Massima

In caso di confisca di prevenzione avente ad oggetto beni ritenuti fittiziamente intestati a un terzo, quest’ultimo può rivendicare esclusivamente l’effettiva titolarità dei beni confiscati, senza poter prospettare l’insussistenza dei presupposti applicativi della misura, quali la condizione di pericolosità, la sproporzione tra il valore del bene confiscato e il reddito dichiarato, nonché la provenienza del bene stesso, in quanto tali doglianze sono deducibili soltanto dal proposto.

Supporto alla lettura

CONFISCA

Si tratta di una misura di sicurezza patrimoniale che consiste nell’espropriazione a favore dello Stato dei beni che servirono o furono destinati a commettere il reato (c.d. mezzi di esecuzione del reato) e delle cose che ne sono il prodotto o il profitto.

L’art. 240 c.p. distingue due tipologie di confisca:

  • facoltativa: ha ad oggetto gli strumenti, il prodotto o il profitto;
  • obbligatoria: ha ad oggetto il prezzo, gli strumenti informatici o telematici utilizzati per la commissione di taluni reati specificatamente indicati, le cose il cui uso o detenzione o porto costituisce reato anche se non c’è stata sentenza di condanna.

La L. 300/2000 ha introdotto un’altra tipologia di confisca c.d. per equivalente (disciplinata dall’art. 322 ter c.p.) che deve essere disposta necessariamente dal giudice in caso di condanna o di sentenza di applicazione di pena ex art. 444 c.p., ma anche nel corso delle indagini preliminari con lo strumento del sequestro preventivo.  A tal proposito, il sequestro preventivo finalizzato alla confisca attualmente opera con una duplice modalità:

  • il sequestro preventivo finalizzato alla confisca diretta, avente ad oggetto i beni costituenti il profitto o il prezzo del reato;
  • il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente (o per valore), che interviene laddove non sia possibile procedere alla confisca diretta e che riguarda i beni di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente al profitto o al prezzo del reato senza che sia necessario provare il nesso

Tuttavia, la confisca, a differenza del sequestro che ha natura cautelare provvisoria, comporta l’ablazione definitiva delle utilità patrimoniali in sequestro, secondo il disposto dell’art. 12 bis D.lgs. 74/2000, ed opera quando il procedimento penale viene definito con sentenza di condanna ovvero con applicazione della pena concordata tra le parti (patteggiamento).

L’ istituto in esame è stato esteso ai reati tributari mediante la legge finanziaria del 2008, e in tema di reati contro la Pubblica Amministrazione fa da modello l’art. 322 ter c.p..

Diverse tipologie di confisca sono previste nel d.lgs. 231/2001 sulla responsabilità amministrativa delle società e degli enti. In questo caso l’istituto della confisca si connota in maniera differenziata a seconda del contesto in cui è chiamato ad operare.

Nella legislazione antimafia la confisca è divenuto lo strumento privilegiato di contrasto alla criminalità organizzata e può suddividersi in:

  • confisca di sicurezza (art. 240 c.p.);
  • confisca sanzionatoria (art. 416 bis comma 7 c.p. e 12 sexies D.l. 306/92 per la persona fisica e artt 19 e 24 ter comma 1 d.lgs. 231/2001 per le persone giuridiche);
  • confisca di prevenzione (art 24 d.lgs. 159/11 recante il nuovo codice antimafia e delle misure di prevenzione).

Un’altra figura di confisca è quella c.d. urbanistica (prevista dall’art. 44 d.P.R. 380/2001) che prevede la confisca obbligatoria di terreni e fabbricati oggetto del reato di lottizzazione abusiva.

La L. 157/2019 ha affiancato alle altre ipotesi di confisca la c.d. confisca allargata (o confisca per sproporzione) a carico di coloro che commettono alcune tipologie di reati fiscali.

Ambito oggettivo di applicazione

Svolgimento del processo

1. La Corte di appello di Bari, con decreto del 9 maggio 2024, confermava il provvedimento del Tribunale di Bari, Sezione misure di prevenzione, che, in data 21 dicembre 2022, aveva disposto, ai sensi dell’art. 18, comma 1, D.Lgs. 6 settembre 2011, n. 159, la confisca dei beni nei confronti del proposto, A.A., nonché dei terzi ritenuti intestatari fittizi, B.B., C.C. e D.D. (rispettivamente moglie, figlia e fratello del proposto), rilevando per il primo la sussistenza della pericolosità ex artt. 1, lett. b), e 4, lett. b) e c), D.Lgs. cit.

2. Avverso il suddetto decreto proponevano ricorso per cassazione, a mezzo dei rispettivi difensori di fiducia e procuratori speciali, A.A., quale proposto, nonché B.B., C.C. e D.D., quali terzi interessati.

3. I motivi dei ricorsi per cassazione saranno enunciati a seguire – nei limiti strettamente necessari per la motivazione – secondo quanto disposto dall’art. 173 disp. att. cod. proc. pen.

4. Il ricorso proposto da A.A. consta di tre motivi.

4.1. Il primo motivo deduce violazione di legge in riferimento agli artt. 1, lett. b), 4, lett. b), 16, 24 e 27 D.Lgs. n. 159 del 2011, 3, 13, 41, 42, 117, comma 1, Cost., 2 Prot. 4 CEDU e 1 Prot. 1 CEDU.

Il ricorrente lamenta che la Corte di appello avrebbe fatto mal governo dei principi fissati con la pronuncia della Corte EDU, 27/02/2017, De Tommaso c. Italia e con la sentenza n. 24 del 2019 della Corte costituzionale. In particolare, non avrebbe tenuto conto che, non essendo la categoria di cui alla lett. b) dell’art. 1 del D.Lgs. cit. sufficientemente “tassativizzata” all’epoca della commissione delle condotte attribuite al proposto (collocate nel periodo 2014-2018), questi non poteva regolare il proprio agire in previsione dell’applicazione della misura di prevenzione, a nulla valendo che il relativo statuto normativo fosse stato, a cagione delle decisioni sopra citate, successivamente integrato con caratteristiche tali da rispettare gli standard qualitativi richiesti dalla Convenzione EDU.

La Corte di appello farebbe improprio riferimento, nel rigettare la censura, a una pronuncia della Corte di cassazione (Sez. 2, n. 25042 del 28/04/2022, Amandonico, Rv. 283559 – 01) secondo cui la Corte costituzionale, con la sentenza n. 24 del 2019, non avrebbe individuato un momento di cesura temporale tra un ipotetico periodo di illegittimità della vigenza della norma di cui all’art. 1, lett. b), D.Lgs. cit. per genericità del precetto ed uno successivo conforme ai principi costituzionali e convenzionali.

In realtà, ad avviso della difesa, Sez. 2, Amandonico, cit., incorre in un errore di interpretazione del percorso argomentativo della sentenza sopra indicata, poiché, in più passaggi della motivazione, la Consulta fa specifico riferimento ad un’originaria imprecisione e genericità del precetto normativo a cui, differentemente dai casi di pericolosità disciplinati dalla lett. a) dell’art. 1 D.Lgs. cit., la giurisprudenza di legittimità ha dato risposte interpretative che hanno consentito di ridefinire in termini di precisione e determinatezza il campo applicativo della norma medesima.

La Corte costituzionale avrebbe evidenziato come tale opera di specificazione e integrazione del precetto si sia definita successivamente alla sentenza della Corte EDU De Tommaso, dando quindi atto che, solo da quel momento in poi, i termini applicativi della fattispecie di pericolosità generica riconducibili alla lett. b) dell’art. 1 D.Lgs. cit. fossero sufficientemente precisi e determinati, conformemente agli standard richiesti dalla Costituzione e dalla CEDU.

Con la conseguenza che ritenere legittima l’applicazione retroattiva dell’interpretazione fornita dalla Corte costituzionale, basata sulla c.d. giurisprudenza “tassativizzante”, all’ipotesi di pericolosità generica in discorso, comporterebbe l’applicazione di una norma che, nel momento in cui si sono espresse le manifestazioni ritenute sintomatiche della pericolosità sociale del proposto, non rispettava i livelli qualitativi minimi per la compressione dei diritti fondamentali della persona.

Avallare il criterio dell’applicazione retroattiva dell’interpretazione fornita dalla Consulta creerebbe un’illegittima disparità di trattamento dei cittadini dinanzi alla legge, in considerazione della circostanza che tutti coloro i quali abbiano subito l’applicazione di una misura di prevenzione per fatti commessi antecedentemente agli anni 2016-2017 non avevano accesso ad una normativa specifica e determinata che potesse orientare le loro condotte al fine di evitarne la sottoposizione allo statuto de quo, a differenza di quelli che, invece, successivamente a questo periodo, hanno avuto ben chiari i parametri normativi sulla cui scorta è possibile valutare in concreto la sussistenza della pericolosità sociale.

Tale censura risulterebbe decisiva e destrutturante rispetto al decreto impugnato, a nulla valendo il richiamo operato dalla Corte di merito anche alla pericolosità qualificata del ricorrente ex art. 4, lett. b), D.Lgs. cit., in quanto il riferimento al delitto – pure attribuito al ricorrente – rientrante nel catalogo di quelli di cui all’art. 51 comma 3-bis, cod. proc. pen., doveva intendersi unicamente volto a rafforzare il giudizio espresso sulla pericolosità generica e non ad attribuire a quel fatto valore di unico presupposto sufficiente per fondare un valido giudizio di pericolosità qualificata.

4.2. Il secondo motivo reitera la censura di violazione di legge in ordine alle norme indicate con il primo motivo, anche con riferimento agli artt. 4, lett. c), D.Lgs. n. 159 del 2011 e 125, comma 3, cod. proc. pen.

Il ricorrente lamenta che la Corte di appello, sottolineando l’autonomia del giudizio di prevenzione rispetto a quello di cognizione, non avrebbe valutato l’assenza di sentenza di condanna in ordine ai fatti – relativi a reati ed. lucro genetici – indicati come integranti la pericolosità ex artt. 4, lett. c) e 1, lett. b), D.Lgs. cit., e l’esistenza di una sola condanna in ordine ai reati di ricettazione e detenzione di arma comune da sparo (la prima definitiva e l’altra ancora pendente).

La Corte territoriale avrebbe disatteso il principio per cui, per la pericolosità generica, a differenza di quella qualificata, è richiesto che gli elementi di fatto non si debbano risolvere in meri indizi, né in emergenze tratte da sentenze di proscioglimento, bensì debbano scaturire da provvedimenti che accertino la sussistenza del fatto e la sua attribuibilità al proposto, anche se ne sia seguito il proscioglimento per cause estintive del reato.

Inoltre, difetterebbe nel decreto impugnato anche un’adeguata valutazione quanto alla abitualità richiesta dalla lett. b) dell’art. 1 D.Lgs. cit., alla natura lucro genetica dei delitti e alla correlazione della pericolosità con gli acquisti dei beni oggetto di ablazione. La Corte di appello non avrebbe considerato che le condotte si limitano all’arco temporale, circoscritto, relativo agli anni 2014-2018, cosicché non è provata la dedizione abituale. Una sola è la sentenza di condanna irrevocabile che ha riguardato il proposto, di scarsa rilevanza lucro genetica.

Per altro verso, si lamenta l’illegittimità del decreto impugnato laddove ha ritenuto corretta la valutazione del Tribunale di collocare il profilo soggettivo del A.A. anche nella categoria personologica di pericolosità di cui all’art. 4, lett. b), D.Lgs. cit., in ragione della pendenza del procedimento di tentata estorsione aggravata dalla metodologia mafiosa, non sfociato in alcuna condanna, e arrestatosi alla sola forma tentata, in quanto è indispensabile che le condotte abbiano prodotto profitto.

A tale proposito, non sarebbe rilevante l’analisi dell’attendibilità della persona offesa – operata in proprio dalla Corte territoriale facendo riferimento agli esiti del giudizio abbreviato che ha riguardato altri imputati, e non all’istruttoria dibattimentale in corso riguardo al proposto – per giunta in difetto di misura cautelare personale.

Infine, viene anche denunciato il difetto di correlazione fra la proposta, avanzata solo per la pericolosità generica, e la decisione che ha riguardato sia quest’ultima che la pericolosità qualificata.

4.3. Il terzo motivo deduce violazione di legge in relazione agli artt. 24 e 26 D.Lgs. n. 159 del 2011 e 125, comma 3, cod. proc. pen.

Il ricorrente lamenta che quanto alle due unità immobiliari confiscate, ubicate in P alla via (Omissis), (un appartamento e un box), entrate nella disponibilità dei coniugi A.A.-B.B. ben prima del periodo di pericolosità, che aveva inizio nel 2014, la Corte di appello non avrebbe verificato se le rate del mutuo in tale periodo fossero o meno sostenibili in base alle disponibilità familiari, limitandosi ad affermare che le stesse – versate a seguito della rinegoziazione da parte di B.B., coniuge del proposto – risultavano ammontare a un importo complessivo maggiore rispetto a quelle versate prima del 2014.

Tale affermazione risulterebbe non corretta, per quanto argomentato dal consulente di parte, con il cui elaborato il decreto non si confronterebbe, in quanto non ha verificato se l’importo delle rate di mutuo corrisposte nel periodo di pericolosità, circoscritto dal 2014 al 2018, risultasse congruo rispetto ai redditi familiari leciti.

Infine, si era pervenuti alla confisca delle due unità immobiliari in presenza di un versamento di somme di denaro nel periodo di pericolosità sociale nettamente inferiore rispetto a quello che era stato già corrisposto nel periodo di non pericolosità.

5. I ricorsi, proposti con unico atto, nell’interesse di D.D. e C.C. constano di dieci motivi.

5.1. Il primo motivo lamenta violazione di legge e motivazione assente e/o apparente quanto alle società oggetto di confisca “G.G.S. Srl” e “R. Srl”, relativamente a D.D.

La Corte di appello non avrebbe valutato le doglianze difensive in ordine alla circostanza che le società avevano acquisito gli immobili confiscati grazie alla produzione di reddito proprio, non dovendo ricorrere a quello prodotto dal proposto. Di conseguenza non era affatto distonico il dato costituito dalla sproporzione registrata tra l’utile di bilancio (non elevato) e il valore dei beni acquistati dalla società “G.G.S. Srl”, tenuto conto che il denaro guadagnato veniva immediatamente reinvestito nell’acquisto di ulteriori beni, in conformità con l’oggetto sociale.

5.2. Il secondo motivo lamenta violazione di legge e nullità e/o inesistenza della motivazione quanto alla pericolosità del proposto e alla sua attualità. La costituzione della società “(omissis) Srl” avveniva il 4 settembre 2013, quindi prima del periodo di ritenuta pericolosità, al pari della costituzione della “G.G.S. Srl” (16 maggio 2013), quest’ultima fondata da soci diversi dal proposto.

Il decreto impugnato risulterebbe, quindi, viziato, in quanto dalle indagini emergeva che i soci fondatori delle società avevano la disponibilità finanziaria per la costituzione delle società, non potendo quindi essere ritenuti intestatari fittizi del proposto.

5.3. Il terzo motivo lamenta violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla “G.G.S. Srl”

I ricorrenti rappresentano che D.D., socio fondatore della società a seguito del versamento di Euro 9.500,00 – mentre il proposto A.A. aveva versato Euro 500,00 – risultava tutt’altro che un intestatario fittizio, in quanto incapace e incompetente, essendo invece gestore di imprese dal 2011 al 2015, poi dal 2016, quanto a una impresa ancora attiva, nonché gestore di un’attività di rivendita di veicoli dal 2015 al 2018, attività tutte che lo rendevano produttore di reddito lecito, peraltro tratto anche dalla pensione dei genitori e della moglie.

