Svolgimento del processo
1 – Il Tribunale Militare di Roma, con sentenza 26/9/2005, assolveva (omissis), ufficiale superiore dell'(omissis), dal delitto di diffamazione aggravata (art. 47 c.p.m.p., n. 2 e art. 227 c.p.m.p., commi 1 e 2) in danno del capitano (omissis), perchè il fatto non costituisce reato, ritenendo operativa la causa di giustificazione di cui all’art. 51 c.p., per essere stata la condotta incriminata imposta da “necessità difensiva”.
L’addebito mosso all’imputato è di avere, in data prossima al 21/9/1999, quale consulente dell’Avvocatura Generale dello Stato, che patrocinava gli interessi dell’Amministrazione militare, intervenuta, quale responsabile civile, nel procedimento penale per disastro aereo e omicidio colposo pendente dinanzi all’A.G.O. di Latina a carico del capitano (omissis), pilota del velivolo coinvolto nell’incidente dell'(omissis) in cui aveva perso la vita il (omissis), offeso la memoria di quest’ultimo, insinuando a carico del medesimo, nella “scheda riservata” trasmessa all’Avvocatura erariale e ad altri quattro Enti militari, dubbi circa la sua professionalità e attribuendogli la corresponsabilità dell’evento, per non avere adeguatamente svolto il suo ruolo di navigatore.
2 – Avverso la citata sentenza, proponevano appello il p.m. presso il Tribunale Militare e le parti civili (omissis) e (omissis), queste ultime sia agli effetti penali, ex art. 577 c.p.p., che a quelli civili.
Negli atti di gravame, si censurava il merito della vicenda, così come ricostruita dal giudice di primo grado, si deduceva – inoltre – l’erronea applicazione della legge penale e di quella processuale, con particolare riferimento all’operatività della esimente di cui all’art. 598 c.p. o di quella di cui all’art. 51 c.p., alla utilizzabilità del materiale probatorio acquisito e alla mancata integrazione istruttoria pur sollecitata.
3 – In pendenza di tali impugnazioni, entrava in vigore la L. 20 febbraio 2006, n. 46, contenente modifiche al codice di procedura penale in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento.
4 – La Corte Militare d’Appello di Roma, con ordinanza 16/6/2006, preso atto del mutato quadro normativo e in applicazione delle disposizioni transitorie di cui all’art. 10, commi 1 e 2, dichiarava inammissibile l’appello proposto dal p.m. e disponeva la trasmissione degli atti, per competenza, a questa Suprema Corte per la decisione in ordine all’impugnazione – qualificata come ricorso – proposta dalle parti civili. Rilevava, a quest’ultimo riguardo, che la parte civile, per effetto della nuova formulazione dell’art. 576 c.p.p. e dell’abrogazione del successivo art. 577 c.p.p., era legittimata a impugnare, ai soli effetti della responsabilità civile, sia le sentenze di condanna che quelle di proscioglimento esclusivamente con il ricorso per cassazione, in assenza di una specifica indicazione del diritto di proporre appello e stanti il principio di tassatività dei mezzi di impugnazione e l’eliminazione del richiamo, contenuto nel precedente testo dell’art. 576 c.p.p., all’utilizzabilità del “mezzo previsto per il pubblico ministero”.
Il p.m., di fronte alla declaratoria d’inammissibilità del suo appello, non si avvaleva della facoltà, consentitagli dalla disposizione transitoria di cui alla L. n. 46 del 2006, art. 10, comma 3, di proporre ricorso per cassazione.
5 – Pervenuti gli atti a questa Corte, venivano depositati in data 31 luglio e 16 ottobre 2006, nell’interesse rispettivamente delle parti civili (omissis) e (omissis), motivi nuovi, sottoscritti da difensore abilitato, ad integrazione di quelli principali già articolati nell’originario atto di gravame.
La prima sezione penale, assegnataria ratione materiae del ricorso, ne ha deliberato, con ordinanza 16/11/2006, la rimessione alle Sezioni Unite, rilevando l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale in ordine alla sorte dell’appello proposto dalla parte civile, sia agli effetti penali (reato di diffamazione) che a quelli civili, prima della entrata in vigore della L. n. 46 del 2006 e sottolineando specificamente i delicati profili interpretativi della nuova normativa.
Il Primo Presidente, con decreto 16/1/2007, ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite, fissando per la trattazione l’odierna udienza pubblica.
Motivi della decisione
1 – Le questioni che vengono in rilievo e che, per i riflessi che producono sul piano processuale, rivestono, allo stato, carattere pregiudiziale ed assorbente rispetto alle plurime censure mosse alla sentenza assolutoria pronunciata dal Tribunale Militare possono essere così sintetizzate: a) se l’appello proposto dal p.m. prima della entrata in vigore della L. n. 46 del 2006 e dichiarato inammissibile dalla Corte di merito ai sensi dell’art. 10, comma 2, medesima legge, dichiarata sul punto incostituzionale (sentenza n. 26/’07 C. Cost.), attribuisca persistente attualità al relativo rapporto d’impugnazione; b) se l’appello proposto dalla parte civile, anche agli effetti penali, prima dell’abrogazione dell’art. 577 c.p.p. ad opera della L. n. 46 del 2006, art. 9 conservi la sua validità ed efficacia; c) se, anche dopo le modificazioni dell’art. 576 c.p.p. ad opera della L. n. 46 del 2006, art. 6, la parte civile possa proporre appello, agli effetti del riconoscimento dei diritti civilistici di tipo risarcitorio o restitutorio, contro la sentenza di proscioglimento pronunciata nel giudizio di primo grado.
2 – Il quadro normativo di riferimento è quello di cui alla L. 20 febbraio 2006, n. 46, che ha profondamente modificato il codice di rito nella parte relativa alla impugnazione delle sentenze di proscioglimento.
Non va sottaciuto, peraltro, che, nelle more, la Corte Costituzionale, con sentenza n. 26 del 6/2/2007, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale il giorno successivo, dopo avere stigmatizzato la illogica menomazione recata dalla disciplina contenuta nella L. n. 46 al potere d’impugnazione della parte pubblica contro le sentenze assolutorie di primo grado, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, nella parte in cui, sostituendo l’art. 593 c.p.p., esclude che il pubblico ministero possa appellare contro le sentenze di proscioglimento, fatta eccezione per le ipotesi previste dall’art. 603 c.p.p., comma 2, se la nuova prova è decisiva, nonchè dell’art. 10, comma 2, nella parte in cui prevede che l’appello proposto contro una sentenza di proscioglimento dal pubblico ministero prima della data di entrata in vigore della “legge” è dichiarato inammissibile.
