Massima

Il canone dell’«oltre ogni ragionevole dubbio» è un principio fondamentale che guida il giudice nell’analisi degli indizi, richiedendo una valutazione obiettiva e unitaria, supportata da un adeguato livello di convinzione. Questo principio, derivato dalla presunzione di innocenza, influenza non solo l’applicazione delle regole di giudizio, ma anche i metodi di accertamento del fatto. In base a tale principio, la Corte ha annullato una sentenza che aveva utilizzato il concetto di “consistente verosimiglianza” per affermare la responsabilità di un imputato per omicidio preterintenzionale, in un caso in cui il cadavere della vittima non era stato ritrovato.

Supporto alla lettura

OMICIDIO

L’ Art. 575 c.p. (Capo I Libro II Titolo XII del codice penale- Dei delitti contro la persona)  dispone che “Chiunque cagiona la morte di un uomo è punito con la reclusione non inferiore ad anni ventuno”. 

Il bene giuridico del reato è chiaramente rappresentato dalla vita umana, mentre la condotta del reato consiste nel cagionare la morte di una persona fisica o, nella fattispecie omissiva, nel non impedirla.

Le fattispecie di omicidio disciplinate dal codice penale sono:

  • l’omicidio doloso;
  • l’omicidio colposo;
  • l’omicidio del consenziente;
  • l’omicidio preterintenzionale;
  • l’omicidio stradale.

A tutela del bene vita sono poste altresì all’interno del capo I del titolo II del libro II del codice penale le fattispecie di:

  • infanticidio in condizioni di abbandono materiale e morale;
  • istigazione o aiuto al suicidio;

In forza dell’ applicazione congiunta dell’ art. 575 c.p. e l’ art. 56 c.p., è possibile l’ incriminazione dell’ omicidio nella forma tentata, consistente in atti idonei, diretti in modo non equivoco a cagionare la morte di una persona, se l’ evento “morte” non si verifica.

Ambito oggettivo di applicazione

Fatto
RITENUTO IN FATTO

1. Con la decisione in epigrafe, la Corte d’Assise d’Appello di Catania ha confermato la sentenza della Corte d’Assise di Siracusa emessa il 10.6.2016 con cui (omissis) è stato condannato alla pena di sedici anni di reclusione in relazione al reato di omicidio preterintenzionale aggravato della suocera, (omissis), commesso il (OMISSIS), così riqualificata l’originaria imputazione di omicidio premeditato aggravato già dalla sentenza di primo grado, che aveva, altresì, assolto l’imputato dal reato di sequestro di persona della stessa vittima finalizzato a commettere l’omicidio.

L’imputato è stato condannato, altresì, al risarcimento dei danni in favore delle costituite parti civili ed al pagamento di una provvisionale di Euro 10.000 per ciascuna di esse (omissis).

2. Il processo, secondo un paradigma di prova tipicamente indiziaria ed all’esito di una verifica di essa che le sentenze di merito hanno condotto secondo il criterio dell’affermazione di responsabilità “oltre ogni ragionevole dubbio”, ha portato alla condanna dell’imputato, nonostante non sia mai stato ritrovato il cadavere di (omissis) (ancorché siano state compiute molte indagini al riguardo, perlustrando luoghi e pozzi nelle campagne intorno a Ragusa e anche con carotaggi e scavi nella proprietà dell’imputato).

La donna, secondo la ricostruzione univoca approntata dai giudici di primo e secondo grado, è uscita di casa nel pomeriggio del giorno 22.2.2005, intorno alle ore 15.45, insieme all’imputato, marito della figlia (omissis), e da quel momento è scomparsa.

La testimonianza della collaboratrice domestica della vittima, (omissis), l’ultima persona ad averla vista in vita, descrive la donna intenta in camera da letto a prepararsi per uscire, già con il cappotto indosso, e l’imputato in atteggiamento d’attesa nel soggiorno di casa, secondo uno schema consueto, dato che la vittima era solita farsi accompagnare dal genero (come anche dalle figlie) per uscire, in quanto affetta da notevoli difficoltà di deambulazione, che le consentivano movimenti solo con bastone a tre piedi e con il sostegno di un accompagnatore. La circostanza è in qualche modo riscontrata dalla testimonianza di una vicina di casa della vittima, che per caso ha potuto osservare dalla propria abitazione le finestre di costei inequivocabilmente chiuse, come d’abitudine quando la donna usciva, fornendone esattamente l’ora per averla collocata in concomitanza di una telefonata con la propria figlia, di cui sono stati acquisiti i tabulati. L’imputato, sentito più volte a sommarie informazioni, senza garanzie difensive nella prima fase delle indagini poiché i sospetti concreti su di lui si erano focalizzati, secondo la ricostruzione dei giudici di merito, solo dopo l’acquisizione dei suoi tabulati telefonici che ne hanno smentito il racconto, ha sempre negato di essere uscito con la suocera, ammettendo solo di essere stato a trovarla per poco tempo e di essere andato via lasciandola in casa da sola, subito dopo che la collaboratrice domestica era a sua volta uscita.

Tali dichiarazioni – rese il 23 ed il 25 febbraio 2005, nonché il 2 maggio 2005 – sono state acquisite all’udienza del 27.4.2016, al momento dell’esame dell’imputato richiesto dal pubblico ministero ed in ragione della sua assenza, ritenendo la Corte d’Assise la loro utilizzabilità, in ragione del fatto che gli indizi nei suoi confronti erano emersi solo successivamente (il teste di polizia giudiziaria, l’ispettore (omissis), ha riferito che i primi sospetti nacquero dopo l’analisi dei tabulati telefonici pervenuti il 2 ed il 3 marzo 2005), nonché facendo riferimento al fatto che la stessa iscrizione nel registro degli indagati era avvenuta solo molto dopo l’avvio delle indagini.

La prova indiziaria si fonda, oltre che su tale elemento centrale – e cioè il fatto che la vittima, scomparsa nel nulla il pomeriggio del 22.2.2005, sia stata vista in vita, per l’ultima volta, mentre era in procinto di uscire proprio con l’imputato – su una serie di ulteriori componenti indiziarie, alcune di particolare rilievo.

E’ stato accertato che l’imputato, il quale aveva delega ad operare sui conti bancari e gli investimenti dell’anziana suocera – come anche del suocero – ed era solito occuparsi della gestione economica del patrimonio di costei, avendo la sua piena fiducia, il giorno prima della data dell’ipotizzato omicidio, aveva prelevato 46.000 Euro in contanti, estinguendo un certificato di deposito al portatore, appartenente alla vittima e scaduto il 20.2.2005.

Il denaro, una cifra consistente, non è stato mai ritrovato; l’imputato, secondo le sommarie informazioni del marito della vittima, (omissis), deceduto al momento del dibattimento di primo grado ed acquisite ex art. 512 c.p.p., aveva riferito ai parenti di aver consegnato la somma alla suocera, una volta ritiratala dalla banca, e di aver tenuto nascosta la cosa a tutti, sino alla scomparsa della donna il giorno dopo; tale circostanza, riferita direttamente anche dall’imputato nelle suddette dichiarazioni acquisite, risulta, peraltro, confermata dalle testimonianze di sua moglie (omissis)  e del loro figlio (omissis), ma smentita da quelle di segno opposto di due amiche della vittima (omissis), le quali, presenti al momento descritto come della presunta consegna della busta contenente il danaro, il 21.2.2005, hanno dichiarato di non aver visto nulla nelle mani dell’imputato né alcunché era stato consegnato alla suocera in loro presenza il giorno indicato.

Le due Corti d’Assise hanno evidenziato la maggior credibilità delle due testimoni neutrali rispetto alla vicenda – a differenza di moglie e figlio dell’imputato, animati dalla volontà di difenderlo in qualche modo – ed i giudici d’appello hanno concluso nel senso di ritenere che l’imputato non abbia mai consegnato il denaro alla suocera, valorizzando anche le sue accertate difficoltà economiche nel periodo, con una scopertura bancaria di oltre 11.000 Euro; l’impegno in un mutuo decennale dell’importo di 50.000 Euro, con rate mensili di 500 Euro e in un prestito per l’acquisto di un’autovettura che prevedeva una rata di 420 Euro mensili.