Anche D.D., acquistata la quota del D.D. nella società il 6 settembre 2017, divenendo titolare del 100% del capitale, risultava produttore di redditi quale dipendente della SOGET e, a seguire, della “R. Srl”, sia quale dipendente sia perché rappresentante legale.

Si lamenta, poi, che la sorte della “G.G.S. Srl”, al pari della “R. Srl” – confiscate – risulterebbe irragionevolmente diversa rispetto a quella della “Immobiliare E.E. Srl”, rimasta estranea ad ogni misura, analogamente costituita prima del 2011 – quindi anteriore al periodo di pericolosità – e con capitale interamente versato, requisiti condivisi anche dalle due società sottoposte a misura ablatoria.

E per la “R. Srl” si lamenta che l’omesso completo versamento del capitale (euro 2.500,00 a fronte di Euro 10.000,00) non poteva assurgere a prova della riconducibilità della stessa al proposto.

5.4. Il quarto motivo denuncia violazione di legge e assenza di motivazione quanto alla confisca dei beni intestati a C.C., figlia del proposto (appartamento e un box siti in T alla via (omissis)).

La Corte di appello avrebbe ignorato i motivi di impugnazione, a cominciare dalla circostanza che l’immobile in T era stato acquisito a seguito di vendita dalla zia F.F. (nel febbraio 2016), che a sua volta l’aveva acquistato nel 2008. Non sarebbe spiegato come tale bene sia nella disponibilità effettiva di A.A.

5.5. Il quinto motivo lamenta violazione di legge e vizio dì motivazione sempre in relazione a C.C. (figlia del proposto), in quanto la confisca dell’appartamento in Torremaggiore veniva motivata solo in ragione della paternità del proposto, trascurando che ella acquistò il 18 febbraio 2016 l’immobile dalla zia F.F. per Euro 88.000,00, accollandosi il mutuo acceso dalla venditrice, ancora attivo, pari ad oltre Euro 86.000,00, e che la venditrice l’aveva in precedenza acquistato nel 2008. Il motivo censura in realtà l’argomento che il mutuo non fu mai effettivamente oggetto di accollo e, dunque, fosse la spia di una condotta fraudolenta in favore del proposto: le rate, osserva la ricorrente, furono sempre e comunque pagate – anche dopo il proprio acquisto – dagli zii F.F. e D.D. per Euro 571,00 al mese, con l’intento di favorire la nipote.

Inoltre, si deduce l’assenza di elementi dimostrativi della riconducibilità del bene alle risorse illecite del proposto.

5.6. Il sesto motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alle disponibilità economiche di D.D. e F.F. A.A. adeguate a sostenere il mutuo dell’abitazione ceduta alla nipote, non risultando neanche accertato in che misura i ratei fossero corrisposti dall’uno o dall’altra.

5.7. Il settimo motivo lamenta violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli accertamenti investigativi inerenti a C.C., avendo omesso la Corte di merito di tenere conto che l’immobile, per come evidenziato anche dal Pubblico ministero, era stato locato, a dimostrazione che la terza intestataria era percettrice di redditi leciti.

5.8. L’ottavo motivo denuncia violazione di legge e vizio di motivazione quanto all’assenza di una rigorosa dimostrazione della disponibilità diretta o indiretta, in capo al proposto, dei beni della società “G.G.S. Srl”, ravvisandosi la non applicabilità della presunzione di fittizietà nel caso in esame, in caso di intestazione a congiunti, in quanto si tratta di acquisizioni anteriori al biennio.

Né risulterebbe decisivo che nella disponibilità del proposto sia stata trovata una carta bancomat, intestata alla società, del cui utilizzo da parte di A.A. non vi era prova alcuna e non risultando adeguatamente provato che un acquisto effettuato in Chieti fosse al medesimo riconducibile, al pari di altro effettuato in Foggia riferibile invece a tale D.D.

5.9. Il nono motivo lamenta violazione di legge e vizio di motivazione relativamente agli immobili acquisiti dalla “G.G.S. Srl” il 15 luglio 2015 in S, al prezzo di Euro 100.000,00 e in R, il 27 luglio 2015, per circa Euro 94.000,00, non sussistendo la prova che il proposto abbia reimpiegato il denaro di provenienza illecita nella società.

5.10. Il decimo motivo denuncia violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla “R. Srl”, ritenendosi non veritiere e non adeguate le dichiarazioni in forza delle quali i giudici della prevenzione sono giunti a comprovare la disponibilità sostanziale della società da parte del proposto, potendosi rappresentare differenti esiti ricostruttivi.

6. Il ricorso proposto nell’interesse di B.B., coniuge del proposto A.A., consta di tre motivi.

6.1. La prima censura reitera le doglianze mosse con il primo motivo del ricorso nell’interesse di A.A., a cui pertanto deve farsi integrale richiamo, aggiungendo che il profilo con cui si contesta la ricorrenza dei presupposti soggettivi per l’applicazione della misura di prevenzione, essendo la pericolosità perimetrata “ora per allora”, va a riflettersi anche sull’interesse della ricorrente alla restituzione dei beni.

6.2. Il secondo motivo lamenta violazione di legge in ordine alla dimostrazione, in capo al proposto, della disponibilità dei beni per i quali è stata disposta la confisca e sulla corretta perimetrazione temporale della presunzione di fittizietà di cui all’art. 26, comma 2, D.Lgs. cit.

La Corte di appello avrebbe del tutto omesso di valutare i motivi di appello, come pure non si sarebbe confrontata con la circostanza che la presunzione di fittizietà – ex art. 26, comma 2, D.Lgs. cit. – risulta non operante nel caso di specie, in quanto i beni intestatati alla B.B. furono acquisiti ben prima del biennio anteriore al perìodo di pericolosità, né risultano adeguatamente motivati il periodo di effettiva convivenza della terza con il proposto, la riconducibilità degli acquisti al periodo di pericolosità e di convivenza, nonché l’assenza di adeguata capacità economica, elementi rilevanti ai sensi dell’art. 19, comma 3, D.Lgs. cit.

6.3. Il terzo motivo deduce violazione di legge, rappresentando come l’anteriorità dell’acquisto degli immobili in Pescara – rispetto al periodo di pericolosità (circoscritto dal 2014 al 2018) – e l’accensione di un mutuo avrebbero richiesto di verificare soltanto se le singole rate da corrispondere fossero o meno di importo tale da trovare giustificazione nella disponibilità finanziaria del nucleo familiare A.A. – B.B., considerando, altresì, che l’importo della rata di mutuo oggetto della rinegoziazione da parte della ricorrente era inferiore rispetto a quella in precedenza stabilita. Il giudice della prevenzione era, invece, pervenuto ad una confisca delle intere unità immobiliari in presenza di versamenti nel periodo di pericolosità sociale nettamente inferiori rispetto a quelli che erano stati corrisposti nel periodo di non pericolosità.

7. Il ricorso è stato assegnato alla Quinta sezione che, con ordinanza del 07/11/2024, ne ha disposto la rimessione alle Sezioni unite ai sensi dell’art. 618, comma 1, cod. proc. pen., rilevando un contrasto giurisprudenziale in ordine alla legittimità del terzo intestatario a far valere con l’impugnazione anche l’insussistenza dei presupposti per l’applicazione della misura nei confronti del proposto.

In particolare, la Sezione rimettente ha evidenziato come all’orientamento maggioritario – secondo cui il terzo può rivendicare esclusivamente l’effettività titolarità e la proprietà dei beni sottoposti a vincolo, mentre non è legittimato a proporre questioni relative all’applicazione della misura nei confronti del proposto – se ne contrappongono altri due, uno minoritario che riconosce tale più ampia legittimazione ed altro ancora, definito “intermedio”, che consente al terzo di contestare il profilo della perimetrazione temporale dell’acquisto del bene ovvero i presupposti oggettivi della confisca di prevenzione.

8. Con decreto del 3 dicembre 2024, la Prima Presidente ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite penali, fissandone la trattazione per l’odierna udienza camerale.

9. Con requisitoria depositata il 4 marzo 2025, la Procura generale ha illustrato le sue conclusioni adesive all’indirizzo che riconosce al terzo di censurare anche gli altri presupposti della misura ablatoria, ossia la pericolosità sociale del proposto e la provenienza illecita dei beni, in quanto ritenuto di maggiore coerenza interna e aderente ai principi fondamentali dell’effettività della difesa e del giusto processo, sanciti dalla Costituzione e dal diritto europeo. Ha, poi, concluso per il rigetto dei ricorsi, richiamando il contenuto della requisitoria scritta resa dinanzi alla Sezione rimettente.

Motivi della decisione

1. La questione di diritto per la quale il ricorso è stato rimesso alle Sezioni unite è la seguente: “Se, in caso di confisca di prevenzione avente ad oggetto beni ritenuti fittiziamente intestati a un terzo, quest’ultimo possa rivendicare esclusivamente l’effettiva titolarità e la proprietà dei beni confiscati ovvero sia legittimato a contestare anche i presupposti per l’applicazione della misura, quali la condizione di pericolosità, la sproporzione fra il valore del bene confiscato e il reddito dichiarato, nonché la provenienza del bene stesso”.

2. Il tema è rilevante in questa sede, poiché la terza interessata B.B., con il primo motivo di ricorso, ha dedotto in ordine alla legittimità dei requisiti fondanti la pericolosità sociale del proposto, rappresentando di avere interesse all’accoglimento della censura da cui deriverebbe la restituzione dei beni confiscati. Anche dalla lettura dei motivi di ricorso di D.D. e C.C.

(il secondo e l’ottavo) emergono profili di doglianza inerenti ai presupposti della confisca.

3. Come evidenziato dall’ordinanza di rimessione, si contrappongono in materia diversi orientamenti.

4. Il primo indirizzo, maggioritario, assume che il terzo possa solo rivendicare l’effettiva titolarità e la proprietà dei beni sottoposti a vincolo, assolvendo al relativo onere di allegazione, mentre non è legittimato a proporre qualsivoglia questione relativa ai presupposti per l’applicazione della misura nei confronti del proposto, quali la condizione di pericolosità dello stesso, la sproporzione fra il valore del bene confiscato ed il reddito dichiarato, nonché la provenienza del bene stesso, trattandosi di doglianze che solo il proposto può avere interesse a far valere (in questo senso, fra le molte altre, Sez. 2, n. 20193 del 19/04/2024, Granato, Rv. 286441 – 01; Sez. 1, n. 35669 del 11/05/2023, Jelmoni, Rv. 285202 – 01; Sez. 5, n. 333 del 20/11/2020, dep. 2021, leardi, Rv. 280249 – 01; Sez. 6, n. 7469 del 4/6/2019, dep. 2020, Hudorovic, Rv. 278454 – 03; Sez. 2, n. 31549 del 6/6/2019, Simply soc. coop., Rv. 277225 – 04; Sez. 5, n. 8922 del 26/10/2015, dep. 2016, Poli, Rv. 266141 – 01; da ultimo, Sez. 5, n. 4946 del 29/10/2024, dep. 2025, Abbate, non mass.).

Sez. 2, Granato, cit., muove dalla considerazione che il terzo intestatario può ottenere il più favorevole dei risultati e, cioè, la revoca della confisca, solo dimostrando che la titolarità del bene è reale e non meramente fittizia. Fornita la prova di tale dato, per il terzo sono del tutto indifferenti le sorti della misura di prevenzione – personale e reale – disposta nei confronti del proposto, proprio perché si tratta di una vicenda processuale inidonea a produrre effetti negativi nei suoi confronti.

In sostanza, il terzo sarebbe portatore di un mero interesse di fatto all’esito della procedura che, tuttavia, non può costituire il fondamento della legittimazione processuale, individuabile solo a fronte di un interesse giuridicamente tutelato.

Ammettere la possibilità che il terzo intestatario possa contestare i presupposti applicativi della misura si tradurrebbe in una lesione del fondamentale principio secondo cui la legittimazione ad agire deve essere identificata in relazione alla titolarità del diritto oggetto del giudizio, non potendosi consentire al terzo di farsi latore di una sorta di intervento ad adiuvandum in favore del proposto.

Tale orientamento si confronta anche con l’opposta tesi, per la quale l’interposizione fittizia, riconducibile all’istituto civilistico della simulazione relativa del contratto, non individua di per sé una condotta illecita. Al riguardo, si sottolinea come proprio la disciplina dettata dall’art. 1414 cod. civ. preveda che, se le parti hanno inteso concludere un contratto diverso da quello apparente, tra le stesse ha effetto il contratto dissimulato. Ne consegue che, nei rapporti interni tra terzo simulato proprietario e reale titolare del bene, prevale non già il dato formale insito nella fittizia intestazione, bensì il dato reale. Il che, riportando il tutto nell’ambito di interesse delle misure di prevenzione, determina che l’unico soggetto legittimato a chiedere la restituzione del bene – anche nell’ambito del rapporto interno con il fittizio intestatario – è il titolare reale dello stesso, non potendo il terzo agire in giudizio per far valere quello che è un diritto altrui.

Altre pronunce (Sez. 6, n. 17519 del 27/02/2024, Ingrassia, Rv. 286418 -01) si soffermano sulla nozione di interesse ad impugnare nel procedimento penale. In proposito si sottolinea che, a differenza di quanto accade per le impugnazioni civili, che presuppongono un processo di tipo contenzioso, “l’interesse in sede penale non è basato sul concetto di soccombenza, quanto, piuttosto, su una prospettiva utilitaristica, consistente nella finalità negativa, perseguita dal soggetto legittimato, di rimuovere una situazione di svantaggio processuale derivante da una decisione giudiziale, e in quella, positiva, del conseguimento di un’utilità, ossia di una decisione più vantaggiosa rispetto a quella oggetto del gravame, e che risulti logicamente coerente con il sistema normativo (Sez. U, n. 6624 del 27/10/2011, dep. 2012, Marinaj, Rv. 251693 – 01; Sez. U, n. 42 del 03/12/1995, dep. 1996, Timpani, Rv. 203093 – 01)”.

Da ciò conseguirebbe il limite ai temi deducibili dal terzo, in quanto l’unico aspetto del contendere che lo coinvolge direttamente attiene alla confutazione della sostanziale disponibilità del bene da parte del proposto (Sez. 6, n. 5094 del 09/01/2024, Grizzaffi, Rv. 286058 – 01, par. 3).

A sostegno di tale orientamento è stato anche rilevato (Sez. 5, n. 333 del 20/11/2020, dep. 2021, leardi, Rv. 280249 – 01) come lo stesso risulti conforme ai principi generali che regolano i requisiti di ammissibilità delle impugnazioni: ai sensi dell’art. 591, comma 1, lett. a), cod. proc. pen. l’impugnazione è inammissibile quando è proposta da chi “(…) non ha interesse”. L’interpretazione sistematica di tale disposizione, coordinata con le norme che disciplinano le impugnazioni in materia di misure di prevenzione (artt. 10 e 27 D.Lgs. n. 159 del 2011), implica l’esistenza di un interesse concreto che sussiste solo in relazione alla contestazione della fittizietà dell’intestazione, atteso che, in caso di accoglimento, la restituzione dei beni non spetterebbe al proposto, bensì al terzo intestatario.

Tale conclusione non viene inficiata – osserva Sez. 5, leardi – dalle previsioni dell’art. 18, commi 2 e 3, D.Lgs. cit., secondo cui, in caso di morte del proposto, “il procedimento prosegue nei confronti degli eredi o comunque degli aventi causa” (art. 18, comma 2) e la richiesta può essere proposta “nei riguardi dei successori a titolo universale o particolare” (art. 18, comma 3). Oltre al fatto che le richiamate disposizioni hanno carattere speciale “insuscettibile di interpretazione estensiva”, si rileva che l’interesse dei terzi intestatari a censurare anche i profili inerenti ai presupposti oggettivi e soggettivi della misura si lega, per un verso, all’impossibilità del proposto di difendersi e, per altro, alla particolare qualità da essi rivestita.