Il Giudice delle leggi, inoltre, con ordinanza n. 32 in pari data, ha dichiarato la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale concernente le disposizioni relative alla impugnazione della parte civile (art. 576 c.p.p. come novellato e L. n. 46 del 2006, art. 10). L’ordinanza della Consulta giustifica la conclusione alla quale perviene, rilevando che la sollevata questione di costituzionalità muove dalla premessa interpretativa in forza della quale la novella del 2006, in contrasto con i principi costituzionali di uguaglianza, di parità delle parti nel processo, di inviolabilità del diritto di azione e di difesa (artt. 3, 111, 24 Cost.), “avrebbe soppresso il potere di appello della parte civile”, premessa – questa – recepita con assoluta rigidità, senza neppure prendere in considerazione l’opposta opzione ermeneutica, pur presente nella giurisprudenza di legittimità, ed illustrare le ragioni di non condivisione dei relativi argomenti, con l’effetto che “la mancata utilizzazione dei poteri interpretativi che la legge riconosce, in via esclusiva, al giudice rimettente e la carenza di una verifica di altre e diverse soluzioni interpretative – per far fronte al dubbio di costituzionalità ipotizzato – integrano, nel modello del giudizio incidentale di costituzionalità, omissioni significative e tali da non abilitare il giudice a sollevare la questione di legittimità costituzionale”. In sostanza, il Giudice delle leggi, dando atto dell’assenza di un diritto vivente “conforme alla premessa interpretativa posta a base dei dubbi di legittimità costituzionale”, lascia implicitamente intendere che l’eventuale consolidarsi dell’orientamento interpretativo contrario all’ammissione dell’appello della parte civile avverso la sentenza di assoluzione dell’imputato pronunciata in primo grado non resisterebbe alla verifica di conformità alla Carta Fondamentale. La sentenza n. 26 e l’ordinanza (sostanzialmente interpretativa) n. 32 del 6/2/2007 si integrano tra loro, nella chiara prospettiva di restituire coerenza al sistema delle impugnazioni contro la sentenza di proscioglimento di primo grado e di garantire l’osservanza del principio di parità delle armi tra le parti.
Il quadro emergente dalle citate pronunce modifica in maniera incisiva i parametri normativi di riferimento sopra richiamati e pone il problema non secondario, come si preciserà in seguito, dell’efficacia da attribuire alle sentenze dichiarative dell’illegittimità costituzionale di una norma e alle ordinanze “interpretative” di inammissibilità pronunciate dalla Corte Costituzionale.
3 – La declaratoria d’incostituzionalità della L. n. 46 del 2006, art. 1 e dell’art. 10, comma 2 non spiega effetti sulla impugnazione a suo tempo proposta dal p.m. e dichiarata inammissibile dalla Corte Militare.
E’ ius receptum che la dichiarazione di illegittimità costituzionale ha efficacia erga omnes e acquista il valore di pronuncia di accertamento costitutivo, che elimina – per contrasto col precetto costituzionale – la norma scrutinata, con l’effetto che il giudice ha l’obbligo di non applicarla e tale obbligo incombe non soltanto al giudice del procedimento in cui è stata sollevata la relativa questione, ma anche al giudice di un qualsiasi altro giudizio in cui la norma medesima debba o possa essere assunta a canone di valutazione di qualsiasi fatto o rapporto venuto ad esistenza prima della pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale della sentenza della Consulta. Tale decisione ha per presupposto l’esistenza di un vizio che inficia sin dall’origine la norma (salva l’eccezione della cd. illegittimità costituzionale sopravvenuta), ha efficacia invalidante e non abrogativa, produce conseguenze assimilabili a quelle dell’annullamento, nel senso che incide, in coerenza con gli effetti propri di tale istituto, anche sulle situazioni pregresse verificatesi nel corso del giudizio nel quale è consentito sollevare, in via incidentale, la questione di costituzionalità, e spiega, pertanto, effetti non soltanto per il futuro ma anche retroattivamente in relazione a fatti o a rapporti instauratisi nel periodo in cui la norma incostituzionale era vigente, con esclusione, però, di quelle situazioni giuridiche ormai esaurite, non suscettibili cioè di essere rimosse o modificate, quali il giudicato, l’atto amministrativo non più impugnabile, l’operatività della sanzione della decadenza, la preclusione processuale (cfr. Cass. S.U. 7/7/1984, Galante; 28/1/1998, Budini; 27/2/2002, Conti).
Ciò posto, osserva la Corte che, nel caso in esame, il rapporto d’impugnazione promosso dal p.m. con l’appello avverso la sentenza assolutoria di primo grado è stato definitivamente interrotto dalla declaratoria d’inammissibilità del gravame, alla quale non ha fatto seguito alcuna iniziativa della parte processuale pubblica. Questa, infatti, non è insorta, neppure in via cautelativa, contro l’ordinanza d’inammissibilità, per rilevare preliminarmente l’incostituzionalità della disposizione che ne precludeva l’impugnabilità, nè ha esercitato la facoltà, concessagli dalla L. n. 46 del 2006, art. 10, comma 3, di proporre, entro 45 giorni dalla notifica del provvedimento d’inammissibilità, ricorso per cassazione.
Ne consegue che, in relazione a questo specifico profilo della vicenda, la corrispondente situazione venutasi a determinare, nella vigenza della normativa successivamente dichiarata incostituzionale, deve ritenersi irreversibilmente “consolidata” e quindi “esaurita”, nel senso che l’atto d’impulso processuale del p.m. non può considerarsi ancora sub indice, perchè bloccato nella sua forza espansiva e privato di qualunque spazio di operatività. In sostanza, anche se non si è formato, nel caso in esame, il giudicato sull’aspetto penale della res iudicanda, mantenuto in piedi – come si vedrà – dall’appello proposto ex art. 577 c.p.p. dalle parti civili, certamente l’evoluzione della dinamica processuale ha causato una preclusione allo sviluppo dell’iniziativa impugnatoria del p.m., che ha fatto acquiescenza al provvedimento d’inammissibilità dell’appello, lasciandosi – tra l’altro – decadere anche dall’esercizio della facoltà di proporre ricorso per cassazione.
L’attivazione del rapporto d’impugnazione e la regolamentazione del suo successivo iter non possono che soggiacere alle disposizioni vigenti al momento in cui la corrispondente iniziativa è assunta e alla stessa è dato corso. Ne consegue che, una volta definito – sia pure per preliminari ragioni di rito – il detto rapporto, la situazione che viene a determinarsi rimane insensibile a qualunque invalidazione successiva, per contrasto con precetti costituzionali, della disciplina applicata.