Anche il libretto di risparmio cointestato ai coniugi (omissis) e contenente la somma di 3.000 Euro non era stato ritrovato all’indomani della scomparsa della vittima, nonostante la cassaforte ove avrebbe potuto essere custodito fosse chiusa e senza segni di effrazione. Peraltro, con un particolare anch’esso valorizzato in chiave probatoria dalle sentenze di merito, emerge dalle testimonianze di dipendenti della banca di riferimento (la Banca Agricola Popolare di Ragusa) che l’imputato, il giorno prima di detta scomparsa, quando ancora non era stato accertato il mancato ritrovamento del libretto, si era presso di loro informato sulle modalità di un’eventuale denuncia di smarrimento.

2.1. In tale già complesso coacervo di elementi di fatto, le sentenze di merito calano le attività investigative, svolte in particolare con acquisizione di tabulati ed intercettazioni telefoniche ed ambientali, realizzate subito dopo la scomparsa di (omissis).

Da tali conversazioni intercettate emerge, come accaduto per gli accertamenti derivati dai tabulati, la falsità dell’alibi creato dall’imputato – il quale ha riferito di essere tornato a casa dopo la visita alla suocera il giorno della sua scomparsa, in ciò confortato dalle dichiarazioni della moglie e del figlio – smentito dalle indagini.

Anzitutto, il posizionamento delle celle telefoniche agganciate con il cellulare di (omissis) derivato dall’analisi dei suoi tabulati telefonici, traccia un percorso da Ragusa a San Cono e viceversa, dalle ore 18.28 alle ore 22.29 del giorno dell’omicidio, che le Corti di merito individuano come tragitto seguito al delitto e destinato all’occultamento del cadavere, operazione nella quale l’imputato è stato aiutato, per quanto ricostruito ancora dalle sentenze, da suo fratello (omissis)  con il quale risultano plurimi contatti telefonici, ancora una volta acquisiti dai tabulati, ed un incontro nel territorio di San Cono (su questi particolari sono state raccolte precise testimonianze dei testi di polizia giudiziaria). Il falso alibi è stato valorizzato, evidentemente, in forte chiave accusatoria da parte di entrambe le sentenze rese nel processo.

Ulteriori elementi indiziari sono stati desunti:

– dalla circostanza che il furgone di proprietà dell’imputato risultava perfettamente pulito il giorno dopo l’omicidio, finanche nelle ruote, nonostante la pioggia dei giorni precedenti;

– dal tentativo di depistaggio delle indagini inscenato con due telefonate anonime partite da una cabina telefonica di Modica il 3.3.2005 alle 18.22, a distanza di pochi secondi l’una dall’altra, e dirette alle utenze delle abitazioni delle due sorelle (omissis), nelle quali una voce avvertiva “La signora sta bene.. la signora sta bene”.., a simulare che la vittima fosse ancora in vita. Le telefonate sono state attribuite a (omissis), che, su istigazione del fratello e per proteggerlo, si era prestato al depistaggio, come emerge, anzitutto, dall’acquisizione della cella telefonica di Modica (stessa zona della cabina telefonica) per la localizzazione del cellulare del primo, contestuale all’intercettazione telefonica della conversazione intercorsa tra i due alle 18.55 dello stesso giorno, conversazione in cui l’imputato, ignaro della possibilità di localizzazione evidentemente ma consapevole delle intercettazioni nei suoi confronti (svelategli da un amico come si dirà di qui a poco), tentava di far passare la tesi che il fratello fosse in casa a letto perché malato, ancora allo scopo di depistare le indagini e sviarle dal sospetto nei suoi confronti. Inoltre, nell’ambientale svolta il 12.10.2005 nei locali della Questura di Ragusa, la fidanzata di (omissis), ignara ovviamente dell’intercettazione, accusava direttamente l’uomo di essere l’autore delle telefonate che la polizia giudiziaria le aveva fatto ascoltare e di averle mentito al riguardo; la testimone, peraltro, ha confermato la circostanza che il fidanzato fosse a Modica quel giorno anche in dibattimento, pur senza ammettere del tutto i contenuti dell’ambientale;

– dalla conversazione ambientale registrata il 2.5.2005 all’interno dei locali della Questura di Ragusa, intercorsa tra i due fratelli (omissis), nel corso della quale essi hanno concordato palesemente e preventivamente la versione dei fatti da riferire agli inquirenti quanto alla giornata del 3.3.2005, data delle predette telefonate anonime depistanti.

Di interesse e’, altresì, notare come la sentenza di primo grado abbia evidenziato che una parte delle intercettazioni disposte non sia stata poi effettivamente eseguita, poiché l’imputato e suo fratello furono avvertiti delle attività in corso e della presenza di microspie nelle loro autovetture da un carabiniere amico e misero in atto una vera e propria “bonifica”, ritrovando le “cimici” installate dalla polizia giudiziaria.

2.2. Dall’insieme di una piattaforma indiziaria che, per come si è delineata, si rivela particolarmente complessa e ampia, anche la Corte d’Assise d’Appello, così come la Corte di primo grado, giunge a ritenere oltre ogni ragionevole dubbio la responsabilità dell’imputato per l’omicidio di (omissis).

La qualificazione giuridica del reato viene confermata per essere, piuttosto che quella di omicidio volontario premeditato inizialmente contestata dall’accusa, quella di omicidio preterintenzionale aggravato dall’essere rivolta l’azione omicidiaria verso un’affine in linea retta, ai sensi dell’art. 577 c.p., comma 2.

Il provvedimento impugnato evidenzia in proposito l’inverosimiglianza della tesi dell’omicidio volontario, avendo l’imputato disseminato il background del delitto di indizi che conducevano chiaramente a lui (era stato l’ultima persona a vedere in vita la vittima e colui il quale, secondo un testimone chiave, l’aveva accompagnata nella sua ultima uscita da casa; aveva prelevato un’ingente somma di danaro dal conto della suocera il giorno prima dell’omicidio e ne aveva fatto perdere le tracce; aveva persino chiesto come sporgere denuncia di smarrimento di un libretto di risparmio appartenente alla vittima e sul quale egli poteva operare), né essendovi contatti immediatamente precedenti al delitto tra lui ed il fratello, suo complice nelle fasi successive, per quanto accertato, che possano avvalorare la tesi di una sua preordinata volontà di uccidere la suocera.

Invece, ferma la ricostruzione già esposta e la valenza dei predetti elementi indiziari caratterizzati da gravità, precisione e concordanza – quanto alla responsabilità del ricorrente per aver causato la morte di (omissis), la sentenza d’appello sposa l’inquadramento giuridico proposto in primo grado e ritiene che egli si sia reso autore di una condotta imprevista, improvvisa e non preordinata, che lo ha portato, in uno scatto d’ira o di nervosismo, ad aggredire la vittima, colpendola volontariamente, sì da cagionarne la morte, evento che, evidentemente, deve averlo poi indotto a tentare di evitare le conseguenze del suo agire e ad occultare il cadavere insieme all’intero drammatico accaduto.

A riprova della plausibilità di una simile dinamica la sentenza impugnata rileva come l’imputato avesse manifestato un’indole collerica e violenta già precedentemente all’omicidio, chiamando a sostegno di tale affermazione le dichiarazioni in tal senso rese dalla cognata e figlia della vittima, (omissis), nonché la denuncia sporta dal suocero (omissis), il giorno 16.1.2006, nei suoi confronti, nella quale si dava atto di un episodio in cui egli era stato spinto violentemente dal genero, fino a cadere, per una lite relativa sempre a questioni economiche di tipo familiare avvenuta dopo la scomparsa della moglie, nel periodo in cui egli viveva periodicamente presso la figlia.

3. Ha proposto ricorso l’imputato tramite il difensore, avv. (omissis), deducendo sei differenti motivi, volti, quanto all’affermazione di responsabilità per il delitto di omicidio, a sostenere il mancato raggiungimento di quello standard probatorio necessario, ai sensi dell’art. 533 c.p.p., a determinare la colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio (in tal senso le Conclusioni del ricorso).

3.1. La prima censura contesta il vizio di violazione di legge, in relazione ai principi costituzionali che regolano il giusto processo ed il diritto al contraddittorio, lamentando complessivamente la contrarietà della sentenza impugnata ai principi convenzionali del fair trial declinati dall’art. 6 CEDU e, più specificamente, la violazione dell’art. 495 c.p.p. e art. 603 c.p.p., comma 3.