Sez. 1, Jelmoni, cit., a sua volta, sottolinea come la carenza di interesse del terzo intestatario, che abbia dedotto anche l’insussistenza dei presupposti per l’applicazione della misura nei confronti del proposto, emergerebbe in ogni caso ove, affrontando le questioni dal terzo proposte in ordine logico, risultasse in giudizio la fittizietà della titolarità dei beni: in sostanza, stabilita nei suoi confronti la estraneità alla proprietà dei beni, la delibazione delle ulteriori questioni non potrebbe avere per lui utilità concreta. In mancanza di prova dell’effettiva titolarità del bene, ove pure venisse accolto il ricorso del terzo avente ad oggetto i presupposti soggettivi e oggettivi della misura personale e patrimoniale, la conseguenza sarebbe la revoca della confisca, con restituzione al soggetto ritenuto effettivo titolare, vale a dire il proposto. Ne conseguirebbe che il terzo non otterrebbe alcun risultato concretamente utile.

D’altro canto, in modo simmetrico, si osserva che è stato ritenuto inammissibile per carenza di interesse il ricorso per cassazione del proposto che si limiti a dedurre l’insussistenza del rapporto fiduciario e, quindi, la titolarità effettiva del bene in capo al terzo intestatario, mentre è stato ritenuto ammissibile il ricorso, sempre del proposto, che, senza negare l’esistenza del rapporto fiduciario, alleghi di aver acquistato i beni lecitamente, essendo portatore, in questo caso, di un interesse proprio all’ottenimento di una pronuncia che accerti la mancanza delle condizioni legittimanti l’applicazione del provvedimento (Sez. 6, n. 40176 del 17/09/2024, Salerno, non mass.; Sez. 1, n. 20717 del 21/01/2021, Loiero, Rv. 281389 – 01; Sez. 1, n. 50463 del 15/06/2017, Mangione, Rv. 271822 – 01; Sez. 5, n. 8922 del 26/10/2015, dep. 2016, Poli, Rv. 266141 – 01; Sez. 6, n. 48247 del 01/12/2015, Vicario, Rv. 265767 – 01).

5. Il secondo orientamento minoritario sostiene che, in tema di confisca di prevenzione, il terzo che rivendica l’effettiva titolarità e la proprietà dei beni oggetto di vincolo è legittimato e ha interesse non solo a contestare la fittizietà dell’intestazione, ma anche a far valere l’insussistenza dei presupposti per l’applicazione della misura nei confronti del proposto.

Così si è espressa Sez. 1, n. 20717 del 21/01/2021, Loiero, non mass, sul punto, che ha ravvisato l’interesse a ricorrere del terzo interessato allorché l’impugnazione sia concretamente idonea a determinare, con l’eliminazione del provvedimento impugnato, una situazione pratica più favorevole per l’impugnante. Tale nozione, osserva Sez. 1 Loiero, trova origine in Sez. U, n. 28911 del 28/03/2019, Massaria, Rv. 275953 – 02, che hanno chiarito come la sussistenza dell’interesse ad impugnare debba fondarsi sulla prospettazione contenuta nel mezzo di impugnazione e non sull’effettiva fondatezza della pretesa azionata.

Nel caso esaminato da Sez. 1, Loiero, cit., il terzo interessato rivendicava l’effettiva “contitolarità” dei beni sequestrati, oltre a contestare la sussistenza dei presupposti per l’applicazione della misura di prevenzione nei confronti del proposto, dal che la ritenuta legittimazione ad impugnare, in ragione dell’orientamento, condiviso dalla pronuncia in esame, iniziato da Sez. 5, n. 12374 del 14/12/2017, dep. 2018, La Porta, Rv. 272608 – 01 (nello stesso senso, Sez. 5, n. 10407 del 12/12/2018, dep. 2019, Rispoli, non mass.).

Tale ultima decisione ha sottolineato la specificità delle misure di prevenzione rispetto al sequestro e alla confisca penale e ha ritenuto che il terzo possa contestare l’esistenza dei presupposti per l’adozione della misura di prevenzione nei confronti del proposto, sia quello soggettivo della pericolosità sociale, sia quello oggettivo inerente alla sproporzione di valore fra i beni e la capacità economica di fonte lecita o all’omessa valutazione della lecita provenienza delle risorse impiegate per l’acquisto del bene.

La sentenza in esame ha, quindi, riconosciuto la sussistenza di un interesse del terzo a censurare i presupposti oggettivi e soggettivi della misura di prevenzione, sempre che vi sia, però, la contestuale rivendicazione della proprietà dei beni e la contestazione della loro fittizia intestazione.

Si osserva, quindi, che l’orientamento interpretativo prevalente “risentirebbe di una considerazione ex post della sorte dei motivi di impugnazione secundum eventum litis, che invece debbono essere valutati ex ante nella loro attitudine distruttiva della pretesa fatta valere, e che quindi, nel rispetto del fondamentale diritto di difesa, possono essere anche articolati su piani concorrenti e/o graduati”.

La medesima sentenza si è soffermata sull’atto simulato. In proposito argomenta che non si può ritenere che l’intestazione simulata di un bene costituisca di per sé una situazione illecita, se non è preordinata al conseguimento di fini contrari alla legge, se il reale proprietario dissimulato non è un soggetto socialmente pericoloso o autore di gravi delitti e se i beni non hanno provenienza illecita, come del resto conferma la disciplina civilistica della simulazione ex artt. 1414 e ss. cod. civ.

Da ultimo, sposa l’orientamento minoritario anche Sez. 6, n. 45849 del 30/10/2024, Iacovelli, non mass., secondo cui comprimere la facoltà del terzo di contrastare i presupposti soggettivi della misura che incidono, significativamente, sul diritto di proprietà si pone in contrasto con il rispetto del principio del contraddittorio, elevato a principio cardine di ogni processo dagli artt. 6 CEDU e 111 Cost., e con l’osservanza delle garanzie da riconoscersi al diritto di difesa, in tutte le possibili estrinsecazioni. A supporto di tali conclusioni, la decisione richiama anche la recente Direttiva 2024/1260/UE, che si occupa, in più punti, della posizione dei terzi, prevedendo che ne vengano garantiti i diritti di difesa.

6. Un terzo orientamento, che può ritenersi intermedio, prevede due diverse declinazioni, che si sono progressivamente evolute.

6.1 La prima, espressa da Sez. 5, n. 8984 del 19/01/2022, Celentano (non mass, sul punto e che richiama Sez. 1, n. 13375 del 20/09/2017, dep. 2018, Brussolo, Rv. 272703 – 01), ritenuta dall’ordinanza di rimessione più vicina all’orientamento maggioritario perché comunque “a maglie strette”, consente al terzo di interloquire sulla confiscabilità del bene solo con riferimento alla “perimetrazione temporale della pericolosità del proposto, quando il bene confiscato fuoriesca da essa, nelle misure di prevenzione, o esorbiti il canone della ragionevolezza, nella confisca c.d. allargata, ai sensi dell’art. 240-bis cod. pen.”

Si ritiene, pertanto, che il terzo intestatario possa “essere ammesso a documentare la datazione del suo acquisto per espungerla dall’area temporale della pericolosità del proposto; pericolosità che, dunque, viene in esame soltanto in via mediata e non già come motivo principale di censura consentito al ricorrente che sia terzo intestatario fittizio”.

In termini si sono espresse anche Sez. 1, n. 12478 del 21/11/2023, dep. 2024, Penzo, non mass., sia pure in forma di obiter, e Sez. 5, n. 513 del 14/10/2022, dep. 2023, Brandimarte, non mass., che tende a favorire l’accettazione del nuovo orientamento, prospettandolo quale “più recente e condivisibile lettura della (…) linea interpretativa maggioritaria”.

6.2 La seconda declinazione riconosce l’interesse del terzo a censurare i presupposti oggettivi della confisca di prevenzione, escludendo solo quelli soggettivi, riguardanti la pericolosità sociale del proposto.

Si colloca in quest’ambito, Sez. 1, n. 19094 del 15/12/2020, dep. 2021, Flauto, Rv. 281362 – 01 – in tema di confisca ex art. 240-ó/s cod. pen., ma i cui argomenti sono estesi alle misure di prevenzione -, secondo cui il terzo intestatario del bene aggredito è legittimato a contestare, oltre la fittizietà dell’intestazione, anche la mancanza dei presupposti legali per la confisca, tra cui la ragionevole distanza temporale tra acquisto del bene e commissione del reato che legittima l’ablazione.

La pronuncia – che riguardava, in fase di esecuzione, la sola doglianza del terzo rimasto estraneo alla fase di cognizione – richiama, anzitutto, il principio di effettività della tutela giurisdizionale da assicurare al terzo, sancito dalle fonti convenzionali e costituzionali, a fronte di procedure tese alla ablazione della proprietà. Si osserva come sia da evitare il frazionamento delle facoltà difensive, limitando quelle del terzo alla sola possibilità di introdurre elementi tesi ad incrinare la prospettata fittizietà della intestazione del bene, e sia, invece, necessario ammettere le doglianze rivolte a contestare i presupposti oggettivi della confisca. Per la sentenza in esame, quindi, il terzo deve poter contestare i presupposti oggettivi della confisca, quand’anche gli stessi siano già stati oggetto di contraddittorio su impulso dell’imputato/proposto, poiché altrimenti si finirebbe col presumere la fittizietà della titolarità, invero non ancora definitivamente accertata.

D’altra parte, osserva Sez. 1, Flauto, l’effettività della tutela giurisdizionale del terzo non può spingersi, con riguardo alle misure di prevenzione, fino a consentire il sindacato sulla pericolosità sociale del proposto, trattandosi di diritto di difesa esclusivo di tale ultimo soggetto, con esclusione dei casi di decesso del proposto (in termini, Sez. 6, n. 39228 del 16/09/2024, Britti, non mass.).

Aderisce a questa stessa impostazione, sempre in un caso di incidente di esecuzione promosso dal terzo rimasto estraneo al giudizio di cognizione, anche Sez. 2, n. 25529 del 03/06/2022, Gatto, non. mass., la quale pone, però, l’attenzione non sulla perimetrazione temporale della pericolosità del proposto, bensì sulla ritenuta sproporzione valoriale tra capacità finanziarie e investimenti, ferma restando la titolarità del diritto di difesa sul fatto di reato o sulla condizione di pericolosità esclusivamente in capo all’accusato e non a soggetti diversi.

Nella medesima prospettiva volta a riconoscere al terzo intestatario la possibilità di contestare, quanto meno, i presupposti oggettivi della confisca di prevenzione, pare porsi anche l’ordinanza di rimessione che richiama, al riguardo, l’ambito normativo unionale, disciplinato dalla Direttiva 2014/42/UE e, più di recente, dalla Direttiva 2024/1260/UE che prevede la novità, rispetto alla precedente, della confisca di patrimonio ingiustificato collegata a condotte criminose (art. 16) – categoria nella quale potrebbe confluire la confisca di prevenzione – e introduce anche uno statuto dettagliato per i terzi interessati.

A questo proposito, si richiama il considerando 48 della Direttiva 2024/1260/UE ove si prevede che l’interessato – nozione in cui rientra il terzo destinatario di confisca disposta nei confronti del proposto, ex art. 3, n. 10), lett. c) – abbia l’effettiva possibilità di contestare il provvedimento di confisca, con impugnazione dinanzi a un organo giurisdizionale, e si sancisce che le contestazioni comprendano “anche i fatti specifici e gli elementi di prova disponibili sulla base dei quali i beni in questione sono considerati come derivanti da condotte criminose”.

Secondo i giudici rimettenti, quest’ultimo riferimento ai “fatti specifici” e agli “elementi di prova” sulla relazione fra condotte criminose e beni confiscati potrebbe evocare la possibilità della contestazione, da parte del terzo, quanto meno dei presupposti oggettivi della confisca di prevenzione.

Inoltre, il considerando 48 sembra costituire una chiave interpretativa dell’art. 24 della Direttiva, che regola i mezzi di ricorso, disponendo che “le persone interessate dai provvedimenti di congelamento di cui all’art. 11 e dai provvedimenti di confisca di cui agli artt. da 12 a 16 godano del diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale al fine di salvaguardare i propri diritti”. In particolare, il secondo comma di tale enunciato richiede agli Stati di assicurare i diritti di difesa, compresi il diritto di accesso al fascicolo, il diritto a essere ascoltati su questioni di diritto e di fatto e, se del caso, il diritto all’interpretazione e alla traduzione, anche alle persone interessate dalla confisca per patrimonio ingiustificato collegato a condotte criminose, ai sensi dell’art. 16.

7. Ciò premesso, le Sezioni Unite, con le puntualizzazioni di ordine sistematico che seguono, ritengono che vada data continuità all’orientamento maggioritario che, in caso di confisca di prevenzione avente ad oggetto beni ritenuti fittiziamente intestati a un terzo, ammette che quest’ultimo possa rivendicare esclusivamente l’effettiva titolarità dei beni confiscati.

8. Al riguardo, è opportuno evidenziare che il procedimento di prevenzione presenta, rispetto al processo penale, connotazioni e finalità del tutto autonomi, al punto che, anche alla luce delle varie riforme succedutesi nel tempo, è ormai incontestata la piena autonomia delle cadenze, delle acquisizioni e degli epiloghi decisori che contraddistinguono il primo rispetto al secondo.

Ciò non toglie, tuttavia, che trattandosi di un procedimento giurisdizionale che coinvolge profili attinenti ai diritti fondamentali, costituzionalmente e convenzionalmente garantiti, alcuni principi generali, quali la imparzialità del giudice, il diritto di difesa, la “equità” del rito, la scansione per gradi e l’impulso pubblico alla relativa celebrazione, finiscano per trovare una naturale allocazione, anche se, per ciascuno dei principi evocabili, la proiezione del procedimento finisca per calibrarne l’essenza.

Come ha, infatti, ricordato la Corte costituzionale (sentenza n. 24 del 2019), l’esecuzione delle misure di prevenzione comporta una restrizione della libertà personale sancita dall’art. 13 Cost.; restrizione che certamente consegue alle prescrizioni che ineriscono alla sorveglianza di pubblica sicurezza ai sensi dell’art. 8, comma 2, D.Lgs. n 159 del 2011, le quali – anche laddove non sia disposto l’obbligo o il divieto di soggiorno – determinano, ad esempio, l’obbligo di fissare la propria dimora e di non allontanarsene senza preventivo avviso all’autorità, nonché il divieto di uscire o rincasare al di fuori di certi orari. Conseguentemente, le misure in questione intanto possono considerarsi legittime, in quanto rispettino i requisiti cui l’art. 13 Cost. subordina la liceità di ogni restrizione alla libertà personale, tra i quali vanno in particolare sottolineate la riserva assoluta di legge (rinforzata, stante l’esigenza di predeterminazione legale dei “casi e modi” della restrizione) e la riserva di giurisdizione”.