La dichiarazione d’illegittimità costituzionale di cui alla sentenza n. 26/2007 non può, pertanto, avere incidenza alcuna sulla soluzione adottata (e non più controversa) in ordine all’appello proposto dal p.m..
A diversa conclusione deve pervenirsi in quelle ipotesi in cui il rapporto d’impugnazione non può ritenersi ancora definito al momento dell’intervento caducatorio del Giudice delle leggi.
In via esemplificativa, basti pensare ai processi incardinati presso i giudici d’appello prima dell’entrata in vigore (9/3/2006) della L. n. 46 del 2006 e non ancora fissati, in relazione ai quali, operando l’efficacia retroattiva della dichiarazione d’incostituzionalità dell’art. 1, stessa legge, deve darsi regolare seguito agli appelli proposti; o ai processi per i quali il rapporto d’impugnazione, dopo l’ordinanza d’inammissibilità dell’appello, è stato mantenuto in vita dalla proposizione del ricorso per cassazione, ipotesi questa in cui, per effetto della successiva invalidazione della disciplina di riferimento, deve inevitabilmente rivivere l’originaria manifestazione di volontà dell’Organo d’accusa di sollecitare, attraverso l’appello, una seconda decisione di merito.
4 – Altro problema interpretativo che viene in rilievo riguarda l’applicabilità o meno ai procedimenti in corso della norma di cui alla L. n. 46 del 2006, art. 9, che ha abrogato l’art. 577 c.p.p., cioè il potere della parte civile di proporre gravame agli effetti penali nei casi di ingiuria e di diffamazione, facoltà eccezionale – questa – giustificata dalla esigenza di “garantire la persona offesa dai sempre più frequenti inconvenienti, riscontrabili in processi che coinvolgono direttamente il patrimonio morale della persona”, quali “il facile rovesciamento delle posizioni tra l’offeso e l’imputato con potenziale scambio delle accuse rilanciate dal secondo contro il primo” (C. Cost. n. 381/’92, n. 474/’93). Su tale questione, si registrano orientamenti contrastanti.
Secondo un primo indirizzo, l’abrogazione del potere di appello agli effetti penali della parte civile nei procedimenti di ingiuria e diffamazione non avrebbe riflessi sulle impugnazioni proposte, come nella specie, prima del 9/3/2006, data di entrata in vigore della L. n. 46, stante l’assenza in questa di disposizioni transitorie specifiche che stabiliscano deroghe al generale principio in virtù del quale, in caso di successioni di leggi processuali, al fine di stabilire la persistente efficacia di un atto, occorre fare riferimento alla legge vigente al momento del suo compimento (cfr., sul tema specifico, Cass. Sez. 5^ 16/3/2006 n. 11162 e 17/5/2006 n. 24421; su temi analoghi a quello in esame, si richiamano, ex plurimis, sez. 4^ 1/4/2004 n. 25303, sulla modifica dell’art. 593 c.p.p., comma 3 per opera della L. n. 128 del 2001, e sez. 5^ ord. 17/5/2000 n. 2883 sulla modifica dell’art. 593 c.p.p. introdotta dalla L. n. 468 del 1999).
In senso contrario a tale orientamento si sono espresse altre decisioni delle sezioni semplici di questa Suprema Corte, che hanno ritenuto l’immediata operatività del disposto della L. n. 46, art. 9 anche ai procedimenti in corso, avuto riguardo alla formulazione del successivo art. 10, comma 1, vera e propria norma transitoria da interpretare nel senso della operatività della novella in relazione alle impugnazioni ex art. 577 c.p.p. che non hanno esaurito i loro effetti, con la conseguenza che le medesime, pur presentate sotto l’imperio della vecchia normativa ma non ancora decise, diverrebbero inammissibili (cfr. Cass. sez. 5^ 16/6/2006 n. 29935; per implicito, sez. 5^ 30/6/2006 n. 30447, sez. 3^ 11/5/2006 n. 22924).
Queste Sezioni Unite condividono la prima opzione ermeneutica.
4a – Il problema che viene prioritariamente in rilievo è quello della successione di leggi. Il legislatore, non potendo ignorare il fenomeno, nel quale è fisiologicamente insita una eventuale conflittualità tra norme in relazione al loro ambito operativo nel tempo, appronta gli strumenti idonei a superare tale conflittualità, dettando principi generali finalizzati a guidare l’attività dell’interprete nella individuazione della norma da applicare o adottando regole espresse e specifiche per coordinare il novum con la legge previgente. Nell’ambito del diritto intertemporale, che ha il compito di individuare quale delle norme coinvolte nel fenomeno della successione sia applicabile agli atti o ai fatti presi in considerazione (ius supra iura), il conflitto tra norme è ricondotto al principio di irretroattività della legge fissato dall’art. 11 preleggi, comma 1, che testualmente recita: “La legge non dispone che per l’avvenire; essa non ha effetto retroattivo”. Tale principio rappresenta “un criterio di carattere generale di interpretazione valevole…nei soli casi in cui la legge nulla disponga circa la decorrenza dei propri effetti”, ma non può essere assunto a canone assoluto dell’ordinamento, perchè, previsto a livello di legislazione ordinaria, non è costituzionalmente presidiato, se non per la materia penale (art. 25 Cost., comma 2). Dal citato dato normativo si enuclea, con specifico riferimento al campo processuale, il principio tempus regit actum.
La corretta applicazione di tale parametro intertemporale impone la esatta individuazione dell’actus, che va focalizzato ed isolato, sì da cristallizzare la disciplina giuridica ad esso riferibile. Per actus non può intendersi l’intero processo, che è concatenazione di atti – e di fasi – tutti tra loro legati dal perseguimento del fine ultimo di accertamento definitivo dei fatti; una tale identificazione comporterebbe la conseguenza che il processo “continuerebbe ad essere regolato sempre e soltanto dalle norme vigenti al momento della sua instaurazione”, il che contrasterebbe con l’immediata operatività del novum prescritta dall’art. 11 preleggi, comma 1. Il concetto di atto deve essere rapportato, come incisivamente precisato in dottrina, “allo stesso grado di atomizzazione che presentano le concrete e specifiche vicende disciplinate dalla norma processuale coinvolta nella successione”. L’atto cioè va considerato nel suo porsi in termini di “autonomia” rispetto agli altri atti dello stesso processo.