Il ricorrente si duole del mancato confronto in contraddittorio con i testi deceduti ( (omissis), marito della vittima, e (omissis), una testimone che aveva visto l’imputato intorno alle ore 16 viaggiare a bordo del suo furgoncino in Ragusa, da solo e non con a bordo la vittima); le dichiarazioni del primo sono state acquisite ex art. 512 c.p.p. ed utilizzate dalle sentenze di condanna; quelle della seconda, invece, ritenute inutilizzabili, benché la difesa avesse rinunciato (all’udienza del 14.6.2018) al motivo d’appello riferito alla nullità della loro acquisizione, trattandosi di dichiarazioni informalmente rese alla polizia giudiziaria e contenute in una mera relazione di servizio. Il fatto che la Corte d’Appello abbia dichiarato comunque la loro inutilizzabilità, nonostante la rinuncia difensiva all’eccezione, rende evidente il pregiudizio negativo nei confronti del ricorrente.

Il ricorrente lamenta, altresì, la mancata adesione alla richiesta difensiva di riaprire l’istruttoria dibattimentale per sentire alcune persone (nominativamente indicate all’udienza del 14.6.2018, come risulta anche dalla sentenza impugnata, n.d.r.), sue clienti, che avrebbero dovuto testimoniare il fatto di averlo incontrato a Santa Croce di Camerina nel pomeriggio del giorno del delitto per il pagamento di merce acquistata (il ricorrente è un agente di commercio di biancheria e corredi).

Si deduce, altresì, l’inutilizzabilità delle sommarie informazioni testimoniali rese dall’imputato il 23.2.2005; il 25.2.2005 e il 2.5,2005; nonché di quelle del fratello (omissis) rese in data 2.5.2005 e 12.10.2005. Tutte sono state assunte senza gli avvertimenti e le garanzie descritte dagli artt. 63 e 64 c.p.p. nonostante al momento in cui sono state raccolte fossero già evidenti gli indizi di colpevolezza a carico dell’imputato, a prescindere dalla sua iscrizione nel registro degli indagati (si evidenzia che i sospetti sul ricorrente sorsero già il giorno dopo l’omicidio, quando emersero alcune circostanze rilevanti: il 23 febbraio 2005 fu rilevata la perfetta ripulitura del suo furgoncino Doblò; non fu ritrovata la somma di 46,000 Euro che egli aveva prelevato per conto della suocera; fu operata una perquisizione in casa sua; nella sua auto fu trovato un fazzoletto sporco di sangue che venne sequestrato e sottoposto ad indagini scientifiche, poi risultate dagli esiti non rilevanti).

3.2. Il secondo motivo di censura denuncia vizio di motivazione mancante e contraddittoria quanto alla circostanza che la vittima si sia allontanata da casa il giorno della sua scomparsa insieme al ricorrente; vengono segnalati alcuni particolari che avrebbero valenza opposta alla ricostruzione accusatoria. Più specificamente, il ricorso torna sulla rilevanza delle dichiarazioni di (omissis) ed evidenzia, altresì, che la collaboratrice domestica aveva testimoniato come il colloquio tra suocera e genero nel primo pomeriggio del 22.2.2005 fosse stato del tutto ordinario e per nulla vivace o alterato nei toni.

2.3. Il terzo motivo di ricorso deduce vizio di motivazione manifestamente illogica, mancante e contraddittoria avuto riguardo al fatto che non sono stati individuati né il luogo in cui sarebbe stato commesso l’omicidio, né quello in cui sarebbe stato occultato il cadavere.

La ricostruzione delle sentenze di condanna, che colloca temporalmente le condotte tra le 16 e le 18,25 del 22.2.2005, non tiene conto di come la difesa abbia fatto presente che l’imputato, in quel frangente di tempo, era stato invece a Santa Croce di Camerina per riscuotere le rate della merce venduta da alcune clienti, che inspiegabilmente non si è deciso di sentire, rigettando l’istanza relativa.

2.4. La quarta censura eccepisce violazione delle regole valutative riferite alla prova indiziaria; mancanza e manifesta illogicità della motivazione del provvedimento impugnato quanto all’affermazione di responsabilità del ricorrente.

Gli indizi raccolti non sono univoci per come descritti nella sentenza d’appello.

Si evidenzia, in particolare:

– l’incertezza sul destino della somma di danaro e l’illogicità di ritenere, da un lato, i soldi mai consegnati dall’imputato alla vittima; dall’altro, di considerare che il ricorrente dovesse accompagnarla in banca per evidentemente operare su tale somma;

– l’insufficienza della motivazione con cui si attribuisce al ricorrente ed al fratello un depistaggio tentato attraverso le telefonate anonime provenienti da un telefono pubblico di Modica; non vi sarebbe certezza che siano stati i due (omissis) a pianificare e realizzare le due telefonate;

– la circostanza che la teste (omissis), fidanzata di (omissis), sia stata suggestionata dalla polizia giudiziaria ed abbia subito vere e proprie pressioni per dichiarare di aver riconosciuto la voce del proprio compagno in quella di colui il quale aveva fatto le due telefonate anonime depistanti a casa delle figlie della vittima (si afferma che la polizia aveva fatto credere alla ragazza di avere videoriprese del fidanzato mentre entrava nella cabina telefonica);

– la mera congettura che ha consentito alla Corte d’Assise d’Appello di trarre il convincimento circa il carattere violento ed irascibile dell’imputato; si denuncia, altresì, l’irritualità dell’acquisizione della querela sporta da (omissis) nei confronti del ricorrente, oltre che la sua mancanza di significato, trattandosi di denuncia che non ebbe alcuno sbocco;

– la natura congetturale anche della deduzione circa il fatto che l’imputato fosse andato dalla suocera per accompagnarla in banca, non essendo stata indicata neppure quale fosse la banca ove dovevano recarsi. Inoltre, non vi sarebbe prova che la vittima fosse uscita di casa con i documenti necessari;

– la mancanza di significato indiziario della circostanza dello smarrimento del libretto cointestato.

3.5. Un quinto motivo di censura è dedicato a contestare la configurabilità del reato anche dal punto di vista dell’elemento psicologico.

L’affermazione circa il fatto che l’imputato abbia commesso lesioni o percosse volontarie nei confronti della vittima, alle quali sia seguita la morte, è del tutto apodittica; non sono state specificate in alcun modo le circostanze nelle quali si è concretizzata l’aggressione; non vi sono cenni al dolo di percosse o lesioni.

La tesi della difesa è che non possa escludersi che la donna sia caduta accidentalmente e sia deceduta in seguito ad una tale circostanza,, cui l’imputato ha reagito con uno stato di grande agitazione emotiva che ha determinato delle azioni inconsulte, quale è la condotta di disfarsi del cadavere.

La mancata sottoposizione dell’indagato a qualsiasi misura cautelare è sintomatica della valutazione di assenza di gravi indizi di colpevolezza.

3.6. Un ultimo argomento di ricorso eccepisce violazione di legge e vizio di manifesta illogicità della motivazione avuto riguardo al diniego delle circostanze attenuanti generiche ed alla dosimetria sanzionatoria.

Lo stesso provvedimento impugnato ricostruisce la condotta delittuosa come realizzata sotto la spinta di uno stato d’agitazione e panico che è inevitabilmente rappresentativo di uno stato psichico particolarmente scosso sotto il profilo della capacità di intendere e di volere tanto da meritare, quanto meno, il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, il riconoscimento delle quali non è impedito dalla gravità del fatto di reato (si cita Sez. 5, n. 12049 del 16/12/2009, dep. 2010, Migliazza, Rv. 246887)

4. Il Sostituto Procuratore Generale Luigi Birritteri ha chiesto l’inammissibilità del ricorso.

5. Le parti civili (omissis), tramite il difensore, hanno depositato conclusioni con memoria e nota spese del 19.4.2021 (chiedono 9.375, 44 Euro complessive di accessori).

6. L’imputato, mediante il difensore di fiducia, ha depositato memoria con cui obietta alle conclusioni del PG alcuni argomenti, tra i quali, anzitutto il fatto che gli indizi a carico del ricorrente fossero emersi sin dal giorno dopo la scomparsa della vittima e non al momento dell’acquisizione dei tabulati, sicché le sue sommarie informazioni non sono utilizzabili a fini di prova dell’alibi falso poiché assunte senza garanzie difensive e senza gli avvertimenti ex art. 63 c.p.p..

Inoltre, si ribadisce che la difesa aveva specificamente indicato i testimoni da ascoltare in dibattimento, al momento delle spontanee dichiarazioni dell’imputato, in una lista che aveva al tempo delle indagini consegnato anche alla polizia giudiziaria senza tuttavia che vi fosse riscontro alcuno alle sue richieste.