Quanto, poi, alle misure patrimoniali, la Consulta non ha mancato di puntualizzare come “pur non avendo natura penale, sequestro e confisca di prevenzione restano peraltro misure che incidono pesantemente sui diritti di proprietà e di iniziativa economica, tutelati a livello costituzionale (artt. 41 e 42 Cost.) e convenzionale (art. 1 Prot. addiz. CEDU)”. Esse dovranno, pertanto, soggiacere al combinato disposto delle garanzie cui la Costituzione e la stessa CEDU subordinano la legittimità di qualsiasi restrizione dei diritti in questione, tra cui – segnatamente -: a) la loro previsione attraverso una legge (artt. 41 e 42 Cost.) che possa consentire ai propri destinatari, in conformità alla costante giurisprudenza della Corte EDU sui requisiti di qualità della “base legale” della restrizione, di prevedere la futura possibile applicazione di tali misure (art. 1 Prot. addiz. CEDU); b) la necessità della restrizione rispetto ai legittimi obiettivi perseguiti (art. 1 Prot. addiz. CEDU) e, pertanto, la proporzione rispetto a tali obiettivi, requisito di sistema anche nell’ordinamento costituzionale italiano per ogni misura della pubblica autorità incidente sui diritti dell’individuo, alla luce dell’art. 3 Cost.; c) l’applicazione quale esito di un procedimento che – pur non dovendo necessariamente conformarsi ai principi che la Costituzione e il diritto convenzionale dettano specificamente per il processo penale – rispetti tuttavia i canoni generali di ogni “giusto” processo garantito dalla legge (artt. Ili, primo, secondo e sesto comma, Cost., e 6 CEDU, nel suo “volet c/V/7”), assicurando in particolare la piena tutela al diritto di difesa (art. 24 Cost.) di colui nei cui confronti la misura sia richiesta.

Da tutto ciò può trarsi che l’azione di prevenzione, che si esprime attraverso una “proposta” formulata ai sensi degli artt. 5 e 17 del D.Lgs. n. 159 del 2011, mira all’applicazione di determinate misure nei confronti di soggetti che rispondano a requisiti di pericolosità o il cui patrimonio risulti in tutto o in parte frutto di non giustificato accumulo, derivante proprio da quelle condizioni soggettive, riconducibile a condotte illecite o legalmente presunte tali.

La regiudicanda di prevenzione, dunque, è a soggetto e oggetto definiti. Da qui, dunque, già un primo e significativo corollario: il destinatario della misura di prevenzione è parte necessaria (e ineludibile) del procedimento di prevenzione, tanto se esso abbia ad oggetto l’applicazione di una misura di prevenzione personale, quanto se esso concerna l’applicazione di una misura di carattere patrimoniale.

9. Il dato normativo, d’altra parte, appare essere univocamente orientato in questo senso.

Gli artt. 4 e 16 D.Lgs. n. 159 del 2011, infatti, chiamano in causa i “soggetti destinatari” delle misure di prevenzione, definendoli sul piano dei “requisiti” soggettivi che costituiscono i presupposti indefettibili per legittimare i titolari del potere di “azione-proposta” ad attivare la domanda di intervento giurisdizionale di prevenzione proprio (ed esclusivamente) “nei confronti” di quelle persone.

Perspicuo è, anche, il valore semantico da annettere alle espressioni che cadenzano il rito nel procedimento di applicazione delle misure di prevenzione personali applicate dall’autorità giudiziaria, secondo la previsione dettata dall’art. 7 del richiamato codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione.

Il primo comma di tale disposizione prevede la celebrazione del procedimento in pubblica udienza “quando l’interessato ne faccia richiesta”: interessato che non può che coincidere con il soggetto nei confronti del quale la proposta è formulata, alla luce della ratio della previsione, originata dalle note decisioni della Corte EDU sulla cui base la Corte costituzionale (cfr. sentenza n. 93 del 2010) ebbe a dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 legge 27 dicembre 1956, n. 1423 e dell’art. 2-ter legge 31 maggio 1965, n. 575, nella parte in cui non consentivano che, su istanza degli interessati, il procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione si svolgesse, davanti al Tribunale e alla Corte d’Appello, nelle forme dell’udienza pubblica.

Ai sensi del secondo comma, solo nei confronti dell'”interessato”, ossia tecnicamente il proposto, è stabilito l’obbligo dell’assistenza da parte di un difensore di ufficio cui notificare l’avviso di udienza (ove non sia stato designato uno di fiducia).

Testuale è poi la distinzione tra le “parti” del procedimento e le “altre persone interessate”, dal momento che il presidente è chiamato a comunicare o notificare, distintamente, a ciascuno di tali differenti soggetti (uno solo dei quali annoverabile, evidentemente, nella categoria della “parte” privata necessaria) l’avviso di fissazione della data dell’udienza.

Solo con riguardo al destinatario della misura l’art. 7, secondo comma, D.Lgs. cit. prevede che l’avviso di udienza debba contenere, oltre alla data, all’ora e alla facoltà di presentare memorie (come previsto per i terzi in esame), anche “la concisa esposizione dei contenuti della proposta”, facendo così riferimento ad una sorta di contestazione relativa ai presupposti sui quali la richiesta di misura e, dunque, l’azione di prevenzione, si fonda.

Analogamente, solo per il proposto ed il suo difensore il quinto comma del già menzionato articolo prevede il rinvio dell’udienza in caso di legittimo impedimento.

Tali disposizioni trovano applicazione, in quanto compatibili (cfr. art. 23 del codice antimafia), anche nel procedimento applicativo di una misura di prevenzione patrimoniale.

Nelle disposizioni specificamente dettate dal D.Lgs. n. 159 del 2011 in ordine all’applicazione delle misure di prevenzione patrimoniali si ricavano ulteriori elementi che differenziano il soggetto destinatario della misura e il terzo.

I termini di efficacia del sequestro previsti dall’art. 24, comma 2, D.Lgs. cit. (e 27, comma 6, D.Lgs. cit., per il giudizio di appello) sono sospesi per le medesime cause previste per i termini della custodia cautelare, riferibili al solo proposto e al suo difensore. L’allegazione sulla legittima provenienza dei beni è attribuita al proposto, affermandosi testualmente che “Il Tribunale dispone la confisca dei beni sequestrati di cui la persona nei cui confronti è instaurato il procedimento non possa giustificare la legittima provenienza” (art. 24, comma 1, D.Lgs. cit.). Le allegazioni relative alla sproporzione e alla provenienza illecita dei beni spettano esclusivamente al proposto, tanto che il secondo periodo del primo comma dell’art. 24 D.Lgs. cit., prevede espressamente che “in ogni caso il proposto non può giustificare la legittima provenienza dei beni adducendo che il denaro utilizzato per acquistarli sia provento o reimpiego dell’evasione fiscale”.

Ma v’è di più. È lo stesso art. 23 D.Lgs. cit., che, nel secondo comma, espressamente enuclea la posizione dei “terzi” che risultino proprietari o comproprietari dei beni sequestrati, stabilendone la “chiamata” ad “intervenire all’udienza in camera di consiglio: tale locuzione è espressiva, sul piano processuale, di uno ius ad loquendum diverso da quello che caratterizza il diritto di “partecipare” come parte.

Dunque, i “terzi” restano tali anche sul piano del rito, giacché la loro legittimazione (ancor prima di qualsiasi richiamo alla categoria dell’interesse) è circoscritta alla posizione di diritto sostanziale che essi vantano sui beni oggetto del sequestro e del futuro provvedimento ablatorio di confisca.

È ben vero che il terzo comma della disposizione ora in esame, nel tracciare i poteri processuali di quanti sono chiamati a “intervenire” nel procedimento, si esprime in termini del tutto generici, stabilendo che costoro possono “svolgere le loro deduzioni, con l’assistenza di un difensore, nonché chiedere l’acquisizione di ogni elemento utile ai fini della decisone sulla confisca”, non consentendo, quindi, di delimitare ex ante il contenuto dei relativi petita.

Ma è altrettanto vero che il loro “titolo” partecipativo è circoscritto al diritto di cui sono (o appaiono essere) portatori, giacché, altrimenti, non vi sarebbe più alcuna distinzione tra il destinatario della proposta – indiscutibile parte necessaria del procedimento – e coloro che, in via del tutto eventuale, vantino diritti sui beni sequestrati, come pure è ulteriormente specificato dal quarto comma dello stesso art. 23 D.Lgs. cit.

Il ragionamento non cambia anche – e forse soprattutto – ove vengano in discorso, come nel caso concreto, terzi la cui titolarità dei beni sia frutto di asserita intestazione fittizia.

Al riguardo, è dirimente osservare che a norma dell’art. 26 D.Lgs. cit., laddove venga accertato che tutti o parte dei beni sono stati fittiziamente intestati o trasferiti a terzi, il giudice con il provvedimento che dispone la confisca dichiara la nullità dei relativi atti di disposizione. Il secondo comma della medesima disposizione stabilisce, poi, una serie di ipotesi in cui i trasferimenti si presumono, fino a prova contraria, fittizi.

Il che – contrariamente a quanto previsto dall’art. 1414 cod. civ. che si limita a stabilire l’inefficacia del contratto simulato fra le parti – configura, nel caso di confisca di prevenzione, l’interposizione fittizia come contratto contra legem, in quanto teso a frustrare la funzione preventiva della confisca volta a ripristinare la effettiva “legalità” del patrimonio del proposto il quale, in forza della sua pericolosità sociale, abbia illecitamente acquisito la titolarità effettiva del cespite, da assoggettare, conseguentemente, al provvedimento di ablazione.

Diversamente, il terzo intestatario fittizio vede la propria legittimazione ad intervenire nel procedimento di prevenzione circoscritta alla contestazione della ritenuta fittizia intestazione dei beni.

Titolarità fittizia equivale a nessuna titolarità, con la conseguenza che il terzo è legittimato esclusivamente a dimostrare la coincidenza tra situazione formale e situazione sostanziale: è questo l’unico tema del contendere in capo al soggetto fittiziamente “interposto”.

10. Nella giurisprudenza di legittimità formatasi in tema di procedimento di prevenzione è dato cogliere spunti di differenziazione tra la posizione del soggetto destinatario della misura e quella del terzo.

Si è, infatti, sottolineato che nel procedimento di prevenzione per l’applicazione di misure reali, l’omessa citazione del terzo, a differenza della vocatio del proposto, non determina la nullità del procedimento, ma una semplice irregolarità che non inficia il procedimento medesimo, e quindi l’applicazione della misura, ferma restando la facoltà dell’extraneus di esplicare – successivamente e in modo compiuto – le sue difese provocando un incidente di esecuzione (Sez. 5, n. 4743 del 14/11/2024, dep. 2025, Rossi, non mass, e Sez. 1, n. 6742 del 20/11/2024, dep. 2025, Gruppo Immobiliare LG Srl, non mass.; Sez. 6, n. 26346 del 09/05/2019 Gambino, Rv. 276382 – 01; Sez. 1, n. n. 1686 del 21/04/2010, Monachino, Rv. 247072 – 01; Sez. 1, n. 28032 del 22/06/2007, Scala, Rv. 236930 – 01).

Si è, altresì, affermato, con orientamento consolidato, che il terzo interessato, in quanto portatore di un interesse meramente civilistico, può stare in giudizio solo a mezzo di difensore munito di procura speciale alle liti ai sensi dell’art. 100 cod. proc. pen., soggiacendo alla regola della domiciliazione ex lege presso quest’ultimo, al pari di quanto previsto nel processo civile dall’art. 83 cod. proc. civ. (Sez. 6, n. 30637 del 09/07/2024, Nirta, non mass.; Sez. 5, n. 4357 del 21/10/2022, dep. 2023, Galiano, non mass.; Sez. 5, n. 22623 del 03/05/2022, Cordaro, non mass.; Sez. 5, n. 880 del 26/11/2020, dep. 2021, Mattina, Rv. 280403 – 01).

Il ricorso a tale mandato speciale poggia sulla sostanziale “estraneità” del terzo alla domanda di prevenzione e al conseguente giudizio instaurato nei confronti di coloro che manifestano (o hanno manifestato) una condizione di pericolosità, al pari di quanto avviene nel processo penale per le parti private diverse dall’imputato, la cui partecipazione al giudizio, riguardando rapporti e interessi di natura civilistica, mutua anch’essa la propria disciplina dalle regole che presiedono il processo civile.

È, quindi, “la natura eventuale della partecipazione del terzo al giudizio di prevenzione che richiede che questi conferisca al difensore una procura speciale, che attesti sia la volontà di partecipare, che i suoi limiti” (Sez. 2, n. 13723 del 30/11/2022, dep. 2023, Cannata, non mass.), in perfetta simmetria con quanto stabilito dall’art. 7 D.Lgs. n. 159 del 2011 che esclude che il terzo possa avvalersi di un difensore di ufficio.

Ne discende, pertanto, che l’interesse del terzo a prendere parte al giudizio di prevenzione non può che risiedere nella scelta di tutelare nell’ambito di tale sedes il proprio interesse a dimostrare l’effettiva titolarità del bene di cui si assume la fittizietà.

11. Ulteriori elementi di sostegno a tale conclusione possono rinvenirsi nella recente decisione della Corte EDU, 20/01/2025, Garofalo e altri c. Italia.

In tale pronuncia, infatti, la Corte di Strasburgo, sulla base di un’attenta ricostruzione del quadro normativo di riferimento e delle puntualizzazioni offerte dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità, ha svolto importanti notazioni circa la ratio e la funzione della confisca di prevenzione.

Al riguardo, infatti, la Corte EDU ha osservato come tale misura richieda un apprezzamento diagnostico orientato a verificare se, in un determinato periodo, il proposto abbia, in via presuntiva e sulla base di determinati indici di riconoscimento, conseguito la disponibilità di beni di valore eccedente rispetto al reddito lecitamente conseguito e la cui origine lecita non possa essere dimostrata.

Dunque, osserva la Corte, la misura ablatoria assolve ad una funzione di prevenzione in senso generale, tesa a far comprendere che “il crimine non paga”. Intento, questo, peraltro non dirimente agli effetti della individuazione della natura della confisca, in quanto indifferentemente presente tanto nelle misure di carattere punitivo che in quelle che perseguono obiettivi diversi.

Fattore determinante, secondo la Corte, per individuare la natura non punitiva della confisca è, invece, la sua funzione ripristinatoria (par. 126-133). In proposito si osserva che la misura in questione presenta vari elementi che la rendono comparabile alle misure (civili) volte ad impedire l’arricchimento ingiustificato, piuttosto che alle sanzioni di natura penale. Lo scopo della confisca è, infatti, quello di rimuovere dal circuito economico legale beni acquisiti illecitamente; sicché il nucleo portante della misura finisce per ruotare attorno al bene piuttosto che alla persona, come d’altra parte traspare dalla circostanza che la confisca, a certe condizioni, può essere disposta anche nei confronti di beni appartenenti a terzi che li abbiano ereditati o acquistati.

In questo contesto la Corte EDU precisa, peraltro, che la misura trova applicazione solo per i beni di cui è presunta l’origine illecita, al precipuo scopo di impedire l’arricchimento ingiusto.

Al riguardo vengono richiamati i parametri elaborati con orientamento costante da questa Corte: la c.d. correlazione temporale, in base alla quale la misura può aggredire solo i beni acquisiti durante il periodo in cui il proposto ha presumibilmente commesso reati lucrogenetici; il rapporto di proporzione tra profitti illeciti e il valore dei beni da confiscare (cfr. in tal senso anche Corte cost., sent. n. 24 del 2019).

Alla stregua di tali principi, la Corte di Strasburgo conclude che la confisca mira a garantire che il crimine “non paghi” e a prevenire l’arricchimento ingiusto (“ensure that crime does not pay and to prevent unjust enrichment“), sottraendo all’individuo interessato e ai terzi che non abbiano un valido diritto sui beni da confiscare i profitti derivanti da attività criminali. Di conseguenza essa ha natura ripristinatoria e non punitiva (“restorative and not punitive nature“). Ciò postula una correlazione necessaria tra il quadro patrimoniale preesistente all’ablazione e la sua riconduzione a legalità, attraverso (e nei limiti) della confisca.

In altri termini, la confisca di prevenzione vede – proprio per soddisfare la sua funzione – patrimonio di sospetta origine illecita e proposto legati fra loro da una corrispondenza biunivoca, rispetto alla quale il terzo fittizio intestatario assume una qualità eventuale ed accessoria, in quanto, in presenza dei relativi presupposti, l’azione di prevenzione è destinata a prevalere sulla titolarità apparente dei beni oggetto di confisca.

