U, n. 28909 del 27/09/2018 – dep. 2019, Treskine, Rv. 275870).
In effetti, va considerato che la riforma attribuisce alla competenza del giudice di pace anche condotte riconducibili alla ed. violenza di genere: si pensi, per esempio, ai fatti dì lesioni, con durata della malattia superiore ai venti giorni e non eccedente i quaranta, provocate da soggetti non legati da “relazione affettiva” con la vittima (la sussistenza di una “relazione affettiva” rientra, invece, nelle “eccezioni” contemplate dall’art. 577 cod. pen., di cui si è detto). Né, sotto questo profilo, può trascurarsi che le condotte di lesioni personali rientrino tra i “comportamenti cosiddetti “spia”” (Corte cost., sent. n. 236/2018), rispetto ai quali il nostro ordinamento ha riservato particolare attenzione a tutela delle vittime considerate più vulnerabili.
Non si condividono, pertanto, le considerazioni fatte nella citata pronunzia Sez. 5 n. 14370/2024, nella parte in cui ha affermato che “pur tenendo conto delle peculiarità che caratterizzano il regime delle impugnazioni dinanzi al giudice di pace, si osserva che il D.Lgs. 28 giugno 2000, n. 274 non detta disposizioni specificamente riferite alla parte civile, se non per il caso del ricorrente che abbia chiesto la citazione a giudizio dell’imputato, a norma dell’art. 21 dello stesso D.Lgs. (art. 38). E, in questo caso, nel quale la parte civile assume il ruolo di accusatore privato (v., infatti, di recente, Sez. 4, n. 43463 del 27/10/2022, Catalano, Rv. 283748 – 01), l’impugnazione contro la sentenza di proscioglimento è ammessa negli stessi casi in cui è ammessa l’impugnazione del pubblico ministero. In questa prospettiva, non è in discussione il potere generale di impugnazione riconosciuto dall’art. 576 cod. proc. pen. alla parte civile, ma la ragionevolezza di un sistema che, rispetto alle sentenze di proscioglimento, in difetto di una norma specificamente attributiva del potere di appello e in un contesto che mira a circoscrivere l’impugnabilità delle sentenze di secondo grado, riconosca alla parte civile, che abbia fatto valere esclusivamente una pretesa risarcitoria o restitutoria, poteri più ampi di quelli riconosciuti al pubblico ministero e soprattutto alla stessa parte civile che, valendosi dei poteri di cui all’art. 21 D.Lgs. n. 274 del 2000, abbia introdotto una pretesa non dipendente dall’iniziativa della pubblica accusa. È soprattutto il confronto interno ai poteri riconosciuti alla stessa parte civile, secondo che si avvalga o non dei poteri riconosciuti dall’art. 21 cit., a disvelare l’intrinseca incoerenza della diversificazione del regime dell’appello” (si veda pag. par. 2 del Considerato in diritto).
Ad avviso del collegio, indipendentemente dalla sostenuta portata generale della previsione di cui all’art. 576 cod. proc. pen., può ritenersi che l’art. 593 cod. proc. pen., in ragione di una lex specialis come quella prevista dal D.Lgs. n. 274 del 2000, non può ritenersi applicabile al procedimento dinanzi al giudice di pace.
L’art. 37 del suddetto D.Lgs. n. 274 del 2000 regola il regime di impugnazione dell’imputato, che “può proporre appello contro le sentenze di condanna del giudice di pace che applicano una pena diversa da quella pecuniaria; può proporre appello anche contro le sentenze che applicano la pena pecuniaria se impugna il capo relativo alla condanna, anche generica, al risarcimento del danno”. L’imputato, invece, “può proporre ricorso per cassazione contro le sentenze di condanna del giudice di pace che applicano la sola pena pecuniaria e contro le sentenze di proscioglimento”.