Diritto
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è complessivamente fondato e deve essere accolto sotto alcuni, rilevanti profili, con il conseguente annullamento della sentenza impugnata per nuovo esame, essendo carente e non convincente la motivazione di condanna, per tali aspetti, sia in punto di individuazione dell’imputato quale autore dell’omicidio, sia quanto alla qualificazione giuridica del delitto quale omicidio preterintenzionale; e ciò, nonostante molta parte del tessuto indiziario emerso dall’istruttoria dibattimentale possa essere valorizzato nel senso di ritenere che la scomparsa della vittima sia dovuta ad un possibile omicidio commesso dal ricorrente.

Ciascuno dei motivi proposti, escluso il sesto ed ultimo argomento di censura, attinente al trattamento sanzionatorio ed al diniego delle circostanze attenuanti generiche, che rimane assorbito dall’accoglimento complessivo delle ulteriori, preliminari doglianze, mette in risalto debolezze logico-motivazionali e deficit dell’istruttoria, pur dinanzi ad una “doppia pronuncia conforme”, la quale offre un’ossatura che potrebbe divenire più solida una volta colmate le predette lacune, essendo stati puntualmente raccolti una serie non da poco di elementi indiziari, alcuni dei quali dotati anche di una seria significatività, ma che, tuttavia, oggi si lascia incidere negativamente dal sindacato di legittimità.

2. Preliminarmente, rispondendo così anche, in parte, al quarto ed al quinto motivo di ricorso, deve darsi atto di come la motivazione del provvedimento d’appello impugnato non si rivela coerente al canone dell’oltre ogni ragionevole dubbio, previsto dall’art. 533 c.p.p., sia sostanzialmente che nel lessico utilizzato, con la necessità che i giudici rimodulino le proprie affermazioni circa la responsabilità del ricorrente, dal punto di vista sia dell’elemento oggettivo che di quello soggettivo del reato, per il delitto di omicidio preterintenzionale, così come riqualificata sin dall’esito del giudizio di primo grado l’iniziale ipotesi d’accusa di omicidio volontario.

Il criterio di attribuzione della responsabilità cui ha fatto ricorso il giudice d’appello, aderendo, peraltro, ad analoga impostazione anche della sentenza di primo grado (cfr. pag. 127), si fonda, piuttosto, su di un inaccettabile parametro di “consistente verosimiglianza”, che non corrisponde ed anzi contraddice il canone normativo di indispensabile valutazione della colpevolezza penale, trascurando anche l’analisi del dolo del reato, particolarmente complessa nel caso di preterintenzionalità (cfr. in tema, tra le più recenti, Sez. 5, n. 11946 del 9/1/2020, Caciula, Rv. 278932; Sez. 5, n. 51233 del 9/10/2019, S., Rv. 277960; Sez. 1, n. 3619 del 22/12/2017, dep. 2018, Marini, Rv. 272050).

Si legge a pag. 45 della sentenza d’appello, a proposito della ricostruzione operata circa la qualificazione della condotta come omicidio preterintenzionale, perché frutto di un evento traumatico improvviso e non preordinato dall’imputato, dovuto ad uno scatto d’ira compatibile con il suo carattere collerico (risultante anche dalla citata denuncia sporta dal suocero il 16.1.2006), che questi “avrebbe colpito o probabilmente semplicemente spinto” la vittima, già afflitta da difficoltà a deambulare, facendola cadere e determinandone la morte, per motivi economici collegati alla presumibile sottrazione della somma di 46.000 Euro da lui prelevata dal conto della donna e mai più ritrovata. L’omicidio preterintenzionale – secondo la sentenza impugnata – sarebbe l’unica fattispecie giuridica plausibile, escluse l’ipotesi di omicidio volontario premeditato ipotizzata dall’accusa (per la condotta precedente all’omicidio tenuta dall’imputato, troppo smaccatamente volta a convogliare su di sé i sospetti, ritirando un’ingente somma di danaro poi sparita e proponendosi come ultima persona che è stata vista in compagnia della vittima ancora viva) e quella della morte naturale improvvisa (poiché altrimenti non vi sarebbe stato motivo di occultare il cadavere né di temere conseguenze di sorta; non si vede, tuttavia, per quale ragione la sentenza impugnata non abbia considerato anche la causalità colposa, di talché, anche sotto tale profilo, la motivazione risulta afflitta da uno iato logico).

Su tali basi, la Corte territoriale, considerato che non aver ritrovato il cadavere ha impedito di determinare precisamente le modalità esecutive del delitto realizzato dall’imputato, ha ritenuto la dinamica sopra detta, configurabile nello schema giuridico dell’omicidio preterintenzionale, “più che verosimile dal punto di vista logico e fattuale” e più favorevole al ricorrente, sottolineandone ancora la plausibilità e la verosimiglianza concreta, richiamando l’alibi falso fornito dal ricorrente ed esposto in precedenza, nel “Ritenuto in fatto”.

Ebbene, già dall’esame del lessico motivazionale si percepisce la distanza dal parametro di verifica obbligatoriamente prescritto dall’art. 533 c.p.p. che, tarato sulla presunzione di innocenza o non colpevolezza, richiede il superamento dell’oltre ogni ragionevole dubbio e non già la mera plausibilità o la semplice verosimiglianza, sia pur dotata di forte plausibilità, della ricostruzione adottata.

Ma non è certo una questione di lessico quella che si intende stigmatizzare, bensì un’attitudine di verifica probatoria incompleta, inidonea e carente rispetto allo standard richiesto dal legislatore e calibrato sull’art. 27 Cost..

Il canone dell’oltre ogni ragionevole dubbio – o regola bard (beyond any reasonable doubt) come è noto anche il criterio in esame – descrive un atteggiamento valutativo imprescindibile, che deve guidare il giudice nell’analisi degli indizi secondo un obiettivo di lettura finale ed unitaria, vivificato proprio dalla soglia di convincimento richiesto.

Per la sua immediata derivazione dal principio della presunzione di innocenza, esplica i suoi effetti conformativi non solo sull’applicazione delle regole di giudizio, ma anche, e più in generale, sui metodi di accertamento del fatto, imponendo protocolli logici del tutto diversi in tema di valutazione delle prove e delle contrapposte ipotesi ricostruttive in ordine alla fondatezza del tema d’accusa: la certezza della colpevolezza per la pronuncia di condanna, il dubbio originato dalla mera plausibilità processuale di una ricostruzione alternativa del fatto per l’assoluzione (Sez. U, n. 14800 del 21/12/2017, dep. 2018, Troise, Rv. 272430, in motivazione).

La sentenza impugnata non si è uniformata a tali principi, ma ha ragionato, come detto, in termini di verosimiglianza e plausibilità, criteri insufficienti all’affermazione di responsabilità, già rinvenibili nella sentenza di primo grado, che, dunque, non può offrire integrazione motivazionale sul punto.

Il fatto che non sia stato ritrovato il cadavere e che, per questo, non siano note la possibile dinamica dell’omicidio né sia ipotizzabile la condotta del ricorrente nei dettagli, sebbene questa gli sia stata attribuita con valutazione finale assertiva e in parte congetturale, non autorizza a cedere, addirittura, sul piano delle regole generali e ad abdicare al criterio dell’oltre ogni ragionevole dubbio.

La sentenza impugnata, pertanto, deve essere annullata, anzitutto, affinché i giudici si conformino al canone valutativo della responsabilità penale costituzionalmente orientato, con l’indicazione che se la sentenza di condanna non deve basarsi su ragioni congetturali o ipotetiche, né orientarsi secondo criteri di verosimiglianza, il dubbio sulla corretta ricostruzione del fatto reato nei suoi elementi oggettivo e soggettivo deve far riferimento anch’esso ad elementi sostenibili, e cioè desunti dai dati acquisiti al processo, e non meramente ipotetici o congetturali seppure plausibili (cfr., in tema, Sez. 2, n. 3817 del 9/10/2019, dep. 2020, Mannile, Rv. 278237).

2.1. Fissata la cornice di annullamento principale, da cui tutti i deficit motivazionali prendono vita ed in cui tutti, al tempo stesso, confluiscono, vanno chiarite alcune fondamentali coordinate ermeneutiche indispensabili a leggere la prova logico-indiziaria, così rispondendo anche ai dubbi, fondati, che ha manifestato il ricorrente in proposito nel quarto motivo di ricorso.