Logico corollario che se ne può trarre è che, soltanto ove l’intestatario che si assume fittizio rivendichi la propria qualità di titolare effettivo dei beni, la sua qualità di proprietario reale può legittimare il suo “intervento” nel procedimento di prevenzione, secondo le linee e nei limiti tratteggiati dal già esaminato art. 23 del codice antimafia.

12. Come evidenziato dall’ordinanza di rimessione, i diversi orientamenti interpretativi hanno fondato le loro conclusioni sulla nozione di interesse ad impugnare, declinata in termini non sempre convergenti e talora impropriamente sovrapposta a quella di legittimazione. Sul punto è opportuno svolgere alcune puntualizzazioni, utili per la soluzione dell’odierno contrasto.

12.1. Ancorché concettualmente interdipendenti, dovendo la domanda essere assistita da entrambi i requisiti, legittimazione ed interesse sono nozioni diverse: la legittimazione è correlata alla titolarità di una situazione giuridica soggettiva astrattamente meritevole di tutela secondo l’ordinamento giuridico, mentre l’interesse postula che, mediante l’impugnazione, si consegua, in termini di concretezza ed attualità, un’utilità mediante la rimozione del pregiudizio derivante dal provvedimento impugnato.

Preliminarmente occorre, quindi, accertare se chi ha proposto l’impugnazione sia o meno titolare di un interesse qualificato legittimante l’azione proposta.

La verifica della legittimazione precede logicamente quella dell’interesse. Infatti, solo dopo avere accertato la sussistenza di una situazione giuridica soggettiva rilevante per l’ordinamento si deve stabilire se l’azione proposta possa comportare, in termini di concretezza ed attualità, la modifica della sfera giuridica del ricorrente.

L’interesse a impugnare (art. 568, comma 4, cod. proc. pen.), quale condizione di ammissibilità di qualsiasi impugnazione, deve, quindi, essere correlato agli effetti primari e diretti del provvedimento e sussiste solo se il mezzo dì impugnazione proposto sia idoneo a costituire, attraverso l’eliminazione dell’atto pregiudizievole, una situazione pratica più vantaggiosa per l’impugnante rispetto a quella esistente (cfr., Sez. U, n. 28911 del 28/09/2019, Massaria, Rv. 275953 -02; Sez. U, n. 29529 del 25/06/2009, De Marino, Rv. 244110 – 01; Sez. U, n. 18253 del 24/04/2008, Tchmil, Rv. 239397 – 01; Sez. U, n. 20 del 20/10/1996, Vitale, Rv. 206169 – 01; Sez. U, n. 42 del 13/12/1995, Timpani, Rv. 203093 – 01; Sez. U, n. 10372 del 27/09/1995, Serafino, Rv. 202269 – 01; Sez. U, n. 9616 del 24/03/1995, Boido, Rv. 202018 – 01; Sez. U, n. 6203 del 11/05/1993, Amato, Rv. 193743 – 01).

Sono questi gli elementi qualificanti dell’interesse ad impugnare e il criterio di misurazione dello stesso, visto sia in negativo (rimozione di un pregiudizio) che in positivo (conseguimento di una utilità), è un criterio comparativo tra dati processuali concretamente individuabili: il provvedimento impugnato e quello che il giudice ad quem potrebbe emanare in accoglimento dell’impugnazione (cfr., Sez. U, n. 6624 del 27/10/2011, dep. 2012, Marinaj, Rv. 251693 – 01).

12.2. Le considerazioni sinora svolte rilevano ai fini della soluzione del quesito posto. Il terzo che si assume intestatario fittizio del bene oggetto di confisca è legittimato ad intervenire nel procedimento di prevenzione solo per rivendicare la qualità di proprietario effettivo del bene oggetto di ablazione e, quindi, di titolare di una situazione astrattamente meritevole di tutela secondo l’ordinamento. Il suo interesse sussiste in termini di “concretezza” e “attualità”, laddove mediante l’impugnazione si miri ad ottenere l’annullamento della confisca con riferimento alla fittizietà dell’intestazione e il riconoscimento della propria posizione giuridica qualificata.

La domanda attraverso la quale il terzo rivendica la titolarità effettiva del bene deve essere accompagnata dalla specificazione degli elementi che fondano il suo diritto e che in via diretta e immediata comprovano la propria titolarità non fittizia.

Al contrario, la contestazione da parte del terzo della sussistenza dei presupposti per l’applicazione della misura di prevenzione patrimoniale nei confronti del proposto, oltre a provenire da soggetto non legittimato, sarebbe sorretta da un interesse di mero fatto, derivante indirettamente dall’esito della procedura principale, cui l’ordinamento non attribuisce rilievo giuridico alla luce delle considerazioni in precedenza svolte (così, tra le altre, cfr.: Sez. 2, Granato, cit.; Sez. 6, Ingrassia, cit.; Sez. 6, Grizzaffi, cit.; Sez. 6, n. 48761 del 14/11/2023, Morelli, cit.; Sez. 1, jelmoni, cit.; Sez. 6, Hudorovic, cit.).

Di conseguenza, l’interesse del terzo a prendere parte al giudizio di prevenzione risiede nella richiesta di riconoscimento della proprietà effettiva del bene di cui il provvedimento impugnato assume l’intestazione fittizia al terzo stesso.

13. L’esegesi volta ad escludere che l’intervento partecipativo del terzo possa estendersi fino a contestare i presupposti applicativi della misura trova conferma anche nelle fonti internazionali e nel diritto unionale.

13.1. L’art. 12 (Confisca e sequestro) della Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale (adottata dall’Assemblea generale il 15 novembre 2000 con la Risoluzione n. 55/25 e aperta alla firma a Palermo il 12 dicembre 2000), al settimo comma, stabilisce che “Gli Stati Parte possono considerare la possibilità di richiedere che un reo dimostri l’origine lecita dei presunti proventi di reato o altri beni che possono essere oggetto di confisca, nella misura in cui tale richiesta è coerente con i princìpi del loro diritto interno e con la natura del procedimento giudiziario e di altri procedimenti”.

L’ottavo comma prevede poi che “L’interpretazione delle disposizioni del presente articolo non deve ledere i diritti dei terzi in buona fede”.

Analogamente l’art. 31 (Congelamento, sequestro e confisca) della Convenzione delle Nazioni unite contro la corruzione, adottata dall’Assemblea generale il 31 ottobre 2003 e aperta alla firma a Merida dal 9 all’ 11 dicembre dello stesso anno, all’ottavo comma stabilisce che “Gli Stati Parte possono esaminare la possibilità di esigere che l’autore di un reato dimostri l’origine illecita dei presunti proventi del crimine o di altri beni confiscabili, nella misura in cui tale esigenza è conforme ai principi fondamentali del loro diritto interno ed alla natura dei procedimenti giudiziari e di altri procedimenti”. Il successivo nono comma sancisce che “L’interpretazione delle disposizioni del presente articolo non deve in alcun caso pregiudicare i diritti di terzi in buona fede”.

Dalle disposizioni indicate emerge la tutela dei “terzi in buona fede” che non possono essere pregiudicati dalla confisca e a cui è consentito allegare la propria buona fede e, dunque, l’effettivo diritto di proprietà sul bene ritenuto nella disponibilità dell’autore del reato.

Alle medesime conclusioni si giunge esaminando le disposizioni dettate in materia dalla Convenzione del Consiglio d’Europa sul riciclaggio, la ricerca, il sequestro e la confisca dei proventi di reato, conclusa a Strasburgo, l’8 novembre 1990.

L’art. 22 (Riconoscimento delle decisioni straniere), al primo comma, prevede che “Nell’esaminare le richieste di cooperazione ai sensi delle sezioni 3 e 4, la Parte richiesta riconosce qualsiasi decisione giudiziaria presa nella Parte richiedente per quanto riguarda i diritti rivendicati dai terzi”. Il secondo comma precisa che “Il riconoscimento può essere rifiutato se: a) i terzi non hanno avuto sufficiente possibilità di far valere i propri diritti”.

L’art. 27, relativo al contenuto della richiesta di cooperazione in ordine alla confisca, al terzo comma, lett. c), dispone che debbano contenere l’indicazione “se i terzi hanno avuto la possibilità di rivendicare i propri diritti, documenti che comprovino tale circostanza”.

La Convenzione indica che non vi è assimilazione con l’autore del reato in quanto il terzo, colpito dalla confisca, deve avere avuto sufficiente possibilità di far valere i propri diritti; ossia i diritti che egli può “rivendicare” in quanto proprietario.

13.2. Con riferimento al diritto dell’Unione europea, viene in rilievo la recente Direttiva 2024/1260/UE del 24 aprile 2024 sulla confisca che andrà attuata in tutti gli Stati membri entro il 23 novembre 2026.

La nuova Direttiva – che ha sostituito, ad ogni effetto, i precedenti strumenti di normazione comunitaria quali “l’azione comune 98/699/GAI del Consiglio, la decisione quadro 2001/500/GAI del Consiglio, la decisione quadro 2005/212/GAI, la decisione 2007/845/GAI e la direttiva 2014/42/UE” – persegue la finalità di armonizzare le legislazioni degli Stati membri sul tema della confisca in materia penale. Nel sottolineare al considerando 7 come “in questo contesto, il termine “procedimento in materia penale” è un concetto autonomo del diritto dell’Unione interpretato dalla Corte di giustizia dell’Unione europea, ferma restando la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo”, la Direttiva introduce, sulla falsariga di modelli già noti nel sistema italiano, due forme di confisca non fondate sulla condanna, una delle quali – menzionata dall’art. 16 e qualificata come “confisca di patrimonio ingiustificato collegato a condotte criminose” – presenta caratteristiche del tutto analoghe alla confisca quale misura di prevenzione patrimoniale antimafia.

Senza entrare nel contenuto di dettaglio della disposizione, può affermarsi che il contenuto dei considerando posti a fondamento della Direttiva evidenziano una marcata differenziazione tra chi viene assoggettato, in quanto ritenuto autore dell’illecita accumulazione patrimoniale, alla procedura giurisdizionale destinata a concludersi con la statuizione sulla confisca, nelle sue diverse configurazioni (si vedano, al riguardo, i considerando 29, 34, 46, 47 e 48) e i reali proprietari dei beni, quali soggetti terzi ai quali deve essere assicurata una specifica tutela tesa a salvaguardare la propria posizione, “compreso il diritto a rivendicare la proprietà del bene interessato” (v. considerando 28 e 33).

Ad analoghe conclusioni si giunge esaminando lo stesso articolato della Direttiva. L’art. 3, n. 10, lett. c), nel definire la qualità di “interessato” dal provvedimento di confisca, distingue la posizione di colui che subisce la misura ablatoria perché ritenuto autore dell’illecito incremento patrimoniale rispetto al “soggetto terzo i cui diritti in relazione ai beni oggetto di un provvedimento di congelamento o di confisca siano pregiudicati direttamente da tale provvedimento”. Ponendo la disposizione l’accento sulla situazione di carattere sostanziale che lega il terzo al bene, ne definisce al contempo anche l’ambito di intervento nel procedimento, necessariamente limitato a far valere i fatti costitutivi di quel diritto che si assume illegittimamente compromesso.

È, inoltre, significativo che la norma preveda la necessità di un pregiudizio “diretto”, da ciò potendo trarsi un ulteriore elemento in ordine al fatto che, simmetricamente, l’interesse di cui il terzo è portatore deve essere anch’esso diretto e, dunque, necessariamente collegato all’effettiva titolarità del bene oggetto della misura.

La circostanza che la Direttiva, sul piano delle garanzie difensive, faccia comune riferimento “alle persone interessate dai provvedimenti di confisca”, con particolare riguardo al rispetto dell’obbligo di informazione e alla previsione di mezzi adeguati di ricorso, non sta affatto a significare che la normativa unionale abbia inteso assimilare, sotto il profilo dell’interesse a ricorrere, le diverse posizioni dell’autore dell’illecita accumulazione e quella dei terzi, dovendo l’ambito delle facoltà difensive pur sempre essere riferito alla titolarità del diritto sostanziale che il provvedimento ablatorio verrebbe a compromettere.

Del resto, è lo stesso contenuto dell’art. 24, che regola i mezzi di ricorso, che avvalora tale conclusione, laddove, pur affermando che gli Stati membri sono tenuti ad assicurare che le persone interessate dai provvedimenti di congelamento e di confisca di cui agli artt. da 12 a 16 godano di un ampio ed effettivo diritto di difesa, con riguardo alla posizione dei terzi sancisce, al comma 7, che “possono far valere un diritto di proprietà o altri diritti patrimoniali”.

Da qui la non pertinenza della tesi che intende desumere dallo strumento normativo sovranazionale un vincolo per l’ordinamento nazionale ad “allargare”, sul versante delle esigenze difensive, l’oggetto delle domande e delle pretese da far valere in sede di prevenzione.

Non vi è, dunque, alcun rischio di un preteso “frazionamento” delle facoltà difensive, dal momento che queste debbono essere comprese tra le prospettazioni legittimamente devolvigli e il diritto che il terzo è abilitato a far valere.

È dunque in tale ambito, per come si osserverà innanzi, che deve riconoscersi e assicurarsi al terzo – in piena aderenza a quanto espresso al riguardo dalla Direttiva e dall’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (2007/C 303/01) – il pieno esercizio del diritto di difesa.

14. Alla luce delle argomentazioni svolte consegue che il ritenuto intestatario fittizio dei beni intanto ha un diritto di interlocuzione nel procedimento di applicazione di una misura di prevenzione patrimoniale in quanto rivendichi un proprio effettivo diritto sui beni oggetto del provvedimento ablatorio.

Da ciò deriva la carenza di interesse del terzo a proporre questioni relative ai presupposti per l’applicazione della misura nei confronti del proposto, quali la condizione di pericolosità dello stesso, la sproporzione tra il valore del bene confiscato e il reddito dichiarato, la legittima provenienza del bene e la perimetrazione temporale dell’acquisto da parte del proposto, trattandosi di doglianze che solo il proposto può avere interesse a far valere.

Vanno, pertanto, disattesi sia l’orientamento minoritario che quelli, alternativi, definiti come “intermedi”.

Entrambi incorrono nelle obiezioni di cui innanzi si è detto, giacché non si confrontano correttamente con la nozione di legittimazione ed interesse, quali delineati da queste Sezioni Unite con orientamento consolidato.

Con specifico riferimento all’ulteriore orientamento “intermedio” che ammette che il terzo possa contestare la datazione dell’acquisto del bene, laddove una simile prospettazione sia unicamente volta ad espungere il bene dall’area della pericolosità del proposto, il Collegio osserva che essa finisce per ridondare in un’inammissibile intervento ad adiuvandum della posizione del proposto.

15. La corretta perimetrazione della legittimazione e dell’interesse che fondano l’intervento del terzo nel procedimento di prevenzione patrimoniale rendono opportuno soffermarsi anche sugli oneri probatori che gravano sul terzo al fine di confutare la fittizietà dell’intestazione.

Al riguardo, resta fermo che, in tema di sequestro e confisca di beni intestati a terzi correlati all’applicazione di misure di prevenzione, incombe sull’accusa l’onere di provare, sulla base di elementi fattuali connotati dai requisiti della gravità, precisione e concordanza, l’esistenza di situazioni idonee ad avallare concretamente il carattere puramente formale di detta intestazione, e, corrispondentemente, la disponibilità effettiva dei beni da parte del proposto.