Non può, inoltre, avallarsi, ai fini che qui interessano, una nozione indifferenziata di “atto” processuale, poichè deve aversi riguardo anche alle “dimensioni temporali” del medesimo, per modulare correttamente il parametro intertemporale e stabilire se sia applicabile il vecchio o il nuovo regime. E’ necessario distinguere tra varie specie di atti: quello con effetti istantanei “che si esaurisce senza residui nel suo puntuale compimento” e ha, per così dire, una funzione “autoreferenziale”; quello che, pur essendo di esecuzione istantanea, presuppone una fase di preparazione e di deliberazione più o meno lunga ed è strettamente ancorato ad altro atto che lo legittima e che finisce con l’assumere rilievo centrale; quello che ha “carattere strumentale e preparatorio” rispetto ad una successiva attività del procedimento, con la quale va a integrarsi e completarsi in uno spazio temporale anch’esso più o meno ampio, dando luogo ad una fattispecie processuale complessa.
La regola tempus regit actum non può non tenere conto della variegata tipologia degli atti processuali e va modulata in relazione alla differente situazione sulla quale questi incidono e che occorre di volta in volta governare.
Certamente appartiene alla prima specie, se considerato isolatamente e nel suo aspetto formale, l’atto di impugnazione che, nell’ambito dell’iter processuale, ha una propria autonomia e una funzione autoreferenziale, che è quella di dare avvio al grado successivo di giudizio, investendo il giudice competente.
Più specificamente, il potere di appellare una sentenza (e quindi anche quello attribuito alla parte civile dall’abrogato art. 577 c.p.p.) è esercitatile nell’arco temporale compreso tra l’emanazione della decisione e la scadenza dei termini per proporre appello, sicchè, una volta legittimamente esercitato nel rispetto della disciplina al momento vigente, non può più parlarsi di appellabilità della sentenza, ma di pendenza del giudizio di appello, che, ormai instradato sul relativo binario, rimane insensibile a qualsiasi modifica normativa che sopravviene, la quale può trovare applicazione soltanto in relazione a sentenze pronunciate dopo la sua entrata in vigore.
Nella specie, le parti civili proposero appello ex art. 577 c.p.p. in data 11/1/2006, quindi ben prima della entrata in vigore della L. n. 46 del 2006, il cui art. 9 ha eliso il potere d’impugnazione delle citate parti per i reati di ingiuria e di diffamazione (senza preoccuparsi – peraltro – di coordinare tale previsione con la norma di cui al D.Lgs. n. 274 del 2000, art. 38 che disciplina i poteri d’impugnazione della persona offesa-ricorrente nel giudizio dinanzi al giudice di pace).
L’appello ai fini penali delle parti civili, pertanto, in ossequio al principio tempus regit actum e in assenza – come meglio si preciserà in seguito – di una contraria disciplina transitoria, è ammissibile e deve continuare a esplicare la sua efficacia. Sarebbe, però, riduttivo, anche se in apparenza sufficiente, polarizzare il discorso giustificativo della decisione esclusivamente sul momento di presentazione dell’appello, considerato come atto isolato e idoneo a dare impulso alla ulteriore dinamica processuale.
4b – Altro problema, infatti, che la disciplina intertemporale applicabile alle impugnazioni pone e che va approfondito è l’individuazione del momento dal quale la lex superveniens governa l’impugnazione.
Quantunque sia unanime l’opinione che al principio tempus regit actum debba farsi ricorso per stabilire, in assenza di disposizioni transitorie, quale disciplina applicare in caso di successione di leggi in materia di impugnazione, si discute, invece, sull’individuazione dell’actus al quale fare in concreto riferimento per l’individuazione di tale disciplina. Sul punto, la giurisprudenza di legittimità non è concorde, nel senso che alcune decisioni fanno coincidere tale momento con quello di presentazione dell’impugnazione (Cass. sez. 4^ 17/11/2004 n. 3484/2005; sez. 5^ 12/3/2004 n. 15596; sez. 4^ 4/12/2003 n. 4860/2005; sez. 3^ 13/3/2002 n. 20769; sez. 3^ 18/12/2000 n. 8340/2001; sez. 6^ 3/7/2000 n. 3058; sez. 6^ 10/4/2000 n. 5558; sez. 5^ 19/5/2000 n. 7329), altre con quello della pronuncia della sentenza (Cass. sez. 5^ 22/9/2003 n. 45094; sez. 3^ 28/5/2001 n. 30541; sez. 5^ 11/1/2007 n. 11659).
La questione, solo apparentemente sembrerebbe priva di rilievo decisivo nel caso in esame, considerato che tanto l’emissione della sentenza quanto la proposizione dell’impugnazione risalgono ad epoca precedente alla riforma introdotta dalla L. n. 46 del 2006. In realtà, se si ha riguardo, in una prospettiva di più ampio respiro, agli eventuali sviluppi futuri del regime d’impugnazione avviato nella vigenza dell’art. 577 c.p.p., si apprezza il rilievo concreto della questione: basti pensare alla possibilità o meno di impugnare, con ricorso per cassazione, l’emananda sentenza di appello, possibilità che sarebbe consentita, se si ha riguardo alla normativa in vigore al momento genetico del diritto d’impugnare, e preclusa, se si considera il momento in cui potrà essere proposta l’ulteriore impugnazione, non più ammessa dal mutato quadro normativo.
Ritengono le Sezioni Unite di privilegiare il secondo indirizzo ermeneutico. La formula tempus regit actum, se intesa nel suo significato letterale, riferita cioè alla legge del tempo in cui l’atto, isolatamente considerato, è compiuto (nella specie, presentazione dell’impugnazione), conduce ad esiti irragionevoli.
Si pensi al caso in cui, in pendenza del termine per impugnare e in prossimità della sua scadenza, una nuova legge abroghi il grado di appello, mantenendo il ricorso per cassazione: l’imputato (o altra parte) può venirsi a trovare in grave difficoltà nella predisposizione del mezzo di gravame appropriato, può determinarsi una dissimmetria tra le posizioni, sostanzialmente analoghe, di due imputati (o di altre parti); si immagini ancora il caso, assolutamente emblematico, di due soggetti in identica posizione processuale che maturano nella stessa data il termine, di medesima durata, per impugnare la sentenza: l’uno deposita l’impugnazione diversi giorni prima della scadenza e nel vigore della legge che la consente, l’altro attende gli ultimi giorni per proporla ma, essendo nel frattempo intervenuta la norma che abroga tale facoltà, la relativa domanda non può sfuggire alla sanzione dell’inammissibilità. S’intuisce agevolmente che il regime di impugnabilità di una sentenza non può essere condizionato da elementi meramente aleatori, come quelli affidati alla tempestività o meno del deposito della stessa ovvero alla puntualità degli adempimenti di cancelleria o ancora alla iniziativa più o meno tempestiva della parte interessata; tanto si verificherebbe, ove si avesse riguardo al momento di presentazione dell’atto di impugnazione.