Anzitutto, il Collegio ricorda che vi è ontologica differenza tra prova e indizio, costituita dal fatto che, mentre la prima, in quanto si ricollega direttamente al fatto storico oggetto di accertamento, è idonea ad attribuire carattere di certezza allo stesso, l’indizio, isolatamente considerato, fornisce solo una traccia indicativa di un percorso logico argomentativo, suscettibile di avere diversi possibili scenari, e, come tale, non può mai essere qualificato in termini di certezza con riferimento al fatto da provare. La differenza tra indizio e prova non risiede nella tipologia del mezzo da cui deriva l’inferenza logica che costituisce il loro carattere comune, ma nei contenuti che essi esprimono e rappresentano (Sez. 2, n. 14704 del 22/4/2020, Bekaj, Rv. 279408; Sez. 5, n. 16397 del 21/2/2014, Maggi, Rv. 259551).

Sin dalla pronuncia delle Sezioni Unite Mannino (Sez. U, n. 33748 del 12/7/2005, Mannino, Rv. 231678), la Cassazione ha focalizzato la sua attenzione sulla necessità, in tema di valutazione della prova indiziaria, che il metodo ermeneutico da adottare debba essere quello che ruota intorno ad una lettura unitaria e complessiva dell’intero compendio probatorio; una lettura unitaria, però, che non si esaurisce in una mera sommatoria degli indizi e non può perciò prescindere dall’operazione propedeutica, costituita dal valutare ogni prova indiziaria singolarmente, ciascuna nella propria valenza qualitativa e nel grado di precisione e gravità, per poi valorizzarla, ove ne ricorrano i presupposti, in una prospettiva globale e unitaria, tendente a porne in luce i collegamenti e la confluenza in un medesimo contesto dimostrativo (sulla natura bifasica della verifica sulla valenza della prova indiziaria, cfr. Sez. 1, n. 1790 del 30/11/2017, dep. 2018, Mangafic, Rv. 272026).

Viene bandita, pertanto, qualsiasi valutazione atomistica e parcellizzata degli indizi, che, valutati dapprima nella loro individualità per verificarne la certezza (nel senso che deve trattarsi di fatti realmente esistenti e non solo verosimili o supposti) e l’intrinseca valenza dimostrativa (di norma solo possibilistica), successivamente vanno raccolti in senso logico attraverso un esame globale degli elementi certi, risolvendo eventuali ambiguità e consentendo di attribuire il reato all’imputato “al di là di ogni ragionevole dubbio” e, cioè, con un alto grado di credibilità razionale, sussistente anche qualora le ipotesi alternative, pur astrattamente formulabili, siano prive di qualsiasi concreto riscontro nelle risultanze processuali ed estranee all’ordine naturale delle cose e della normale razionalità umana (cfr. Sez. 1, n. 20461 del 12/4/2016, Graziadei, Rv. 266941; Sez. 1, n. 8863 del 18/11/2020, dep. 2021, S., Rv. 280605).

Torna, quindi, anche nella ricerca del canone valutativo della prova indiziaria, il richiamo già evocato in apertura al principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio, che costituisce un modello ermeneutico non solo per la motivazione della decisione, ma anche in prospettiva probatoria.

Ai sensi dell’art. 192 c.p.p., comma 2, gli indizi devono essere:

– gravi, ossia consistenti, resistenti alle obiezioni e dotati di capacità dimostrativa in relazione al “thema probandum”;

– precisi, ossia specifici, univoci e non suscettibili di diversa interpretazione altrettanto o più verosimile;

– concordanti, ossia convergenti e non contrastanti tra loro e con gli altri dati e elementi certi (per tali definizioni consolidate, cfr. tra le più recenti, Sez. 5, n. 1987 del 11/12/2020, dep. 2021, Piras, Rv. 280414).

La concordanza presuppone, ovviamente, una qualche molteplicità di indizi.

E tuttavia, il requisito della molteplicità e quello della gravità sono tra loro collegati e si completano a vicenda, nel senso che, in presenza di indizi poco significativi, può assumere rilievo l’elevato numero degli stessi, quando una sola possibile è la ricostruzione comune a tutti; mentre, in presenza di indizi particolarmente gravi, può essere sufficiente un loro numero ridotto per il raggiungimento della prova del fatto (Sez. 2, n. 35827 del 12/7/2019, Matasaru, Rv. 276743; Sez. 5, n. 36152 del 30/4/2019, Barone, Rv. 277529).

Tra le due estreme ipotesi logiche suddette, tuttavia, vi è un’ampia “terra di mezzo”, in cui si muovono più frequentemente i processi a prova indiziaria, nella quale la molteplicità non raggiunge la soglia di tranquillità probatoria dell’elevato numero di indizi non molto significativi, fermandosi ad un numero multiplo, ma non così consistente e soprattutto, spesso, non perfettamente collimante, e la gravità non connota i pochi indizi eventualmente più significativi presenti.

Questa “terra di mezzo” fenomenica e logica corrisponde al quadro indiziario che caratterizza il processo a carico del ricorrente: indizi decisamente molto suggestivi, ben valorizzati dai giudici di merito, ma non gravi nel senso di univocamente diretti alla dimostrazione del thema probandum (così l’elemento, ad esempio, che l’imputato sia stato l’ultimo a vedere in vita la vittima e che la cameriera/testimone lo abbia descritto come in attesa della suocera, la quale era intenta a mettersi il cappotto: tale indizio non può tradursi, di per sé solo, automaticamente, nell’indicazione sul fatto che la vittima sia uscita realmente con lui e poi sia scomparsa per mano sua); invece, necessariamente da collegare tra loro, all’elemento-movente e ad eventuali ulteriori fattori di valenza logico-fattuale utile alla prova inferenziale che da un fatto noto muove per la ricostruzione del fatto ignoto, in cui si concretizza ontologicamente l’indizio.

Sul movente, la Corte d’Assise d’Appello ha dato per assodato ciò di cui si era convinta la prima Corte d’Assise: l’imputato si è appropriato dell’ingente somma di 46.000 Euro prelevata il giorno prima della scomparsa della vittima, grazie alla delega che aveva sul conto dei suoceri, e per non restituirli avrebbe compiuto il delitto, in preda ad un improvviso scatto d’ira, dato il suo carattere violento ed incline alla rabbia; di qui, la qualificazione giuridica anche del reato come omicidio preterintenzionale e non volontario.

Tuttavia, non sono state ritrovate tracce della somma in contanti, sicché il movente, pur plausibile, non è stato compiutamente ricondotto alla prova in atti, che, in verità, non ha smentito con certezza neppure la circostanza difensiva secondo cui l’imputato avrebbe portato, invece, il danaro alla suocera, chiuso in una busta, lo stesso giorno del prelievo (non potendo ritenersi determinanti in tal senso le dichiarazioni testimoniali delle due amiche della donna scomparsa, presenti in casa di costei, le quali hanno dichiarato di non avergli visto nulla tra le mani al momento del suo ingresso in casa, a fronte di testimonianze di segno opposto della moglie e del figlio dell’imputato, i quali hanno riferito di aver saputo della consegna del danaro).

In ogni caso, deve riaffermarsi che, in un processo indiziario, il movente, così come l’alibi falso, possono rivestire natura di indizio.

Il movente in quanto costituisce elemento catalizzatore e rafforzativo di un quadro di indizi chiari, precisi e concordanti, posti a fondamento di un giudizio di responsabilità per la loro univoca significazione derivante anche dalla chiave di lettura offerta dalle ragioni del delitto; l’alibi falso, in quanto sintomatico del tentativo dell’imputato di sottrarsi all’accertamento della verità (Sez. 5, n. 42576 del 3/6/2015, Procacci, Rv. 265148, in una fattispecie proprio di omicidio).

La Causale dell’agire delittuoso, la motivazione che spinge l’autore del delitto, tuttavia, in tanto può fungere da fattore catalizzatore e rafforzativo della valenza degli indizi posti a fondamento di un giudizio di responsabilità, in quanto essi, all’esito dell’apprezzamento analitico e nel quadro di una valutazione globale di insieme, si presentino, anche in virtù della chiave di lettura offerta dal movente, chiari, precisi e convergenti per la loro univoca significazione.

In altre parole, il movente non può costituire elemento che consente di superare le discrasie di un quadro probatorio di per sé non convincente e fondato su una motivazione che, quanto agli indizi concreti, posti al di fuori del perimetro della spinta ad agire, lascia spazi di incertezza (Sez. 1, n. 813 del 19/10/2016, dep. 2017, Rv. 269287).

Nel caso del ricorrente, il movente sembra irragionevolmente, invece, assorbire tutti i dubbi possibili sulla dinamica del delitto e le intenzioni del ricorrente, in relazione alle quali il processo sconta la pesante mancanza del cadavere, da cui sovente si traggono spunti per desumere il coefficiente soggettivo e la stessa dinamica del reato, nonché, come vedremo, diventa elemento dominante anche per le prospettive di apertura istruttoria, negate inspiegabilmente facendo leva su di esso.