Ciò in quanto – laddove non operino le presunzioni di fittizietà, pur sempre relative, di cui al secondo comma dell’art. 26 D.Lgs. n. 159 del 2011 – deve applicarsi la disciplina generale sulla prova della disponibilità indiretta dei beni in capo al soggetto proposto, in ossequio a quanto previsto dall’art. 20 D.Lgs. cit., secondo cui il Tribunale ordina il sequestro dei beni dei quali la persona nei cui confronti è stata presentata la proposta “risulta” poter disporre direttamente o indirettamente (Sez. 1, Jelmoni, cit.; Sez. 1, n. 6745 del 05/11/2020, dep. 2021, Scerra, Rv. 280528 – 01; Sez. U, n. 12621 del 22/12/2016, dep. 2017, De Angelis, non mass, sul punto, che richiama, sul tema, Sez. 2, n. 6977 del 09/02/2011, Battaglia, Rv. 249364 – 01).

È, infatti, in questa prospettiva che si inscrive l’ampia estensione dei poteri di indagine patrimoniale funzionali all’applicazione della confisca di prevenzione che si rinviene nel D.Lgs. n. 159 del 2011.

L’art. 19 D.Lgs. cit. consente, infatti, un’attività investigativa a forma libera, non soggetta a limitazioni temporali, sia da parte degli organi titolari del potere di proposta, sia attraverso le iniziative eventualmente disposte ex officio dal Tribunale durante il corso del procedimento di prevenzione: attività che può essere svolta non solo nei confronti del proposto, ma anche nei confronti dei familiari e di coloro che possono assumere la qualità di terzo intestatario dei beni di cui si ritiene che il primo possa, in tutto o in parte, poter disporre direttamente o indirettamente.

Le indagini patrimoniali, infatti, sono dirette a raccogliere qualunque elemento indicativo della fittizia intestazione dei beni, destinato a formare il patrimonio indiziario su cui si fonda la richiesta e l’applicazione della misura della confisca.

Intanto, infatti, il giudice, con il decreto che dispone la confisca, può dichiarare la nullità dei relativi atti di disposizione, in quanto abbia “accertato” che taluni beni sono stati fittiziamente intestati o trasferiti a terzi (art. 26, comma 1, D.Lgs. cit.).

Il primo passaggio della catena dimostrativa della scissione tra titolarità formale del bene e impiego delle risorse, inerendo ai presupposti applicativi della misura ablatoria, spetta sempre alla pubblica accusa (ex multis, Sez. 5, Celentano, cit.; Sez. 2, n. 18569 del 12/03/2019, Pisani, non mass.; Sez. 1, n. 13375 del 20/9/2017, dep. 2018, Brussolo, Rv. 272703 – 01).

Il terzo, infatti, per definizione, non è il soggetto portatore di pericolosità. Egli, invece, ha un onere di allegazione che consiste nel confutare la tesi accusatoria, secondo la quale egli è un mero intestatario formale, ed indicare elementi fattuali che dimostrino che quel bene è di sua proprietà e nella sua esclusiva disponibilità.

E rispetto a tale thema probandum il diritto di difesa del terzo non incontra limitazioni di sorta allorché l’indicazione probatoria sia volta a contestare le circostanze indotte dall’accusa che riverberano sul fatto costitutivo del diritto fatto valere.

L’ambito di allegazione da riconoscersi al terzo deve essere il più ampio possibile, altrimenti rendendosi privo di contenuto il diritto azionabile, e deve comprendere tutti i fatti positivi anche contrari o presuntivi rispetto a quelli su cui si fonda la ritenuta disponibilità del bene in capo al proposto.

Non solo, pertanto, circostanze volte a dimostrare di avere sostenuto, iure proprio e con esclusione di qualsiasi interferenza determinata dai proventi illeciti del proposto, l’acquisto del bene, ma anche quelle dirette a contestare la valenza indiziante degli elementi ricostruttivi e dichiarativi in forza dei quali si sostiene che l’intestazione del bene sia avvenuta nomine alieno.

E a tale fine sarà la dialettica del processo, con il dispiegarsi del contraddittorio, a consentire di ricostruire in maniera esaustiva le vicende relative all’intestazione o al trasferimento del bene al terzo, tenendosi necessariamente conto della specificità di ogni vicenda che, in ragione della natura assai variegata che le contraddistingue, non potrà che formare oggetto di un attento scrutinio riservato al giudice del merito.

In un giudizio che coinvolge la proprietà, uno dei diritti fondamentali del sistema giuridico italiano e convenzionale, emerge, infatti, nitida la necessità di un accertamento esaustivo che, in ossequio anche al principio di effettività del diritto di difesa, rifugga da scorciatoie ed automatismi probatori e si fondi su un quadro circostanziato che renda legittima e proporzionata la privazione, nei confronti del proposto e dei terzi che non abbiano un valido diritto sui beni da confiscare, dei profitti derivanti da attività criminali.

16. Per tutte le ragioni sin qui esposte, va conclusivamente enunciato il seguente principio di diritto:

“In caso di confisca di prevenzione avente ad oggetto beni ritenuti fittizia mente intestati a un terzo, quest’ultimo può rivendicare esclusivamente l’effettiva titolarità dei beni confiscati, senza poter prospettare l’insussistenza dei presupposti applicativi della misura, deducibile soltanto dal proposto”.

17. Alla stregua del principio di diritto sopra enunciato, può ora procedersi alla disamina dei motivi dei ricorsi.

18. Il ricorso proposto nell’interesse di A.A. è fondato limitatamente al terzo motivo. È, invece, inammissibile nel resto.

18.1. Il primo motivo, con cui si lamenta che la categoria di pericolosità generica attribuita al ricorrente non sarebbe stata, all’epoca della commissione delle condotte evocative di pericolosità, sufficientemente tassativizzata alla luce dei principi affermati in materia con la pronuncia della Corte EDU, 27/02/2017, De Tommaso c. Italia e con la sentenza n. 24 del 2019 della Corte costituzionale, è manifestamente infondato.

In primo luogo, questa Corte ha più volte precisato che, sebbene la Corte costituzionale, in un singolo passaggio della motivazione della sentenza n. 24 del 2019, abbia testualmente affermato che risulta possibile assicurare, in via interpretativa, contorni sufficientemente precisi alla fattispecie descritta nell’art. 1, lett. b), D.Lgs. cit. “alla luce dell’evoluzione giurisprudenziale “successiva” alla sentenza De Tommaso”, tuttavia, tale affermazione non deve essere oggetto di una lettura atomistica, bensì apprezzata alla luce del complessivo percorso argomentativo tracciato dalla Consulta che, in realtà, dà conto di una risalente attività di definizione giurisprudenziale della pericolosità generica, antecedente alla pronuncia della Corte EDU, 23/02/2017, De Tommaso c. Italia (in termini, tra le altre, Sez. 5, n. 45009 del 22/11/2024, Cuomo, non mass.; Sez. 1, n. 42666 del 05/07/2023, Perrella, non mass.; ; Sez. 2, n. 16726 del 16/12/2022, Fabbri, non mass.; Sez. 2, Amandonico, cit.; Sez. 6, n. 20557 del 10/06/2020, Dezi, Rv. 279556 – 01).

Nella sentenza n. 24 del 2019 si legge infatti, al par. 11.4 del Considerato in diritto, che “già in epoca immediatamente precedente alla sentenza De Tommaso, la giurisprudenza di legittimità aveva compiuto un commendevole sforzo di conferire, in via ermeneutica, maggiore precisione alle (…) fattispecie di “pericolosità generica” (…) all’esame. Tale sforzo interpretativo è stato ripreso e potenziato successivamente alla pronuncia della Corte EDU, al dichiarato fine di porre rimedio al deficit di precisione in quella sede rilevato. Questa lettura convenzionalmente orientata, talora indicata come “tassativizzante”, muove dal presupposto metodologico secondo cui la fase prognostica relativa alla probabilità che il soggetto delinqua in futuro è necessariamente preceduta da una fase diagnostico-constatativa, nella quale vengono accertati (con giudizio retrospettivo) gli elementi costitutivi delle cosiddette “fattispecie di pericolosità generica”, attraverso un apprezzamento di “fatti”, costituenti a loro volta “indicatori” della possibilità di iscrivere il soggetto proposto in una delle categorie criminologiche previste dalla legge (Corte di cassazione, sezione prima, sentenza 1 febbraio 2018-31 maggio 2018, n. 24707; sezione seconda, sentenza 4 giugno 2015-22 giugno 2015, n. 26235; sezione prima, sentenza 24 marzo 2015-17 luglio 2015, n. 31209; sezione prima, sentenza 11 febbraio 2014-5 giugno 2014, n. 23641)”.

È corretto, dunque, affermare che la Consulta, laddove ha vagliato la compatibilità della previsione normativa in scrutinio con la Carta costituzionale e con la CEDU, ha preso atto di un percorso giurisprudenziale pluriennale, avviato ben prima della pronuncia della Corte EDU De Tommaso e conclusosi dopo la sua decisione, che ha definito in modo tassativo i parametri utili per la valutazione della condizione di pericolosità.

La sentenza n. 24 del 2019 non ha, pertanto, individuato alcuna precisa cesura temporale tra un ipotetico periodo in cui la norma era “generica” e quello successivo, in cui soltanto l’interpretazione giurisprudenziale avrebbe definito la base legale per le valutazioni in ordine alla sussistenza della condizione di pericolosità.

Il riferimento operato dalla stessa Corte costituzionale al contenuto dato alla norma in esame dalla giurisprudenza di legittimità, già antecedentemente alla sentenza della Corte EDU De Tommaso, come successivamente ripreso e rafforzato, ha svolto una funzione ricognitiva del contenuto della disposizione oggetto di scrutinio, che ha portato alla constatazione della sua conclusiva sufficiente determinatezza e, quindi, della sua validità costituzionale secondo i parametri evocati, così da consentire ai propri destinatari, in conformità alla costante giurisprudenza della Corte EDU sui requisiti di qualità della “base legale” della restrizione, di prevedere la futura possibile applicazione di tali misure.

In secondo luogo, deve anche sottolinearsi che, nel caso in esame, il giudizio di pericolosità generica ex art. 1, lett. b), D.Lgs. cit., è stato condotto alla stregua degli esiti ricavati dai molteplici procedimenti penali svoltisi nei confronti del ricorrente, conclusisi anche con sentenza irrevocabile. Invero, se si ha riguardo ai presupposti di fatto su cui si è fondato il giudizio di pericolosità, se ne ricava che l’attività delittuosa del proposto è per la gran parte consistita nella commissione di delitti lucro-genetici, che ha interessato un significativo arco temporale del suo stile di vita (2014-2018), costituendo la componente preponderante del proprio reddito.

Il giudizio di pericolosità sociale, pertanto, si ammanta di indici di disvalore che, facendo leva su condotte di reato, sono tutt’altro che indefiniti e perfettamente continenti al tipo criminologico per come assentito dalla stessa giurisprudenza costituzionale. Con la conseguenza che il lamentato vulnus alla prevedibilità della decisione si rivela del tutto assertivo, in quanto la fattispecie posta a base del giudizio di pericolosità non sconfina affatto dai limiti di precisione e determinatezza fissati dalla giurisprudenza richiamata e non si pone in controtendenza col risultato a cui la giurisprudenza “tassativizzante” è pervenuta.

La natura meramente ricognitiva del portato giurisprudenziale rispetto alla fattispecie che contraddistingue il ricorrente esclude che, al momento della condotta, vi fossero segnali, concreti e specifici, che in futuro avrebbero attribuito a quel comportamento un disvalore differente da quello già insito negli elementi descrittivi della relativa categoria di pericolosità generica.

La condotta indicativa della pericolosità, nel momento in cui si è espressa, era pienamente conforme agli standard qualitativi richiesti anche dalla giurisprudenza convenzionale per la compressione dei diritti fondamentali, integrando appieno quel nucleo dì disvalore in relazione al quale, nella stessa giurisprudenza di merito, non si erano registrate oscillazioni ai fini dell’assunzione a presupposto della misura.

Peraltro, per quanto è dato espressamente ricavare dal decreto impugnato, la misura di prevenzione risulta essere stata applicata anche in relazione alla pericolosità qualificata ex art. 4, lett. b), D.Lgs. cit., conseguente all’essere il proposto imputato di plurime estorsioni, non solo tentate ma anche consumate, commesse da dicembre 2015 a ottobre 2017, aggravate dal metodo mafioso ex art. 416-bis.l cod. pen., nonché raggiunto da ordinanza di custodia cautelare per i delitti di intestazione fittizia ex art. 512-bis cod. pen., aggravato dall’art. 416-bis. 1 cod. pen. e di usura, commessi tra il 9 dicembre 2019 e il giugno 2020.

Si tratta di un aspetto che finisce anche per privare di decisività l’argomento cardine su cui è fondato il motivo di ricorso, incentrato sull’asserita carenza tassativizzante dello statuto normativo delle misure di prevenzione rispetto a fattispecie di pericolosità generica temporalmente antecedenti alle pronunce della Corte EDU e della Corte costituzionale in precedenza indicate.

18.2. Anche il secondo motivo, con cui si deduce l’assenza di un’idonea piattaforma indiziaria a corredo del giudizio di pericolosità, è manifestamente infondato.

È costante nella giurisprudenza della Corte di legittimità l’affermazione secondo cui tra il procedimento di prevenzione e il processo penale sussistono profonde differenze funzionali e strutturali: nel primo si giudicano condotte complessive, ma significative della pericolosità sociale, mentre nel secondo si giudicano singoli fatti da rapportare a tipici modelli di antigiuridicità. La ontologica diversità spiega, allora, la reciproca autonomia dei due processi e il fatto che nel procedimento di prevenzione il giudice è legittimato a servirsi di elementi probatori e indiziari tratti dai procedimenti penali, prescindendo dalla conclusione alla quale si è pervenuti in tale sede, facendosi carico di individuare le circostanze di fatto rilevanti e ivi accertate per rivalutarle nell’ottica del giudizio di prevenzione (ex multis, Sez. 1, n. 5786 del 21/10/1999, dep. 2000, Castelluccia, Rv. 215117 – 01; Sez. 1, n. 5522 del 03/11/1995, Repaci, Rv. 203027 – 01).

Per tale ragione è possibile che il giudice della prevenzione prenda atto dell’esistenza di un giudicato penale, relativo ad un “fatto” coincidente con una fattispecie delittuosa e per cui sia intervenuta una condanna passata in giudicato: in tal caso, infatti, gli “elementi di fatto” sono direttamente evincibili dalla sentenza che ha riconosciuto la loro conformità alla fattispecie di reato per cui è intervenuta la condanna.

Nondimeno, è altresì possibile che l’accertamento “pieno” del fatto venga – in sede di prevenzione – desunto da una pronuncia che, in sede penale, abbia tuttavia dovuto constatare la intervenuta prescrizione del reato. In tale direzione conducono le norme di cui agli artt. 578 e 578-bis cod. proc. pen. e, in termini più attinenti al tema che ci occupa, la norma di cui all’art. 578-ter, cod. proc. pen., a tenore della quale il giudice della prevenzione può utilizzare le risultanze di un procedimento penale, non esitato in una sentenza di condanna, per ricavare e ricostruire gli “elementi di fatto” su cui fondare la diagnosi di pericolosità generica ex art. 1 D.Lgs. n. 159 del 2011.

L’autonomia del giudizio penale, relativo alle medesime evidenze in fatto, si sostanzia, del resto, anche in termini di indipendenza del relativo esito, sia questo pregresso o parallelo al procedimento di prevenzione. In tale ipotesi, quindi, anche l’eventuale giudizio di assoluzione, per la diversa “grammatica probatoria” che connota l’accertamento di prevenzione, diretto a verificare la pericolosità del proposto, finisce per non ostacolare l’applicazione della misura di prevenzione, sempre che il fatto considerato dalle due situazioni processuali non sia stato escluso nella sua ontologica sussistenza da parte del giudice penale (Sez. 2, n. 4191 del 11/01/2022, Stanisela, Rv. 282655 – 01; Sez. 2, n. 33533 del 25/06/2021, Avorio, Rv. 281862; Sez. 5, n. 48090 del 08/10/2019, Ruggeri, Rv. 277908 – 01; Sez. 6, n. 4668 del 08/01/2013, Parmigiano, Rv. 254417 – 01; Sez. 5, n. 1968 del 31/03/2000, Mannone, Rv. 216054 – 01).