E’ vero che è insita nel fenomeno della successione di norme nel tempo una certa disparità di trattamento, che, però, per non essere censurabile sotto il profilo della legittimità costituzionale (cfr. C. Cost. sent. n. 381/’01), non deve essere altrimenti evitabile e/o irragionevole e non deve coinvolgere, in senso penalizzante, l’autonomia di azione e il diritto di difesa della parte processuale interessata.
Per ovviare agli inconvenienti cui innanzi si è fatto cenno, il regime delle impugnazioni va ancorato, in base alla regola intertemporale di cui all’art. 11 delle preleggi, non alla disciplina vigente al momento della loro presentazione ma a quella in essere all’atto della pronuncia della sentenza, posto che è in rapporto a quest’ultimo actus e al tempus del suo perfezionamento che vanno valutati la facoltà di impugnazione, la sua estensione, i modi e i termini per esercitarla.
Non è fuori luogo fare richiamo, al riguardo, all’esigenza di tutela dell’affidamento maturato dalla parte “in relazione alla fissità del quadro normativo”. L’affidamento, come valore essenziale della giurisdizione, che va ad integrarsi con l’altro – di rango costituzionale – della “parità delle armi”, soddisfa l’esigenza di assicurare ai protagonisti del processo la certezza delle regole processuali e dei diritti eventualmente già maturati, senza il timore che tali diritti, pur non ancora esercitati, subiscano l’incidenza di mutamenti legislativi improvvisi e non sempre coerenti col sistema, che vanno a depauperare o a disarticolare posizioni processuali già acquisite. “La certezza dei rapporti preteriti costituisce un indubbio cardine della civile convivenza e della tranquillità dei cittadini” (C. Cost. sent n. 155/’90).
Il potere d’impugnazione trova la sua genesi proprio nella sentenza e non può che essere apprezzato in relazione al momento in cui questa viene pronunciata, con la conseguenza che è al regime regolatore vigente in tale momento che deve farsi riferimento, regime che rimane insensibile a eventuali interventi normativi successivi, non potendo la nuova legge processuale travolgere quegli effetti dell’atto che si sono già prodotti prima dell’entrata in vigore della medesima legge, nè regolare diversamente gli effetti futuri dell’atto (cfr. in senso conforme Cass. S.U. civili sent. 20/12/2006 n. 27172; S.U. penali sentenze 27/3/2002 n. 16101 e n. 16102, queste ultime in un tema non perfettamente sovrapponibile a quello in esame).
D’altra parte, non bisogna lasciarsi condizionare, nella soluzione della questione in esame, dall’ambiguità della natura dell’atto d’impugnazione. Se vero che questo, isolatamente considerato, ha carattere istantaneo e natura autoreferenziale, connotati questi già sufficienti – come si è sopra precisato – per ritenere ammissibile nel caso concreto l’appello ex art. 577 c.p.p. proposto dalle parti civili, non è men vero che l’atto d’impugnazione è la risultante di un’attività preparatoria più lunga, avviata col sorgere del diritto d’impugnare, che è strettamente collegato alla pronuncia della sentenza.
Il quadro normativo delle impugnazioni deve, pertanto, essere ricostruito tenendo presente la disciplina del tempo in cui è sorto il relativo diritto.
4c – Certo il legislatore può derogare a tale regola, dettando norme transitorie di diretta applicazione e destinate a disciplinare “gli accadimenti compresi nel periodo in cui si verifica un mutamento normativo”.
Nella L. n. 46 del 2006, manca, però, una disciplina transitoria relativa all’abrogazione dell’art. 577 c.p.p. e, più in generale, alla posizione della parte civile. Non può ritenersi tale il comma 1 dell’art. 10, citata legge, che testualmente recita: “La presente legge si applica ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della medesima”.
La disposizione non fa altro che ribadire, sottolineandolo, il principio tempus regit actum e non deve indurre, per la genericità equivoca della indicazione, a legittimare una interpretazione in deroga al detto principio, così come pure parte della dottrina e alcune pronunce di legittimità sostengono, fino ad affermare che la medesima disposizione “non può avere altro senso se non quello di rendere immediatamente operativa l’abrogazione della norma che regola il potere d’impugnativa della parte civile agli effetti penali, fatte salve, evidentemente, le impugnazioni del tutto esaurite” (Cass. Sez. 5^ 16/6/2006 n. 29935), con l’effetto che quelle presentate prima della novella ed ancora pendenti diverrebbero inammissibili.
La lettera dell’art. 10, comma 1 non fa alcun cenno esplicito all’applicazione retroattiva della nuova legge e il generico riferimento ai “procedimenti in corso” va letto nel senso che il novum si applicherà anche a questi, ma secondo le modalità con cui opera la regola intertemporale di cui all’art. 11 preleggi.
Il legislatore, nello strutturare l’art. 10, ha voluto ribadire in esordio (comma 1), forse in maniera ridondante, il principio dell’efficacia immediata delle innovate regole con riguardo logicamente ai singoli atti da compiere e lo ha fatto perchè nei commi successivi ha previsto una complessa e derogatoria disciplina transitoria, riferibile, però, soltanto all’imputato e al pubblico ministero in relazione ai singoli atti da costoro già compiuti.
4d – Non è di ostacolo alla celebrazione del giudizio di appello, sollecitato dalle parti civili nella vigenza dell’art. 577 c.p.p., la circostanza che il reato per il quale si procede è, ad oggi, prescritto.
E’ vero che l’art. 129 c.p.p. prescrive che, “in ogni stato e grado del processo”, il giudice, se riconosce che il reato è estinto, ha l’obbligo di pronunciare immediatamente la relativa declaratoria.
Deve, tuttavia, rilevarsi che, nella specie, tale soluzione non è, al momento, praticabile, non essendo questa Suprema Corte legittimamente investita della cognizione del fatto in relazione al quale la causa di non punibilità dovrebbe operare. Stante, per le considerazioni svolte, la permanente efficacia dell’appello proposto dalle parti civili, rimane rimessa alla Corte di merito competente la relativa valutazione, anche per consentire all’imputato, che è stato assolto con formula ampiamente liberatoria in primo grado, di difendersi adeguatamente, evitandogli di trovarsi esposto ad una inammissibile reformatio in peius pronunciata dal giudice di legittimità, incompetente a conoscere del gravame attivato.
5 – Va ora affrontato il tema della sopravvivenza o meno alla L. n. 46 del 2006 dell’appello (ai soli effetti civili) della parte civile.