Può assumere valore, altresì, in una valutazione complessiva e non atomistica degli indizi, puntare sulla presenza di un alibi falso, che allo stato, però, può dirsi configurato solo in parte a carico del ricorrente, essendovi la certezza di un suo comportamento poco trasparente, depistante le indagini, attuato attraverso: l’eliminazione delle microspie delle intercettazioni (delle quali non è ben spiegato precisamente come sia venuto a conoscenza, al di là di un accenno ad un amico carabiniere che, sebbene potrebbe essere assolutamente significativo, qualora venissero superate le incertezze); il tentativo di far credere che la vittima fosse viva e stesse bene, attuato grazie alle due telefonate delle quali si è già detto al par. 2.1. del Ritenuto in fatto, che l’imputato ha evidentemente delegato il fratello M., come risulta da numerosi elementi di prova, questi senza alcun dubbio certi.

Ed è altrettanto certo, in chiave di alibi falso, che l’imputato abbia mentito nelle sommarie informazioni inizialmente rese, quando ha dichiarato di essere rientrato a casa, a Ragusa, dopo la visita alla suocera, mentre invece è stato smentito dalle indagini che hanno provato il posizionamento delle celle telefoniche agganciate dal suo cellulare e da quello del fratello, tracciando un percorso effettuato da Ragusa a San Cono e viceversa, dalle ore 18.28 alle ore 22.29 del giorno dell’omicidio, che le Corti di merito individuano come tragitto seguito al delitto e destinato all’occultamento del cadavere, operazione nella quale l’imputato è stato aiutato, per quanto ricostruito ancora dalle sentenze, da suo fratello M., con il quale risultano plurimi contatti telefonici, ancora una volta acquisiti dai tabulati, ed un incontro nel territorio di San Cono (su questi particolari sono state raccolte precise testimonianze dei testi di polizia giudiziaria).

Un tassello mancante, tuttavia, alla luce delle richieste istruttorie e delle indicazioni fornite dall’imputato, è rappresentato dal negato accertamento circa il fatto che egli si sia recato, piuttosto, su quel tragitto – in cui rientra il paese di Santa Croce di Camerina – per ragioni di lavoro, benché andrebbe tale giustificazione resa compatibile con i successivi orari di spostamento, come risultanti dai tabulati.

La richiesta istruttoria, quale prova d’alibi, non può essere ignorata in un processo come quello in esame, in cui la difficoltà dell’accertamento basato su deduzioni solo logiche ed indiziarie è moltiplicata dal fattore del mancato ritrovamento del cadavere, sicché, prima ancora che della responsabilità dell’imputato, deve logicamente essere ipotizzato, e provato, lo stesso verificarsi di un delitto di omicidio, così come la sua dinamica.

Ed in proposito, si rammenta, in un ulteriore monito rivolto al giudice del rinvio, che, se è vero che l’assenza del cadavere dell’ucciso non impedisce la formazione della prova di omicidio, né incide sul principio di responsabilità (Sez. F., n. 2070 del 3/9/1996, Cucinotta, Rv. 206492; Sez. 1, n. 4494 del 13/12/2007, Cianni, Rv. 239326), tuttavia anche l’evento morte può e deve essere provato mediante indizi gravi, precisi e concordanti ed a tal fine il giudice può tenere conto anche del comportamento “post factum” dell’imputato (Sez. 1, n. 3624 del 12/1/1995, Shoukry, Rv. 201935).

3. Ciò posto, venendo all’analisi degli ulteriori motivi di ricorso, più puntuali nel riferirsi a violazioni di legge, deve evidenziarsi come il primo ed il secondo motivo mettano in risalto alcune evidenti aporie più specifiche della sentenza impugnata e, a tratti, il suo non orientarsi correttamente tra le regole processuali.

Il ricorrente si duole, complessivamente, del mancato confronto in contraddittorio con i testi deceduti ( (omissis), marito della vittima, e (omissis) una testimone che aveva visto l’imputato intorno alle ore 16 viaggiare a bordo del suo furgoncino in Ragusa, da solo e non con a bordo la vittima).

L’eccezione è di per sé infondata su di un piano strettamente giuridico e pur guardando agli invocati principi del fair trial scolpiti nell’art. 6 CEDU, nella lettura che di esso fornisce la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

Ed infatti, costituisce principio consolidato ritenere che le dichiarazioni predibattimentali acquisite ai sensi dell’art. 512 c.p.p. possano costituire, conformemente all’interpretazione espressa dalla Grande Camera della Corte EDU con le sentenze Al Khawaja e Tahery c. Regno Unito 15 dicembre 2011 e Schatschaachwili c. Germania del 15 dicembre 2015, finanche la base “esclusiva e determinante” dell’accertamento di responsabilità, purché rese in presenza di “adeguate garanzie procedurali”, individuabili nell’accurato vaglio di credibilità dei contenuti accusatori, effettuato anche attraverso lo scrutinio delle modalità di raccolta, e nella compatibilità della dichiarazione con i dati di contesto, tra i quali possono rientrare anche le dichiarazioni dei testi indiretti, che hanno percepito in ambiente extra-processuale le dichiarazioni accusatorie della fonte primaria, confermandone in dibattimento la portata (cfr., tra le più recenti, Sez. 2, n. 15942 del 5/2/2020, C., Rv. 279148; Sez. 2, n. 19864 del 17/4/2019, Mellone, Rv. 276531).

In altre parole, l’assenza di contraddittorio, che costituirebbe, secondo l’art. 6 CEDU, un vu/nus per la valenza della prova dichiarativa, può essere superata, nei casi disciplinati degli artt. 512 e 512-bis c.p.p., se controbilanciata da solide garanzie procedurali, individuabili nella esistenza di elementi di riscontro, che corroborino quei contenuti dichiarativi (Sez. 6, n. 50994 del 26/3/2019, D., Rv. 278195).

Come noto, la Corte di Strasburgo, dopo iniziali atteggiamenti di chiusura alla possibilità di fondare il giudizio di responsabilità su dichiarazioni rese in assenza di contraddittorio ed acquisite “cartolarmente” al dibattimento, ha operato un vero e proprio overruling con le due richiamate pronunce, confermate di recente dalla sentenza Lobarev ed altri c. Russia del 28 gennaio 2020, stabilendo la compatibilità con i canoni dell’art. 6 CEDU del suddetto metodo acquisitivo della dichiarazione che sia unica base fondante, o quantomeno elemento determinante, della condanna, qualora dia esito positivo il test operato secondo i seguenti passaggi espressamente indicati:

– se vi sia stato un valido motivo giustificativo dell’assenza del testimone, quale presupposto dell’ammissione come prova delle dichiarazioni non verificate; – se sufficienti fattori compensativi, comprensivi di solide garanzie procedurali, abbiano potuto controbilanciare le difficoltà causate alla difesa in conseguenza dell’ammissione di dette prove, per garantire che il processo, giudicato complessivamente, sia stato equo. Altrettanto evidente, nell’elaborazione giurisprudenziale interna già richiamata, è che il peso dei fattori compensativi necessari affinché il processo sia valutato “equo” è determinato dalla valenza che assumono rispetto al giudizio di responsabilità le dichiarazioni del testimone assente: maggiore è la loro incidenza, tanto più pregnanti devono essere gli elementi compensativi.

3.1. Tanto premesso, nella trama probatoria e processuale in esame, è stata adeguatamente valutata l’utilizzabilità delle dichiarazioni del marito della vittima, (omissis), deceduto nel corso del giudizio, le quali, non rivestendo certo alcun significato decisivo in ordine alla prova del delitto, ma comunque essendo valorizzabili nella sua complessiva struttura indiziaria, hanno trovato sicuri elementi di conforto nei dati di contesto numerosi che sono stati raccolti, nonché nelle altre dichiarazioni testimoniali dei parenti e conoscenti della donna scomparsa, come della stessa collaboratrice domestica dei due anziani coniugi.

Tali dichiarazioni, pertanto, correttamente possono essere utilizzate.

3.2. Parallelamente, deve essere stigmatizzata la scelta di non procedere ad acquisire ed utilizzare, viceversa, le dichiarazioni di (omissis)., una testimone che aveva visto l’imputato intorno alle ore 16 viaggiare a bordo del suo furgoncino in Ragusa, da solo e non con a bordo la vittima, benché la difesa avesse rinunciato (all’udienza del 14.6.2018) al motivo d’appello riferito alla nullità della loro acquisizione, formulato in considerazione del fatto che si tratta di dichiarazioni informalmente rese alla polizia giudiziaria e contenute in una mera relazione di servizio, non trasposte in un verbale di sommarie informazioni formalmente assunto.