Ovviamente poiché l’art. 1, lett. b), del D.Lgs. cit. richiede che l’accertamento delle pregresse condotte delittuose ai fini della valutazione della pericolosità generica avvenga sulla base di “elementi di fatto”, il giudice della prevenzione non può basare il suo accertamento su meri sospetti ed indizi, ma è tenuto a prendere in considerazione fatti storicamente apprezzabili, tali essendo anche quelli deducibili non solo da sentenze di condanna e/o di proscioglimento, ma anche da atti di indagine (ex multis, Sez. 1, n. 43826 del 19/04/2018, R., Rv. 273976 – 01).

A tali principi di diritto si sono correttamente attenuti i giudici della prevenzione.

Il quadro probatorio in atti, diffusamente richiamato nei suoi esiti dal Tribunale e lungi dal fondarsi su elementi tratti da esiti assolutori, comprova una pluralità di delitti contro il patrimonio e con finalità lucrativa commessi nell’arco temporale compreso tra il 2014 ed il 2018, essendosi dato risalto, oltre all’analitica enunciazione delle condanne e delle pendenze a carico del proposto, all’evoluzione dell’attività criminosa posta in essere dal ricorrente, accentuata e consolidatasi nel tempo, per come successivamente avvalorato anche dall’ordinanza di custodia cautelare al medesimo applicata per i reati di cui all’art. 512-6/s cod. pen., aggravato ex art. 416-bis.1 cod. pen., nonché all’art. 644 cod. pen., risalenti al periodo compreso tra il 9 dicembre 2019 e il mese dì giugno 2020.

In tale ambito, la natura ed il significativo numero di delitti riconducibili al A.A. danno complessivamente conto dell’abitualità al reato e costituiscono indici logicamente rivelatori della produzione di illecito profitto se letti alla luce dell’ulteriore dato costituito dall’assenza di adeguate lecite fonti di reddito.

L’apprezzamento della pericolosità è stato, dunque, condotto in forza di esiti relativi a procedimenti penali in cui l’ipotesi accusatoria ha trovato conferma in successive condanne, anche irrevocabili, ovvero ordinanze di custodia cautelare che non risultano essere state censurate nei successivi gradi di impugnazione e in forza di condotte di reato corrispondenti al tipo criminologico indicato dalla norma regolatrice che si intende applicare, escludendosi, quindi, che si sia fatto riferimento a condotte genericamente devianti o denotanti un semplice avvicinamento a contesti delinquenziali.

Anzi, è lo stesso giudice della prevenzione a dare conto del rigore metodologico sotteso alla sua valutazione, essendosi esclusi, ai fini della perimetrazione temporale della pericolosità, i risultati delle investigazioni non esitate nell’avvio di procedimenti penali ovvero confluite anche in provvedimenti cautelari che non hanno trovato conferma nel giudizio di merito essendo il proposto stato assolto.

Peraltro, per la configurabilità della pericolosità generica in esame non si richiede che l’analisi si spinga al punto da formulare, per ciascuna fattispecie criminosa a sfondo patrimoniale una specifica verifica dell’effettivo risultato economico conseguito dall’autore del reato. Una tale indagine compete, infatti, al giudice del merito e non a quello della prevenzione.

Ciò che si richiede, oltre all’abitualità della condotta illecita, è la capacità dei delitti commessi di produrre reddito illecito, requisito certamente configurabile in presenza dei plurimi delitti contro il patrimonio evidenziati nel provvedimento impugnato.

Occorre, insomma, che quei delitti si prestino, anche in ragione della sproporzione tra disponibilità acquisite nell’arco temporale corrispondente alla suddetta pericolosità e l’assenza di adeguate fonti lecite di reddito, ad assumere idonea valenza di indicatori della possibilità di iscrivere il soggetto proposto in una delle categorie criminologiche previste dalla legge, posto che il soggetto coinvolto nel procedimento di prevenzione e destinatario del giudizio di pericolosità “non viene ritenuto “colpevole” o “non colpevole” in ordine alla realizzazione di un fatto specifico, ma viene ritenuto “pericoloso” o “non pericoloso” in rapporto al suo precedente agire (per come ricostruito attraverso le diverse fonti di conoscenza) elevato ad “indice rivelatore” della possibilità di compiere future condotte perturbatrici dell’ordine sociale costituzionale o dell’ordine economico e ciò in rapporto all’esistenza di precise disposizioni di legge che “qualificano” le diverse categorie di pericolosità” (Sez. 1, n. 23641 del 11/02/2014, Mondini, Rv. 260103 -01).

Diversamente argomentando, per come correttamente rilevato dalla Corte di merito, si finirebbe per sovrapporre la misura di prevenzione patrimoniale della confisca all’omonima misura di sicurezza di cui all’art. 240 cod. pen. che è prevista – tra le altre ipotesi – per le cose che sono il prodotto o il profitto del reato, così rendendo superfluo l’istituto oggi disciplinato dal D.Lgs. n. 159 del 2011, quantomeno con riferimento all’ipotesi qui in discorso della pericolosità sociale generica di cui alla lett. b) dell’art. 1.

Il fatto che talune ipotesi di reato si siano arrestate alla soglia del tentativo ovvero non abbiano – a detta del ricorrente – consentito la realizzazione di congrui guadagni illeciti, non elide affatto la valenza del giudizio di pericolosità espresso, in quanto il dato si presta correttamente ad essere evocato per supportare il requisito di fattispecie costituito dall’abitualità al crimine, quale fonte di ingiustificati arricchimenti.

Anche la ricettazione di un’arma può essere continente col giudizio di pericolosità, costituendo indice di collegamento con la criminalità e risultando strumentale alla commissione di delitti contro il patrimonio.

Alle stesse conclusioni può giungersi riguardo alle fattispecie tentate. A conferma di tale assunto depone il rinvio che lo stesso art. 4, lett. b), del D.Lgs. cit. opera con riguardo alle categorie di soggetti pericolosi qualificati, ove si fa espresso riferimento “ai soggetti indiziati di uno dei reati previsti dall’art. 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale”, disposizione che comprende sia i procedimenti “per delitti tentati” che quelli “per delitti consumati”.

E tanto a prescindere dal fatto che il decreto impugnato, in relazione al coinvolgimento del ricorrente nella vicenda criminosa di cui al procedimento penale pendente dinanzi all’autorità giudiziaria di Foggia, sottolinei che il procedimento attiene anche ad ipotesi di estorsione consumata, aggravata dalla modalità mafiosa.

Peraltro, riguardo alla valenza che è stata attribuita agli esiti di tale procedimento, va ribadito che, proprio in forza dell’autonomia del procedimento di prevenzione rispetto a quello penale, nessuna preclusione incontra il giudice della prevenzione nel fare riferimento, tra gli elementi indiziari indicati a corredo della pericolosità, agli esiti istruttori rappresentati dalle dichiarazioni della vittima della tentata estorsione che ha riconosciuto tra gli autori anche il proposto.

Inoltre, dalla lettura del decreto impugnato, risulta che il riferimento all’attendibilità che il dichiarato avrebbe già conseguito nell’ambito del processo celebratosi nei confronti di alcuni coimputati con diverso rito e conclusosi con sentenza irrevocabile per gli stessi fatti, risulta essere stato condotto mediante l’acquisizione dei relativi verbali di prova; tale apprezzamento, lungi dal costituire un’indebita interferenza nella valutazione che il giudice della prevenzione ha condotto nei confronti del ricorrente, ne concorre legittimamente ad avvalorare l’esito, sol se si consideri la valenza probatoria che anche il codice di rito assegna alle sentenze divenute irrevocabili nei confronti dei coimputati ai fini della prova di fatto in esse accertato, valutabili a norma degli artt. 187 e 192, comma 3, cod. proc. pen.

Infine, inammissibile è il denunciato difetto di correlazione fra la proposta, avanzata solo per la pericolosità generica, e la decisione che avrebbe riguardato anche la pericolosità qualificata del proposto, in quanto non risulta che la doglianza sia stata previamente sottoposta alla Corte territoriale con uno specifico motivo di appello, benché il Tribunale abbia espressamente fatto riferimento a tale categoria quale ulteriore indice della pericolosità, stante la pendenza dinanzi all’autorità giudiziaria di Bari del procedimento nel quale sono contestati al ricorrente delitti aggravati anche ai sensi dell’art. 416-bis.1 cod. pen.

Se si ha, riguardo, infatti, ai motivi svolti con i due atti di appello, risulta che la difesa, pur confrontandosi con la conclusione alla quale era pervenuto il Tribunale di ritenere il proposto pericoloso qualificato perché pendente a suo carico

dinanzi all’autorità giudiziaria barese un procedimento nel quale sono contestati delitti aggravati ai sensi dell’art. 416-bis.l cod. pen., censurò soltanto la portata dimostrativa del dato giudiziario, ma non articolò alcuna specifica doglianza in ordine al difetto di correlazione tra la proposta – avanzata dal pubblico ministero ai sensi dell’art. 1, lett. b), D.Lgs. cit. – e la decisione più ampia a cui è pervenuto il giudice della prevenzione.

18.3. Il terzo motivo, con cui si denuncia la violazione degli artt. 24 e 26 D.Lgs. n. 159 del 2011 in ordine all’esistenza della sproporzione tra redditi leciti e unità immobiliari confiscate, è fondato nei limiti di cui in motivazione.

Anzitutto, deve riconoscersi la legittimazione e l’interesse del ricorrente a censurare la confisca delle due unità immobiliari (un appartamento e un box di pertinenza siti in Pescara), sebbene ne risulti formalmente proprietaria la moglie. Il giudice della prevenzione ha, infatti, accertato la simulazione della separazione personale a cui i coniugi erano pervenuti alla fine del 2015, desumendola dalle condizioni che ne regolavano lo scioglimento, tra le quali era stabilito il successivo trasferimento – privo di corrispettivo in denaro – delle due unità immobiliari in oggetto dal proposto (che ne era in precedenza l’esclusivo titolare) a favore della B.B., la quale si accollava il restante mutuo.

Si legge, infatti, nel decreto impugnato che “la proprietà e la disponibilità dei suddetti beni era e resta in capo a A.A. Giovanni”. Il ricorrente, in questo caso, allegando di aver acquistato, in tutto o in parte, i beni lecitamente, è portatore di un interesse all’ottenimento di una pronuncia che accerti la mancanza delle condizioni legittimanti l’applicazione del provvedimento (Sez. 6, n. 5095 del 09/01/2024, Galdi, non mass.; Sez. 2, n. 25421 del 30/05/2024, Morabito, non mass.; Sez. 5, n. 39695 del 07/09/2023, Alafleur, non mass.; Sez. 1, n. 20717 del 21/01/2021, Loiero, Rv. 281389 – 01).

Tanto premesso, il Collegio osserva che il dato costituito dal rilievo che gli immobili erano entrati nella disponibilità del A.A. prima della perimetrazione del periodo di pericolosità (2014-2018) non assume alcun decisivo rilievo al fine di asseverare la legittimità dell’acquisto.

Se, invero, l’effetto traslativo va certamente riferito all’atto del rogito e, quindi, al 30 giugno 2010, risulta però che il pagamento del corrispettivo avvenne mediante la stipulazione di un contratto di mutuo, acceso contestualmente all’acquisto, rinegoziato il 31 ottobre 2016, con scadenza al 30 giugno 2024. L’adempimento dell’obbligazione viene, infatti, a comprendere anche il periodo di pericolosità generico stabilito dal 2014 al 2018 in relazione al quale, con congrua motivazione, si è evidenziata l’assenza di congruità delle legittime entrate del nucleo familiare A.A.-B.B. a far fronte alle rate di mutuo senza ricorrere ai proventi dell’attività delittuosa del proposto.

Ciò esclude che l’acquisto della proprietà sia esente dall’interferenza causale derivante dalla provvista illecita di cui il ricorrente è stato accertato disporre in relazione al periodo sopra indicato e che ha utilizzato anche per il pagamento delle relative rate di mutuo.

Al riguardo, la Corte d’Appello ha fatto buon governo del principio, che vale per la confisca allargata come per quella di prevenzione, per cui non rileva, ai fini della giustificazione della provenienza del bene, che la provvista impiegata per l’acquisto del bene sottoposto a sequestro sia costituita da somme erogate a titolo di mutuo, nel caso in cui il denaro destinato all’adempimento dell’obbligazione nascente da tale contratto provenga dallo svolgimento di attività criminosa (ex multis, Sez. 6, n. 21347 del 10/04/2018, Salanitro, Rv. 273388 – 01; Sez. 5, n. 33038 del 08/06/2017, Valle, Rv. 271217 – 01; Sez. 6, n. 31751 del 09/06/2015, Catalano, Rv. 264461 – 01).

Del tutto generiche sono le censure mosse riguardo ad un’asserita capacità del nucleo familiare di poter sostenere i relativi oneri con risorse lecite, anche in considerazione del minore importo della rata dovuto alla rinegoziazione, non confrontandosi il motivo di ricorso con la diffusa motivazione con cui la Corte di merito ricostruisce, sulla base degli esiti delle indagini patrimoniali e finanziarie puntualmente passate in rassegna, la sperequazione fra i redditi necessari per la vita familiare e i redditi prodotti lecitamente, anche in ordine alla attendibilità del metodo seguito per accertarla che, a sua volta, fa leva anche su quanto diffusamente esposto dal Tribunale.

Parimenti generico è il richiamo alla relazione del consulente di parte, le cui critiche sul metodo di stima seguito vengono specificamente analizzate dal decreto impugnato, in modo certamente non apparente.

Fondato, invece, è il motivo di ricorso nella parte in cui lamenta l’illegittima confisca delle intere unità immobiliari.

Il provvedimento impugnato, pur dando atto che parte del mutuo contratto è stata pagata in un periodo anteriore a quello a cui è ancorata la pericolosità sociale del A.A., ha ritenuto prevalente, ai fini dell’intera confisca dei beni, il valore complessivo residuo delle due unità immobiliari, ancora da corrispondere al momento della rinegoziazione del mutuo.

Si tratta, però, di una conclusione che si espone a due rilievi.

Il primo attiene alla mancanza di motivazione in ordine alla correlazione temporale tra il periodo di pericolosità e le risorse successivamente impiegate per onorare le rate di mutuo dopo il 2018.

Affinché quanto versato dopo la cessazione del periodo di pericolosità assuma valenza a fini dell’acquisizione in modo preponderante del bene occorre sempre un collegamento di tipo eziologico tra il fatto presupposto, la pericolosità del proposto e l’incremento patrimoniale “ingiustificato” che ha generato i beni oggetto di confisca, alla luce anche del principio affermato da questa Corte secondo cui “è legittimo disporre la misura ablativa su beni acquisiti in periodo successivo a quello, individuato nel provvedimento, di manifestazione della pericolosità sociale, ove ricorra una pluralità di indici fattuali altamente dimostrativi della diretta derivazione causale delle acquisizioni patrimoniali dalla provvista formatasi in detto periodo” (Sez. 5, n. 1543 del 23/11/2020, dep. 2021, Marotta, Rv. 280667 – 02; Sez. 1, n. 12329 del 14/02/2020, Turchi, Rv. 278700 – 01; Sez. 2, n. 14165 del 13/03/2018, Alma, Rv. 272377 – 01).