L’art. 38 D.Lgs. n. 274 del 2000 sì occupa dell’impugnazione del “ricorrente” che ha chiesto la citazione a giudizio dell’imputato, a norma dell’articolo 21, il quale può proporre impugnazione, anche agli effetti penali, contro la sentenza di proscioglimento del giudice di pace negli stessi casi in cui è ammessa l’impugnazione da parte del pubblico ministero. È del tutto evidente che tale disposizione è finalizzata solo a precisare quando la parte civile può appellare la sentenza assolutoria “agli effetti penali”, presupponendo che l’impugnazione in appello agli effetti civili possa essere sempre proposta, con i limiti, sopra indicati, della sussistenza dell’interesse.
Va, infatti, nuovamente ricordato che la legge 20 febbraio 2006, n. 46, sulla inappellabilità delle sentenze di proscioglimento, ha influito sulla disciplina della facoltà di appello della parte civile abrogando la disposizione dell’art. 577 cod. proc. pen., che consentiva eccezionalmente alla parte civile di impugnare, “anche agli effetti penali”, le sentenze di condanna e di proscioglimento per i reati di ingiuria e di diffamazione ed eliminando, nell’art. 576 cod. proc. pen., il riferimento all’appello del pubblico ministero e, quindi, recidendo il preesistente vincolo tra l’impugnazione della parte civile e le facoltà di impugnazione attribuite al pubblico ministero, solo per i procedimenti che non siano di competenza del giudice di pace per i quali – invece- residua proprio la previsione di cui all’art. 38 D.Lgs. n. 274/2000.
Peraltro, come sottolineato anche da Sez. Unite Colucci, nessun dubbio può aversi, per quanto concerne i procedimenti dinanzi al giudice di pace, sul fatto che la “parte civile, in applicazione della regola generale dettata dall’art. 576 cod. proc. pen., riferibile anche a tali procedimenti sulla base del richiamo dell’art. 2 D.Lgs. n. 274 del 2000, è legittimata ad impugnare le sentenze di proscioglimento, ai soli effetti civili, nonché, anche agli effetti penali, la sentenza di proscioglimento relativa a procedimento instaurato con il ricorso immediato previsto dall’art. 21 del citato decreto legislativo, così come disposto dall’art. 38 dello stesso” (si veda in motivazione Sez. U, n. 6509 del 20/12/2012 – dep. 08/02/2013 – Rv. 25413, che oltre ad acclarare la portata generale della previsione di cui all’art. 576 cod. proc. pen., ha affermato che l’impugnazione della parte civile avverso la sentenza di proscioglimento che non abbia accolto le sue conclusioni, è ammissibile anche quando non contenga l’espressa indicazione che l’atto è proposto ai soli effetti civili.).
8. In conclusione si deve affermare che nel procedimento dinanzi al giudice di pace, anche dopo la riforma di cui al D.Lgs. n. 150 del 2022, la parte civile, al di fuori della ipotesi di cui all’art. 38 D.Lgs. n. 274 del 2000, continua ad essere legittimata a proporre appello, ai soli effetti civili, avverso le sentenze di proscioglimento del giudice di pace, in applicazione della regola generale dettata dall’art. 576 cod. proc. pen., riferibile anche al suddetto procedimento in forza dell’art. 2 D.Lgs. n. 274 del 2000.
9. Il ricorso proposto dalla parte civile (omissis) essendo stati denunziati vizi motivazionali avverso sentenza di proscioglimento del giudice di pace, deve essere convertito in appello e gli atti devono essere trasmessi al Tribunale di Trapani per l’ulteriore corso.
Poiché si procede per il reato di lesioni, a norma dell’art. 52 D.Lgs. 196/03, va disposto l’oscuramento delle generalità e gli altri dati identificativi.
P.Q.M.
Qualificato il ricorso come appello, dispone la trasmissione degli atti al Tribunale di Trapani per l’ulteriore corso.
In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell’art. 52 D.Lgs. 196/03 in quanto imposto dalla legge.
Così deciso in Roma il 10 luglio 2024.
Depositato in Cancelleria il 4 ottobre 2024.