In proposito, il Collegio rammenta come, effettivamente, quanto al divieto di testimonianza indiretta degli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria, che dell’art. 195 c.p.p., il comma 4 stabilisce con riguardo al contenuto delle dichiarazioni acquisite da testimoni con le modalità di cui all’art. 351 c.p.p. e art. 357 c.p.p., comma 2, lett. a) e b), le Sezioni Unite abbiano affermato da tempo che esso si riferisce tanto alle dichiarazioni che siano state ritualmente assunte e documentate in applicazione di dette norme, quanto ai casi nei quali la polizia giudiziaria non abbia provveduto alla redazione del relativo verbale, con ciò eludendo proprio le modalità di acquisizione prescritte dalle norme medesime (Sez. U, n. 36747 del 28/5/2003, Torcasio, Rv. 225468), sicché esse non avrebbero potuto essere veicolate attraverso la testimonianza degli agenti che hanno redatto la relazione di servizio.

Tuttavia, è fondamentale ribadire la condivisione di un principio di garanzia dei diritti dell’imputato che travalica le regole di utilizzabilità anch’esse poste a sua tutela.

La sanzione della inutilizzabilità di cui all’art. 191 c.p.p., infatti, è posta a garanzia delle posizioni difensive e colpisce le prove a carico illegittimamente acquisite contro divieti di legge.

Ma tale inutilizzabilità non può essere ritenuta al fine di ignorare un elemento di giudizio favorevole alla difesa che, invece, deve essere considerato e discusso secondo i canoni logico razionali propri del processo (Sez. 2, n. 17694 del 17/1/2018, Zavanese, Rv. 272894, in una fattispecie relativa a dichiarazioni dell’imputato contenute in un verbale di sommarie informazioni assunte quando già questi doveva essere sentito con le garanzie difensive e, dunque, afflitte da inutilizzabilità cd. “patologica”; Sez. 3, n. 19496 del 24/9/2015, dep. 2016, Carambia, Rv. 266792, in una fattispecie in cui la Corte ha ritenuto utilizzabile la corrispondenza epistolare del detenuto acquisita in violazione di legge; Sez. 1, n. 11027 del 26/11/1996, Usai, Rv. 207332).

Tale impostazione logico-giuridica risponde ad esigenze sistematiche, che possono trovare conferma anche in alcune affermazioni che le Sezioni Unite hanno reso in motivazione nella sentenza Sez. U, n. 14800 del 21/12/2017, dep. 2018, Troise, Rv. 272431.

Le Sezioni Unite, in particolare e tra l’altro, hanno segnalato come la previsione dei diritti fondamentali dell’equo processo, così come delineati non solo dalla nostra Costituzione (artt. 25,27 e 111), ma anche dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (artt. 47 e 48) e dalla CEDU (art. 6), si traduce nella creazione di una vasta area di garanzia dei diritti e delle facoltà della persona sottoposta ad un procedimento penale. L’asimmetrica incidenza del principio del ragionevole dubbio, operante in favore del solo imputato, discende dalla scelta del nostro ordinamento costituzionale di delineare il processo penale come strumento di accertamento della colpevolezza e non dell’innocenza, nel senso che è la pubblica accusa a dover provare la responsabilità penale, al di là di ogni ragionevole dubbio, appunto, mentre all’imputato è sufficiente insinuare il dubbio ragionevole, al fine di veder dichiarata la sua innocenza.

Il sistema processuale penale, dunque, è esso stesso a struttura asimmetrica, poiché volto ad assicurare un ambito di tutela anzitutto e prioritariamente a colui il quale sia sottoposto ad un’accusa.

Di conseguenza, si è affermato ancora che il principio costituzionale del contraddittorio non rappresenta una “risorsa” dispensata alle parti allo stesso modo e con la stessa intensità, come dimostra la formulazione dell’art. 111 Cost., comma 5 che prevede il consenso dell’imputato, e non di altri, per la “perdita” di contraddittorio nei casi consentiti dalla legge, con ciò lasciando intendere che la garanzia del contraddittorio nasce e si sviluppa come garanzia in favore dell’imputato (cfr., in tal senso, la sentenza n. 26 del 2007 che ha ammesso la possibilità, in linea teorica e generale, di una distribuzione asimmetrica delle facoltà e dei poteri processuali delle parti, purché compatibili, entro limiti di complessiva ragionevolezza rispetto agli altri valori costituzionali in gioco, con il principio di parità delle parti e con l’ottica del giusto processo).

In tale contesto sistematico deve essere, dunque, definitivamente apprezzata e condivisa la prospettiva ermeneutica di una lettura della sanzione di inutilizzabilità “cedevole” quando confliggente con le garanzie dell’imputato ed il suo diritto ad introdurre nel processo un elemento a suo favore.

Nel caso delle dichiarazioni informalmente rese dalla defunta (omissis), contenute in una relazione di servizio, l’inutilizzabilità che deriverebbe dalla violazione delle regole sulla loro assunzione, dunque, cede il passo di fronte alla esplicita richiesta dell’imputato di acquisirle, evidentemente poiché utili alla sua difesa, ed al principio ermeneutico di civiltà giuridica cui si è poco sopra aderito: una prova, benché inutilizzabile, non può essere ignorata dal giudice se può condurre a risultati favorevoli all’imputato.

Ne’ potrebbe giocare in senso negativo l’osservazione circa la non decisività o neutralità del racconto della testimone deceduta, al fine di provare la presenza della vittima in auto con l’imputato a poca distanza di tempo dal momento in cui ella è stata vista viva in casa con lui, per l’ultima volta, dalla testimone sua collaboratrice domestica. Ed infatti, pur nell’innegabile molteplicità di ipotesi e spiegazioni possibili per tale dato di contesto, anche sfavorevoli al ricorrente ( (omissis) avrebbe potuto essere già stata uccisa nel momento in cui l’imputato fu visto transitare da solo in auto dalla signora Di (omissis)), non vi è dubbio che si possa sostenere, altresì, in chiave difensiva ed all’opposto, che detta circostanza sia un elemento a suo favore, poiché idonea a provare che, subito dopo l’incontro a casa con la scomparsa (omissis), egli sia andato via da solo con la sua auto.

3.3. Altrettanto fondata è l’eccezione relativa alla mancata adesione della Corte d’Appello alla richiesta difensiva di riaprire l’istruttoria dibattimentale per sentire alcune persone (nominativamente indicate all’udienza del 14.6.2018, come risulta anche dalla sentenza impugnata, n.d.r.), sue clienti quale agente di commercio di biancheria e corredi, che avrebbero dovuto testimoniare il fatto di averlo incontrato a Santa Croce di Camerina nel pomeriggio del giorno del delitto per il pagamento di merce acquistata.

In disparte considerazioni di tipo pratico e probabilistico, quali la possibile inutilità dell’esame di detti testimoni, alla luce del lasso di tempo trascorso dai fatti, è indubbia la rilevanza della prova richiesta dal ricorrente, puntualizzata nella memoria difensiva da ultimo depositata: il fatto che egli si sia recato a Santa Croce di Camerina ad incontrare clienti, in un contesto temporale e spaziale omogeneo o comunque compatibile con quello in cui si ritiene che egli, invece, abbia occultato il cadavere della vittima, costituirebbe, infatti, un innegabile punto di debolezza dell’impalcatura di prova della sua colpevolezza e, seppur non si possa ragionare in termini di vero e proprio alibi, in considerazione delle ancora scarne notizie sulla possibile valenza di tali prove, non è possibile negarne l’assoluta necessità nell’ambito di un processo a prova fortemente indiziaria.

Ed ancor più risulta necessario tentare tale rinnovazione istruttoria qualora si prospetti l’esito negativo di essa, quale sconfessione della giustificazione fornita dall’imputato, il quale, al Collegio certo non sfugge, ha reso dichiarazioni contrastanti inizialmente, collocandosi in casa nel pomeriggio del delitto, dopo la visita alla suocera, venendo in ciò suffragato dalle dichiarazioni di moglie e figlio (cui fanno eco quelle della sorella della moglie, la quale ha riferito di aver appreso da quest’ultima che il marito fosse a casa con la figlia piccola nella sera della scomparsa della vittima).