Il secondo riguarda il rispetto del principio di proporzionalità, posto che non può essere disposta l’ablazione di un bene immobile nella sua interezza ove il pagamento del prezzo di acquisto sia avvenuto in parte con redditi di provenienza lecita, salvo il caso in cui la preponderanza della provvista proveniente da disponibilità prive di giustificazione sia tale da rendere irrisoria, anche per la peculiare natura e consistenza economica del bene, la quota di conferimento lecita (Sez. 6, n. 35893 del 20/06/2019, Quacquarelli, Rv. 276832 – 01, fattispecie in cui la Corte ha ritenuto legittimo il dissequestro di un immobile nei limiti di una quota del 18%, pari all’importo della provvista di provenienza lecita, pur se considerevolmente inferiore rispetto alla quota ritenuta di provenienza illecita; nello stesso senso, Sez. 6, n. 31634 del 17/05/2017, Lamberti, Rv. 270711 – 01, ove si è affermato che la confisca integrale di un complesso aziendale può essere disposta solo nel caso di assoluta o prevalente natura illecita delle risorse impiegate per l’acquisto dei beni e la formazione del capitale, dovendosi altrimenti distinguere gli apporti leciti da quelli illeciti e sottoporre ad ablazione solo quelle parti o quote di valore e di patrimonio riferibili ai secondi).

Nel caso in esame, dalla lettura del provvedimento impugnato risulta che prima del periodo di pericolosità (dal 31 luglio 2010 al 31 dicembre 2013) risultavano pagate rate di mutuo per oltre Euro 40.000,00, a fronte di un monte rate relativo al periodo oggetto di contestazione (2014-2018) pari ad Euro 54.948,00. La sola sproporzione accertata nel perimetro di pericolosità non consente di ritenere sussistente il presupposto della connessione cronologica fra pericolosità e sproporzione complessiva nell’acquisto, difettando il primo elemento della relazione.

Va, pertanto, disposto l’annullamento del decreto impugnato limitatamente alla confisca dell’immobile posto in Pescara via (omissis) Snc con relativa pertinenza, con rinvio alla Corte di appello di Bari per nuovo giudizio sul punto.

19. I ricorsi proposti con unico atto nell’interesse di D.D. e C.C. sono inammissibili.

19.1. Preliminarmente vanno ritenute inammissibili – in forza del principio di diritto in precedenza enunciato – le censure contenute nel secondo e nell’ottavo motivo nella parte in cui i terzi contestano i requisiti di pericolosità soggettiva del proposto, ovvero il requisito della sproporzione, potendo costoro rivendicare soltanto l’effettiva titolarità dei beni confiscati.

Scrutinabili, invece, per quanto osservato a proposito della questione oggetto di rimessione, debbono ritenersi i motivi con cui il terzo contesta la riferibilità dei plessi societari al proposto al fine di dimostrarne l’effettiva titolarità. Si tratta, infatti, di profili che ineriscono al tema di prova relativo all’intestazione fittizia e, in particolare, sono volti a dedurre in ordine all’assenza di capacità dimostrativa degli elementi in forza dei quali il giudice della prevenzione ha ritenuto la sua titolarità meramente apparente e i beni nella disponibilità del proposto.

19.2. I motivi sub 5.1, 5.2, 5.3, 5.8, 5,9 e 5.10 – che attengono alla riconducibilità al A.A. delle società confiscate – non sono consentiti in sede di legittimità e, comunque, risultano manifestamente infondati.

Riguardo alla riconducibilità al proposto delle società e dei beni dalle stesse acquistati nel periodo di pericolosità, per come perimetrato dai giudici della prevenzione, la lettura del provvedimento impugnato consente di escludere qualsiasi paventata violazione di legge.

Il decreto ha illustrato, con motivazione esauriente, esente da vizi, che l’interposizione di persona emerge da molteplici elementi di riscontro.

In particolare, con riferimento alla “G.G.S. Srl”, si è richiamato il contenuto dell’attività tecnica svolta, che riguarda sia conversazioni del proposto che risultanze investigative sulla disponibilità da parte di questi di una carta bancomat intestata alla società, nonché le sommarie informazioni di persone coinvolte in vicende negoziali con la società che convergono nel riferire al A.A. la qualità di dominus della relativa compagine in virtù degli atti decisionali e dispositivi dallo stesso assunti.

Si è poi escluso che D.D. e D.D., avvicendatisi nel ruolo di socio e di amministratore della società, avessero avuto, nell’arco temporale in esame, diponibilità finanziarie idonee ad alimentare le risorse della società e che la stessa avesse conseguito utili di esercizio significativi a far fronte agli incrementi patrimoniali di consistente valore, come quelli realizzati sia con i diversi acquisti immobiliari operati che mediante i diversi impegni finanziari assunti.

Si è, poi, al contempo evidenziato – attraverso l’esito delle indagini svolte nei confronti della società sin dal momento della costituzione a quello in cui le quote sociali sarebbero state trasferite al D.D. – come l’operatività della persona giuridica, avuto riguardo alla proporzione tra la redditività d’impresa, investimenti e operazioni immobiliari effettuate da un lato, e capacità economiche dei formali intestatari dall’altro, non potesse non essere alimentata anche da proventi di provenienza illecita conseguiti nel periodo di attivazione criminale del proposto.

Ad analogo risultato si è pervenuti riguardo alla “R. Srl” facendosi riferimento al dichiarato di persone informate sui fatti, al dato indiziario costituito dai trasferimenti di quote che hanno determinato l’assetto proprietario per effetto di passaggi intermedi cui hanno preso parte stretti familiari del proposto (moglie e fratello), alle risultanze in ordine all’assenza di giustificazioni finanziarie esaustive a corredo dei beni acquistati dalla società.

Non si è fatto ricorso, pertanto, ad automatismi legati a mere presunzioni di carattere parentale (che, come noto, non operano nel caso in cui le intestazioni o i trasferimenti dei beni siano collocabili in epoca antecedente ai due anni antecedenti alla proposta), ma ad una convergenza di plurimi elementi indiziari dimostrativi del tema di accusa, nell’ambito dei quali quei rapporti sono stati logicamente letti quale ulteriore indizio del disegno di accentramento perseguito dal proposto.

Motivatamente disatteso risulta anche il rilievo conferito dalla difesa all’epoca di costituzione delle società, peraltro di poco anteriore a quello di manifestazione della pericolosità sociale del proposto.

Quanto alla “G.G.S. Srl” si è precisato che l’accrescimento del patrimonio immobiliare ricade appieno nel periodo di pericolosità, con la conseguenza che non manifestamente illogico è l’aver ritenuto che possa trovare giustificazione soltanto grazie al ricorso alle risorse provenienti dall’attività illecita del proposto.

Quanto alla “R. Srl”, si è sottolineato che i conti (corrente e deposito) oggetto di confisca risultano accesi anch’essi nell’arco temporale in cui si è manifestata la pericolosità sociale di A.A.

Corretta applicazione, poi, si è fatta dei principi dettati dalla Corte di legittimità in materia di confisca di plessi societari.

Al riguardo, si è messo in risalto come, ai fini della confisca di prevenzione nel caso di società, ciò che rileva non è tanto la dimostrazione che il terzo abbia avuto la capacità economica di acquistare le quote, quanto di avere effettivamente esercitato i propri diritti di socio, ovvero, nel caso in cui abbia, altresì, ricoperto il ruolo di amministratore, di avere gestito in modo autonomo la società e di essere estraneo al complessivo illecito “programma” riferibile al proposto (Sez. 5, n. 18010 del 14/03/2024, Lo Monaco, non mass.; Sez. 2, n. 16485 del 10/04/2024, del li ni, non mass.; Sez. 2, n. 31549 del 06/06/2019, Simply Soc. coop., Rv. 277225 – 09).

Inoltre, si è precisato che la confisca di prevenzione, anche in ipotesi di pericolosità generica, “si estende, quando ricorra un’attività d’impresa esercitata in forma societaria, a tutto il patrimonio aziendale ed all’insieme delle quote nella disponibilità del proposto, anche se formalmente intestate a terzi, ove sia dimostrato che la costituzione delle società ovvero l’acquisizione, anche in via di fatto, delle relative partecipazioni siano strumentali al perseguimento di attività illecite, poiché in tal caso è l’attività economica nel suo complesso, gestita dal soggetto pericoloso, a costituire un fattore patogeno ed inquinante del mercato per la permanente immissione di profitti illeciti che si autoalimentano e confondono con quelli leciti. (Sez. 5, n. 37297 del 23/06/2022, Boccia, non mass.; Sez. 6, n. 30932 del 04/07/2022, Colagrande, non mass.; Sez. 2, n. 31549 del 06/06/2019, Simply Soc. coop., Rv. 277225 – 07).

Venendo, poi, alle doglianze mosse in ordine alla riconducibilità della “R. Srl” al proposto, si è fatto riferimento alle dichiarazioni di J.J. Michele, il quale, dopo avere precisato di avere lavorato presso la ditta di “A.A. e I.I.”, ossia la “R. Srl”, ha dichiarato che venne licenziato da “Gianluca”, alias di A.A.

Si sono poi richiamate le dichiarazioni del padre Nicola J.J., il quale ha riferito che il figlio aveva lavorato da “A.A.”, nonché quelle dell’altro socio I.I., il quale, pur annoverando una partecipazione paritaria, ha indicato nel D.D. il reale proprietario del 100 per cento delle quote.

Si è, poi, attribuito rilievo al trasferimento delle quote che hanno determinato l’attuale assetto proprietario per effetto di passaggi intermedi cui hanno preso parte moglie e fratello del proposto, nonché alla completa mancanza di disponibilità patrimoniali da parte di D.D. che ne risulta il formale titolare.

Inoltre, si è precisato che i beni acquistati in epoca concomitante a quella di attivazione criminale del proposto risultano finanziariamente ingiustificabili se non per effetto dei risparmi di spesa derivanti dalle violazioni fiscali al medesimo contestate nel procedimento che lo vede imputato dinanzi al Tribunale di Foggia.

Da tali argomenti discende, quindi, l’inconferenza, ai fini del lamentato vizio di violazione di legge, degli esiti differenti a cui sarebbe, a detta dei ricorrenti, contraddittoriamente pervenuto il giudice della prevenzione con riferimento all’altra società “Immobiliare E.E. Srl”, per la quale il Tribunale aveva rigettato anche la richiesta di sequestro anticipato dei beni.

Dalla lettura del decreto del Tribunale risulta, infatti, che il rigetto della confisca consegue alla circostanza, di carattere dirimente, che la costituzione della società – con capitale interamente versato – è avvenuta ben prima del periodo di attivazione della pericolosità del proposto. Nel caso relativo alle altre due società, invece, non solo il momento costitutivo è, per come già evidenziato, più prossimo alla manifestazione del periodo di pericolosità, ma entrambe risentono – nel periodo in esame – di operazioni finanziarie e commerciali che i giudici di merito hanno ricondotto alla provvista di derivazione illecita riconducibile al A.A.

Il ricorrente lamenta, altresì, l’inattendibilità delle dichiarazioni rese da J.J., richiamando l’inosservanza dei criteri di valutazione della prova stabiliti dal rito penale.

Ma, per come affermato da questa Corte, considerata l’autonomia del procedimento di prevenzione rispetto al giudizio di merito, la prova indiretta o indiziaria non deve essere dotata dei caratteri prescritti dall’art. 192 cod. proc. pen., né le chiamate in correità o in reità devono essere necessariamente sorrette da riscontri individualizzanti (Sez. 5, n. 50202 del 08/10/2019, Cottitto, Rv. 278049 – 01; Sez. 5, n. 17946 del 15/03/2018, Buggea, Rv. 273036 – 01; Sez. 1, n. 6636 del 07/01/2016, Pandico, Rv. 266365 – 01).

In conclusione, a fronte degli elementi indiziari richiamati dal decreto impugnato, le censure finiscono per ridondare non solo in non consentiti vizi di motivazione, ma anche inammissibili questioni attinenti al risultato di merito della valutazione giudiziale compiuta e all’esercizio della discrezionalità del giudice della prevenzione e non alla sua radicale carenza, non deducibili, in forza del disposto normativo di cui agli artt. 10, comma 3, e 27, comma 2, del D.Lgs. n. 159 del 2011, col ricorso per cassazione.

Tanto rende esente il provvedimento impugnato anche dalle generiche doglianze volte a sollecitare integrazioni probatorie.

19.3. Anche i motivi sub 5.4, 5.5, 5,6 e 5.7, che attengono all’immobile confiscato a C.C., sono inammissibili.

Invero, la Corte di appello ha ritenuto operante la riferibilità al proposto del bene intestato alla figlia rivalutando le circostanze di fatto che portavano ad escludere che l’acquisto effettuato nel 2016 potesse essere operato con redditi propri della ricorrente (all’epoca diciannovenne e priva di fonti di reddito) e che fosse verosimile la riconducibilità ad atto di liberalità del trasferimento del bene in favore di quest’ultima da parte dei danti causa D.D. e F.F., i quali avrebbero fatto fronte al pagamento delle rate di mutuo, in forza di capacità reddituali che sono state ritenute inadeguate alla luce dei complessivi oneri da ciascuno di costoro ordinariamente da sostenersi.

Con ulteriori argomenti in fatto, non contestabili sotto il profilo della violazione di legge, la Corte di merito ha ritenuto l’assenza di prova adeguata della provvista che sarebbe stata impiegata e destinata per l’acquisto dell’immobile, richiamando anche l’opacità dei rapporti tra il proposto e coloro che fanno parte della sua ristretta cerchia familiare, per come comprovato anche dalle altre vicende per cui si è giunti alla confisca dei beni.

Nel caso in esame, pertanto, contrariamente a quanto dedotto, la confisca risulta disposta non in forza della presunzione di riconducibilità al genitore di cui all’art. 26 D.Lgs. cit. bensì quale conseguenza di uno specifico accertamento circa l’impossibilità di ritenere che la figlia avesse acquistato il bene con redditi propri e che l’operazione negoziale non fosse eziologicamente esente dalla provvista illecita derivante dall’attività delittuosa riferita al proposto.

Peraltro, sul punto, non affatto privo di rilievo è il principio di diritto affermato da questa Corte secondo cui, in tema di misure di prevenzione patrimoniali, i rapporti di parentela, affinità e convivenza diversi da quelli indicati dall’art. 26, comma 2, D.Lgs. cit., pur non comportando una presunzione relativa, integrano una circostanza di fatto significativa, con elevata probabilità, della fittizia intestazione di beni in capo al proposto, lì dove il familiare risulti sprovvisto di effettiva capacità economica (Sez. 6, n. 14600 del 16/02/2021, Sola, Rv. 281611 – 10; Sez. 6, n. 43446 del 15/06/2017, Cristodaro, Rv. 271222 – 01).

Esclusa la denunciata violazione di legge, i motivi di ricorso finiscono per sollecitare alla Corte di legittimità una non consentita rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dalla ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito.

20. In conclusione, il decreto impugnato deve essere annullato nei confronti di A.A. limitatamente alla confisca dell’immobile posto in P via (omissis) con relativa pertinenza, con rinvio per nuovo giudizio sul punto ad altra sezione della Corte di appello di Bari, dichiarandosi inammissibile nel resto il ricorso.

Vanno dichiarati inammissibili i ricorsi di D.D., C.C. e B.B., con condanna dei ricorrenti, ex art. 616 cod. proc. pen., al pagamento delle spese processuali e ciascuno al versamento della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende, così determinata in ragione dei profili di inammissibilità rilevati.

P.Q.M.

Annulla il decreto impugnato nei confronti di A.A. limitatamente alla confisca dell’immobile posto in P via (omissis) con relativa pertinenza e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello di Bari.

Dichiara inammissibile nel resto il ricorso di A.A.

Dichiara inammissibili i ricorsi di D.D., C.C., B.B. e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e ciascuno al versamento della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende.

Conclusione

Così deciso il 27 marzo 2025.

Depositato in Cancelleria il 5 settembre 2025.

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