Va premesso che a questa, portatrice della pretesa risarcitoria o restitutoria ex delicto, il codice consente di costituirsi e di fare valere la sua richiesta davanti al giudice, agendo nei confronti dell’imputato e del responsabile civile, ai quali la legge riconosce il diritto di appellare contro i capi della sentenza di condanna alle restituzioni e al risarcimento dei danni (artt. 574, 575 c.p.p., art. 93 c.p.p., comma 1); la sentenza penale irrevocabile di assoluzione pronunciata a seguito di dibattimento ha efficacia di giudicato nel giudizio civile o amministrativo per danni promosso dal danneggiato che si sia costituito o sia stato posto in condizione di costituirsi parte civile (art. 652 c.p.p.); è d’intuitiva evidenza, quindi, l’importanza del tema relativo al potere di impugnazione della parte civile in tutte le sue possibili espressioni, dopo l’intervento del legislatore del 2006 sull’art. 576 c.p.p.. La giurisprudenza di legittimità si è già espressa nel senso che l’innovazione normativa non ha sottratto alla parte civile la facoltà di appello (cfr. Cass. Sez. 3^ 11/5/2006 n. 22924; Sez. 5^ 10/6/2006 n. 29935; Sez. 1^ 6/12/2006, Raggio). Anche queste Sezioni Unite, con sentenza 11/7/2006 (ric. Negri), hanno ritenuto, sia pure in via incidentale, che “mentre il vigente codice di rito esclude che possa essere rivisto l’accertamento penale in mancanza di una impugnazione da parte del p.m., lo stesso codice sottolinea all’art. 576 c.p.p., in questa parte non toccato dalle modifiche apportate dalla L. n. 46 del 2006, come, per effetto dell’impugnazione della sola parte civile, si possa rinnovare l’accertamento dei fatti posto a base della decisione assolutoria, al fine di valutare la sussistenza di una responsabilità per illecito e così ottenere una diversa pronunzia che rimuova quella pregiudizievole per i suoi interessi civili”.
Non sussiste, pertanto, allo stato, un vero e proprio contrasto interpretativo sulla specifica questione in esame, se non in termini potenziali per le dubbiose considerazioni sviluppate nell’ordinanza di rimessione e presenti anche nel dibattito dottrinario in corso e in alcune decisioni dei giudici di merito.
5a – Secondo il testo novellato dell’art. 576 c.p.p. (L. n. 46 del 2006, art. 6), la parte civile può proporre impugnazione contro i capi della sentenza di condanna che riguardano l’azione civile e, ai soli effetti della responsabilità civile, contro le sentenze di proscioglimento pronunciate nel giudizio; può altresì proporre impugnazione contro la sentenza, di condanna o di proscioglimento, pronunciata a norma dell’art. 442 c.p.p. quando ha consentito all’abbreviazione del rito.
La generica facoltà d’impugnativa riservata alla parte civile nella norma in esame, senza alcun accenno esplicito al mezzo utilizzabile, pone delicati problemi interpretativi. In ambito dottrinario, si è sostenuto che tale facoltà non può che essere esercitata, in difetto di altra indicazione (principio di tassatività ex art. 568 c.p.p., comma 1), nelle forme del ricorso per cassazione, come prescrive, per i provvedimenti “non…altrimenti impugnabili”, l’art. 568 c.p.p., comma 2. A conforto di tale conclusione, si sottolinea che l’art. 568 c.p.p., comma 2 e art. 576 c.p.p., comma 1 connotano “in positivo” il potere d’impugnazione della parte civile e, in maniera complementare, gli artt. 593 e 597 c.p.p., nel riservare soltanto al pubblico ministero e all’imputato la facoltà di appellare e – rispettivamente – nel regolamentare l’ambito cognitivo del giudice di appello senza alcun riferimento ad un’eventuale devoluzione delle questioni civili, connotano “in negativo” il medesimo potere, escludendo dalla sua sfera di esercizio l’impugnazione di merito.
Quest’opzione ermeneutica, fondata su una rigida e formale applicazione del principio di tassatività delle impugnazioni, non può essere condivisa, perchè confligge con la volontà legislativa, quale desumibile dai lavori parlamentari, non è coerente con l’interpretazione logico-sistematica dell’art. 576 c.p.p. rapportato ad altre norme del codice di rito e alla disciplina transitoria di cui alla novella del 2006 di cui pure deve tenersi conto, non appare costituzionalmente orientata, perchè, una volta ammessa per il danneggiato “la possibilità di diventare parte civile, pur nel contesto di scelte che, in un modo o nell’altro, possono ritornargli a svantaggio”, appare irragionevole precludergli radicalmente la possibilità di appello con possibili effetti pregiudizievoli per la sua pretesa di risarcimento danni da reato.
5b – La macroscopica divaricazione tra la voluntas legis e l’apparente portata prescrittiva del novellato art. 576 c.p.p., comma 1 si coglie evidente ripercorrendo in sintesi il tormentato iter della L. n. 46 del 2006.
L’originaria versione del D.D.L. A.C. 4604 recante “Modifiche al codice di procedura penale in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento” non conteneva alcuna norma direttamente incidente sul potere di impugnazione della parte civile. Il limite oggettivo, introdotto per il pubblico ministero, d’inappellabilità della sentenza di proscioglimento (art. 1 modificativo dell’art. 593 c.p.p.) rimodellava indirettamente la fisionomia del potere d’impugnazione della parte civile in forza del rinvio contenuto nel previgente art. 576 c.p.p. al “mezzo previsto per il pubblico ministero”. Tale limitazione era bilanciata “immunizzando”, per così dire, la parte civile dagli effetti extrapenali del giudicato assolutorio, attraverso la modifica del primo comma dell’art. 652 c.p.p. (D.D.L., art. 8): “La sentenza penale di assoluzione, anche se irrevocabile, non ha effetto nei giudizi civili o amministrativi, salvo che la parte civile si sia costituita nel processo penale ed abbia presentato le conclusioni…”; il che avrebbe consentito alla detta parte, in previsione di un epilogo a lei sfavorevole del giudizio di primo grado, “un esodo indolore dal processo fino alla presentazione delle conclusioni”. Era dettata, inoltre, una disciplina transitoria (D.D.L., art. 9) che, in modo generalizzato e senza specifico riferimento soggettivo ad alcuna parte processuale, prevedeva che l’appello proposto prima della entrata in vigore della legge contro una sentenza di proscioglimento si convertiva in ricorso per cassazione, con facoltà per la parte interessata di presentare motivi nuovi entro sessanta giorni dalla entrata in vigore della legge. Conclusivamente, il disegno di legge, al di là di ogni considerazione in ordine alla sua disorganicità rispetto all’impianto complessivo del sistema processuale, presentava un’apparente coerenza interna nell’omologare il potere d’impugnazione di tutte le parti processuali avverso le sentenze di proscioglimento, preoccupandosi anche di regolamentare, in maniera uniforme per tutte le parti processuali, il passaggio dal vecchio al nuovo regime.