Si rammenta, infatti, che l’alibi falso, cioè quello rivelatosi preordinato e mendace, diversamente da quello non provato, deve essere considerato come un indizio a carico, in quanto è sintomatico del tentativo dell’imputato di sottrarsi all’accertamento della verità (Sez. 5, n. 37317 del 14/6/2019, Capra, Rv. 276647).

Un epilogo, dunque, di tale prova in favore o meno dell’imputato, qualora essa si rivelasse concretamente, in tutto o in parte, esperibile, determinerebbe sicure conseguenze in termini di maggior certezza della direzione da intraprendere per la ricostruzione dell’accaduto, mentre l’indicazione nominativa specifica avrebbe potuto consentire verosimilmente la citazione dei “testimoni d’alibi” (individuati in B.G., + ALTRI OMESSI, che, secondo l’imputato, erano stati già segnalati alla polizia giudiziaria all’epoca delle indagini, senza che venissero svolte indagini).

La motivazione di rigetto dell’istruttoria richiesta, inoltre e soprattutto, si rivela di per sé decisamente illogica, nella parte in cui ritiene che essa avrebbe dovuto essere subordinata alla dimostrazione contabile (per fatture o scontrini fiscali) delle vendite di biancheria realizzate il giorno dell’ipotizzato delitto, dimenticando la frequenza con cui il commercio al dettaglio spesso si svolge al di fuori delle regole fiscali, nonché là dove aggancia la sua non necessità all’esistenza di certezze sul movente economico del delitto, dando per scontato, in maniera apodittica, che l’imputato abbia omesso di consegnare la somma di 46.000 prelevati il giorno prima della scomparsa di D.M.M., e d’altra parte, abbinando due valutazioni del tutto disgiunte l’una dall’altra in senso logico.

3.5. Infine, ulteriore elemento di complessità nell’individuazione della falsità dell’alibi è rappresentato dalla circostanza – contestata come ulteriore eccezione del primo motivo di ricorso – secondo cui sarebbero inutilizzabili proprio le sommarie informazioni testimoniali rese dall’imputato il 23.2.2005; il 25.2.2005 e il 2.5.2005, dalle quali è stato ricavato, mediante l’acquisizione ex art. 513 c.p.p., l’alibi ritenuto falso e posto come pietra d’angolo dell’affermazione di responsabilità in uno con gli ulteriori significativi elementi indiziari già evidenziati (movente, tabulati telefonici, testimonianza della collaboratrice domestica, tentativi di depistaggio delle indagini).

Tutte dette dichiarazioni sono state assunte senza gli avvertimenti e le garanzie descritte dagli artt. 63 e 64 c.p.p. ed è noto che, in tema di prova dichiarativa, allorché venga in rilievo la veste che può assumere il dichiarante al momento in cui le dichiarazioni sono state rese, la condizione di indagato deve essere verificata in termini sostanziali ed al di là del riscontro di indici formali, come l’eventuale già intervenuta iscrizione nominativa nel registro delle notizie di reato (ex multis Sez. U, n. 15208 del 25/2/2010, Mills, Rv. 246584; Sez. 4, n. 46203 del 19/9/2019, Pavone, Rv. 277947).

Orbene, se tali dichiarazioni sono in parte essenziali per la prova dell’alibi falso (essendo la posizione dell’indagato dopo il delitto fondamentale nel tessuto ricostruttivo dei giudici di merito, di cui si è già dato ampiamente conto), deve anzitutto evidenziarsi come, a dispetto di quanto affermato con certezza dalla Corte d’Assise d’Appello, che ha sposato la tesi secondo cui solo dopo il 2-3 marzo 2005 sono giunti elementi investigativi tali da far ritenere che il ricorrente dovesse assumere la posizione di indagato (vedi pag. 22 della sentenza impugnata), effettivamente, in alcuni punti della sentenza di primo grado (cfr. pag. 55) i testi di polizia giudiziaria sembrano ricondurre già al 23 febbraio i sospetti su di lui, che si era presentato alla polizia con il suo autoveicolo perfettamente pulito, in giornate caratterizzate da forte instabilità del tempo, e del quale già era stato scoperto il possibile movente economico, per aver ritirato la somma di 46.000 Euro dal conto della vittima, tanto che fu perquisita la sua abitazione (il ricorrente evidenzia anche come sempre in quelle prime battute investigative fu sequestrato un fazzoletto intriso di sangue, che poi è risultato inutile alle indagini).

Dunque, anche tale aspetto di apparente incoerenza andrà chiarito e risolto, al fine di poter utilizzare pienamente quanto meno le dichiarazioni del 23 e 25 febbraio 2005, ferma l’inutilizzabilità di quelle del maggio successivo, delle quali pure andrà meglio specificata l’irrilevanza, non del tutto chiara dalla sentenza d’appello (a pag. 21 sembra che i giudici facciano riferimento al fatto che siano state utilizzate anche quelle del 2 maggio 2005 e non solo quelle del 23 e 25 febbraio).

4. La sentenza impugnata, pertanto, deve essere annullata, con rinvio per nuovo esame ad altra Sezione della Corte d’Assise d’Appello di Catania, che si pronuncerà su tutte le criticità esaminate dal Collegio, in piena aderenza ai principi ermeneutici indicati, ma con altrettanta ampia libertà del giudice del rinvio di orientarsi nel senso di riproporre l’esito decisorio già adottato ovvero di discostarsene.

Il Collegio rammenta che l’annullamento con rinvio per vizio di motivazione determina una piena riespansione dei poteri accertativi del giudice del rinvio, sicché questi non è obbligato ad esaminare solo i punti specificati nella sentenza rescindente, isolandoli dal residuo materiale probatorio, ma mantiene, nell’ambito del capo colpito dall’annullamento, piena autonomia di giudizio nella ricostruzione del fatto e nella valutazione dei dati, nonché il potere di desumere, anche sulla base di elementi prima trascurati, il proprio libero convincimento, colmando in tal modo i vuoti motivazionali e le incongruenze rilevate, con l’unico limite di non ripetere i vizi già censurati in sede di giudizio rescindente e di conformarsi all’interpretazione ivi data alle questioni di diritto (ex multis Sez. 6, n. 42028 del 4/11/2010, Regine, Rv. 248738; Sez. 5, n. 42814 del 19/6/2014, Cataldo, Rv. 261760; Sez. 3, n. 34794 del 19/5/2017, F., Rv. 271345) Tuttavia, poiché la Corte di cassazione risolve una questione di diritto anche quando giudica sull’adempimento del dovere di motivazione, il giudice del rinvio, pur conservando la libertà di decisione mediante un’autonoma valutazione delle risultanze probatorie relative al punto annullato, è tenuto a giustificare il proprio convincimento secondo lo schema implicitamente o esplicitamente enunciato nella sentenza di annullamento, restando in tal modo vincolato a una determinata valutazione delle risultanze processuali (Sez. 2, n. 45863 del 24/9/2019, Marrini, Rv. 277999; Sez. 5, n. 7567 del 24/9/2012, dep. 2013, Scavetto, Rv. 254830; Sez. 1, n. 7963 del 15/1/2007, Pinto, Rv. 236242).

In conclusione, va sottolineato come compito del giudice di legittimità sia indicare le aporie argomentative senza proporre una propria ricostruzione della vicenda storica e delittuosa ritenuta più plausibile, incorrendosi altrimenti nel rischio di sconfinare in una valutazione di merito di cui è dominus solo il giudice del rinvio, sicché volutamente il Collegio ha inteso disegnare il perimetro del vincolo ex art. 627 c.p.p. avuto riguardo alle sole evidenziazioni di errori metodologici nella lettura della prova e degli indizi presenti nel processo, lasciando libero il giudice del rinvio di analizzare nuovamente la regiudicanda, con l’unico limite di conformarsi all’interpretazione data alle questioni di diritto e di non ripetere i vizi già censurati in sede di giudizio rescindente.

Restano affidati, pertanto, al giudice del rinvio i poteri istruttori e motivazionali pieni che devono guidarlo nella decisione finale secondo il proprio libero convincimento, anche sulla base di elementi sinora trascurati e ferma la possibilità di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale ai sensi dell’art. 603 codice di rito, tenendo presente, ovviamente, come stella polare di ogni valutazione intorno alla responsabilità, il canone dell’affermazione di colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio, ai sensi dell’art. 533 c.p.p..

4.1. L’annullamento della sentenza impugnata non consente di provvedere sulle spese della parte civile.

P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata con rinvio ad altra Sezione della Corte d’Assise d’Appello di Catania per nuovo esame.Così deciso in Roma, il 19 aprile 2021.

Depositato in Cancelleria il 1 luglio 2021

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