La legge, però, dopo l’approvazione, veniva in data 20/1/2006 rinviata alle Camere, ai sensi dell’art. 74 Cost., dal Presidente della Repubblica, che, con riferimento al profilo che qui interessa, rilevava: “…è parte del processo anche la vittima del reato costituitasi parte civile, che vede compromessa dalla legge approvata la possibilità di fare valere la sua pretesa risarcitoria all’interno del processo penale”.
Il dibattito parlamentare successivo, col chiaro intento di assecondare i rilievi contenuti nel messaggio presidenziale e di rimodulare, accrescendoli, i poteri d’impugnazione della parte civile, sganciandone la posizione da quella del pubblico ministero, eliminava dal testo dell’art. 576 c.p.p., comma 1 l’inciso “con il mezzo previsto per il pubblico ministero”, in modo da garantire, quanto all’aspetto civilistico della regiudicanda, “quel doppio grado di giudizio a cui il danneggiato dal reato avrebbe diritto se avesse esercitato l’azione in sede propria”; eliminava anche l’art. 8, della legge, modificativo dell’art. 652 c.p.p., comma 1, perchè evidentemente il recupero del potere d’impugnazione in tutte le sue espressioni faceva venire meno l’esigenza di tutela della parte civile attraverso la possibilità, prima riconosciutale, di sottrarsi al giudicato assolutorio.
La modifica dell’art. 576 c.p.p., comma 1 era licenziata dalla Commissione Giustizia della Camera (cfr. resoconto della seduta del 24/1/2006) col dichiarato scopo di ampliare “le ipotesi in cui la parte civile può proporre appello, ai fini civili, contro la sentenza di proscioglimento”.
La formulazione della citata norma rimaneva inalterata fino alla sua approvazione definitiva e, soltanto per ragioni di rigoroso contingentamento dei tempi imposto dalla imminente scadenza della legislatura, non trovò spazio la proposta di emendamento avanzata dal sen. (omissis), che aveva suggerito, onde evitare qualsiasi equivoco, questa diversa formulazione: “La parte civile può proporre appello contro i capi della sentenza di condanna che riguardano l’azione civile e, ai soli effetti della responsabilità civile, contro la sentenza di proscioglimento pronunziata nel giudizio, anche abbreviato, qualora abbia acconsentito alla abbreviazione del rito” (seduta 7/2/2006 del Senato). Venivano introdotte significative modifiche anche alla disciplina transitoria contenuta nell’art. 9, divenuto art. 10 nel testo definitivo, che, a differenza della originaria formulazione, fa esclusivo riferimento all’appello proposto dall’imputato e dal pubblico ministero, senza in alcun modo menzionare la parte civile, prevedendo la declaratoria d’inammissibilità dei gravami dai primi due eventualmente proposti con possibilità per gli stessi di proporre ricorso per cassazione entro un certo termine.
5c – Così ricostruito il percorso parlamentare della L. n. 46 del 2006, è agevole rinvenire in esso un primo sostegno all’opzione interpretativa, qui condivisa, che ritiene la permanente sussistenza del potere d’impugnazione, ex art. 576 c.p.p., della parte civile in tutte le sue possibili espressioni e che attribuisce a mero difetto di tecnica legislativa la formulazione letterale della citata norma.
Ed invero, ove si privilegi l’opposta tesi, il trattamento riservato alla parte civile nel processo penale dalla L. n. 46 sarebbe addirittura peggiorato rispetto a quello previsto dalla legge approvata in un primo momento dal Parlamento e fatta oggetto di rilievi nel messaggio presidenziale.
Nel testo definitivo, infatti, come si è detto, non compare più la modifica dell’art. 652 c.p.p., che in qualche maniera andava a compensare i menomati poteri d’impugnazione della parte civile, ponendola al riparo da effetti pregiudizievoli derivanti dal giudicato assolutorio. Il mancato cenno, inoltre, nella norma transitoria, a questioni inerenti al gravame della parte civile è indice che il legislatore, nella consapevolezza di avere mantenuto ferma la facoltà della medesima di proporre appello ai fini civili, non ha avvertito la necessità di dettare prescrizioni sul punto specifico, rimasto ancorato ad una sostanziale stabilità normativa.
5d – A ben riflettere, la voluntas legis, pur non esteriorizzata in maniera chiara e univoca, non è tradita dal testo vigente dell’art. 576 c.p.p. per asserito contrasto col principio di tassatività delle impugnazioni.
Detta norma, invero, prevede una generica legittimazione della parte civile ad impugnare (la parte civile può proporre impugnazione…), non limita detto potere al solo ricorso per cassazione nè esclude, espressamente o per implicito, la possibilità dell’appello, come accade nel caso disciplinato da altra norma (art. 428 c.p.p., comma 2), sicchè può essere letta anche nel senso che è consentita ogni forma di impugnazione ordinaria. Tale lettura è compatibile con un’interpretazione meno rigida e restrittiva del principio di tassatività di cui all’art. 568 c.p.p., comma 1: l’art. 576 c.p.p., infatti, prevede che la parte civile possa impugnare la sentenza che le è sfavorevole e non pone alcuna restrizione all’utilizzo degli ordinali mezzi previsti, la cui individuazione, in un quadro invariato dei rapporti tra processo penale e azione civile, non può che essere affidata ad una ermeneutica sistematica e costituzionalmente orientata del complessivo quadro normativo in tema di impugnazioni, evitando epiloghi che determinino asimmetrie e irragionevoli posizioni processuali differenziate; tanto vale, dato il carattere generale della disposizione, anche per l’impugnazione delle sentenze pronunciate nel giudizio abbreviato o nel procedimento di pace, dove più alto è il rischio di asimmetrie, che vanno accortamente evitate nel rigoroso rispetto del principio di cui all’art. 111 Cost., comma 2.
Ove si negasse la perdurante facoltà di appello della parte civile, rimarrebbero, d’altra parte, prive di significato le disposizioni di cui all’art. 600 c.p.p., comma 1, artt. 601, 622 c.p.p.. La prima, che non può ritenersi oggetto d’implicita abrogazione, statuisce che la parte civile, che si è vista disattendere la richiesta di provvisoria esecuzione delle statuizioni a suo favore, può impugnare sul punto la sentenza di primo grado dinanzi al “giudice di appello”; la seconda prevede la citazione in appello dell’imputato non appellante “se l’appello è proposto per i soli interessi civili”, espressione questa riferibile ai casi in cui il gravame sia stato proposto dal coimputato o dal responsabile civile o dalla parte civile; la terza prevede che la Corte di Cassazione “…se accoglie il ricorso della parte civile contro la sentenza di proscioglimento dell’imputato, rinvia quando occorre al giudice civile competente per valore in grado di appello, anche se l’annullamento ha per oggetto una sentenza inappellabile”, richiamo quest’ultimo che implicitamente evoca la sentenza appellabile (anche dalla parte civile).
Va ancora considerato che, ai sensi degli artt. 574 e 575 c.p.p., rispettivamente l’imputato e il responsabile civile possono appellare contro il capo della sentenza relativo alla condanna ai danni. Si coglie qui l’assoluta irragionevolezza della tesi che si contrasta.
E’ come sostenere che, nel processo civile, potrebbe legittimamente abolirsi l’appello dell’attore contro la sentenza di rigetto della sua domanda, lasciando – invece – al convenuto ampia possibilità di contrastare la pretesa avversa. Non c’è dubbio che, nell’ipotesi considerata, trattasi di parti poste assolutamente sullo stesso piano e non sono ravvisabili, pur nella dialettica contrapposta, differenze di ruolo e poteri, che possano giustificare la disparità dei mezzi di reclamo. Ma vi è di più. Anche la parte civile, se parzialmente soccombente, può “impugnare” il capo della sentenza di condanna che riguarda l’azione civile, contro il quale può esservi il contestuale “appello” dell’imputato e/o del responsabile civile; in tal caso, è assurdo pensare a mezzi diversi d’impugnazione attivabili dalle citate parti in conflitto, alle quali deve essere assicurata, proprio perchè operano sullo stesso piano, l’assoluta “parità delle armi”.
Tali rilievi offrono un ulteriore conforto alla permanente sussistenza del potere di appello della parte civile.
5e – Non può, infine, non tenersi conto della pronuncia, sopra richiamata, del Giudice delle leggi (sent. n. 26/’07), che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della L. n. 46 del 2006, art. 1, nella parte in cui esclude il diritto di appello, salva l’eccezione del novum probatorio decisivo, della parte pubblica contro le sentenze di proscioglimento. Tale decisione ha inciso sull’assetto normativo delle impugnazioni, nell’espresso tentativo di restituire allo stesso un minimo di razionalità in attuazione del principio costituzionale di parità delle parti nel processo (art. 111 Cost., comma 2).
Il ripristinato ius appellandi del p.m. da ulteriore forza, sia pure come argomentazione postuma, alla ritenuta possibilità per la parte civile di impugnare nel merito, ai fini della pretesa risarcitoria, il proscioglimento dell’imputato. La tesi contraria che ritiene la parte civile legittimata al solo ricorso per cassazione si rivelerebbe, oggi dopo l’intervento della Consulta, ancor più irragionevole e asistematica e contrasterebbe apertamente col precetto di cui all’art. 111 Cost., comma 2, che costituisce una contestualizzazione processuale del principio di parità delle parti ed è riferibile, pertanto, anche alla disciplina delle impugnazioni (cfr. sent. n. 26/’07 C. Cost.).
Anche le ragioni – sintetizzate nella parte iniziale della presente trattazione – poste a base della declaratoria d’inammissibilità di cui all’ordinanza n. 32/’07 della Corte Costituzionale sembrano orientate ad avallare la interpretazione qui privilegiata.
E’ vero che detta ordinanza, almeno formalmente, non si presenta come provvedimento “interpretativo”; in realtà, però, il suo percorso argomentativo, valutato in stretta connessione con la coeva sentenza n. 26, si muove chiaramente nella prospettiva di assicurare un coerente riassetto dell’appello, marginalizzando scelte ermeneutiche che contrasterebbero con i precetti della Carta fondamentale.
Certamente tale pronuncia di inammissibilità non crea vincoli per queste Sezioni Unite; tuttavia, non può ignorarsene la ragione ispiratrice, che sottende una esegesi dell’art. 576 c.p.p. orientata verso ineludibili valori costituzionali; sarebbe, quindi, assurdo accedere disinvoltamente a un significato normativo diverso, che sembra essere ripudiato dal Giudice delle leggi.
Può soltanto dirsi che le ragioni poste a base della interpretazione che si condivide trovano ulteriore conforto nell’autorevole intervento della Consulta.
6 – Riassuntivamente vanno enunciati, ai sensi dell’art. 173 disp. att. c.p.p., comma 3 i seguenti principi:
a) la declaratoria d’inammissibilità, ai sensi della L. n. 46 del 2006, art. 10, comma 2, dell’appello proposto dal p.m. avverso la sentenza assolutoria di primo grado e il mancato esercizio da parte del medesimo della facoltà di proporre ricorso per cassazione (art. 10, comma 3) definiscono il rapporto d’impugnazione e determinano una preclusione alla sua riattivazione per effetto della successiva dichiarazione di parziale incostituzionalità dell’art. 1 e art. 10, comma 2, citata legge (sent. C. Cost. n. 26/’07);
b) l’appello proposto dalla parte civile – anche agli effetti penali – contro la sentenza di assoluzione dal reato di diffamazione, emessa prima dell’entrata in vigore della L. n. 46 del 2006, conserva la sua validità ed efficacia, nonostante l’abrogazione dell’art. 577 c.p.p. per opera dell’art. 9, richiamata legge;
c) la parte civile, anche dopo l’intervento sull’art. 576 c.p.p. ad opera della L. n. 46 del 2006, art. 6, può proporre appello, agli effetti della responsabilità civile, contro la sentenza di proscioglimento pronunciata nel giudizio di primo grado.
7 – Per tutto quanto innanzi esposto, va dato corso all’appello legittimamente proposto dalle parti civili avverso la sentenza 26/9/2005 del Tribunale Militare di Roma. Conseguentemente, l’ordinanza 16/6/2006 della Corte Militare d’Appello, nella sola parte in cui qualifica l’impugnazione delle parti civili come ricorso per cassazione e trasmette gli atti per competenza a questa Suprema Corte, va annullata senza rinvio; va, inoltre, disposta la restituzione degli atti alla medesima Corte Militare per il relativo giudizio di appello.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio l’ordinanza della Corte Militare d’Appello in data 16/6/2006, limitatamente alla parte in cui qualifica come ricorso per cassazione l’impugnazione proposta dalle parti civili;
dispone la trasmissione degli atti alla medesima Corte Militare per il relativo giudizio di appello.
Così deciso in Roma, il 29 marzo 2007.
Depositato in Cancelleria il 12 luglio 2007
