RITENUTO IN FATTO
1. La Corte di appello di Napoli ha confermato l’affermazione di responsabilità dell’imputato in ordine al reato di furto di valori di cui all’art. 624-bis cod. pen. perpetrato all’interno di uno studio legale.
2. Avverso la sentenza propone ricorso per cassazione il difensore dell’imputato, lamentando violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento alla erronea qualificazione giuridica del fatto, trattandosi di furto commesso in un luogo di lavoro, non riconducibile nell’alveo della “privata dimora”, non risultando dimostrato che in detto luogo fossero compiuti atti di vita privata o che vi fossero aree riservate destinate allo svolgimento di attività a carattere personale.
3. All’udienza odierna, procedendosi a trattazione orale secondo la disciplina ordinaria, in virtù del disposto dell’art. 7, comma 2, decreto-legge 23 luglio 2021, n. 105, entrato in vigore in pari data, sono comparse le parti dianzi indicate, che hanno assunto le conclusioni nei termini riportati in epigrafe.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è generico e in fatto, pertanto deve essere dichiarato inammissibile.
2. Va premesso che è stato pacificamente accertato che l’imputato, introducendosi abusivamente nello studio legale dell’avv. (omissis) – in cui lavorava come addetto alle pulizie – dopo essersi nascosto nel garage attendendo l’uscita di tutti i dipendenti, si impossessava di oggetti preziosi ivi custoditi dal legale (alcune sterline in oro, alcuni bracciali e collane in oro giallo, un anello con brillantini in oro bianco, alcuni lingotti in oro ed un salvadanaio contenente denaro, per un valore totale superiore a 7.000/8.000 euro).
Al riguardo, il ricorrente si limita a sostenere, apoditticamente, che nello studio legale ove era stato commesso il furto non si svolgessero atti della vita privata idonei a qualificare tale luogo come “privata dimora”, senza addurre elementi specifici in tal senso, in ossequio al principio di autosufficienza del
ricorso.
3. Va, in ogni caso, considerato che la più recente — e condivisibile – giurisprudenza di legittimità ha ritenuto corretta la qualificazione ex art. 624-bis cod. pen. del furto commesso di notte all’interno di uno studio legale, ricorrendo i presupposti dello “ius excludendi alios“, dell’accesso non indiscriminato al
pubblico e della presenza costante di persone, anche eventualmente in orario notturno, essendo il titolare libero di accedervi in qualunque momento della giornata; ciò in quanto, ai fini della configurabilità del reato previsto dall’art. 624-bis cod. pen., rientrano nella nozione di privata dimora i luoghi nei quali si svolgono non occasionalmente atti della vita privata – compresi quelli destinati ad attività lavorativa o professionale – e che non siano aperti al pubblico né accessibili a terzi senza il consenso del titolare (Sez. 5, n. 34475 del 21/06/2018, Rv. 273633 – 01).
Tale orientamento è in linea con l’interpretazione letterale e sistematica della norma incriminatrice in riferimento esplicitata dalle Sezioni Unite D’Amico, nella sentenza n. 31345 del 23/03/2017. In tale importante decisione – che ha risolto la questione controversa: “Se, ed eventualmente a quali condizioni, ai fini della configurabilità del delitto previsto dall’art. 624-bis cod.pen., i luoghi di lavoro possano rientrare nella nozione di privata dimora” – il Supremo Consesso ha delineato la nozione di privata dimora sulla base dei seguenti, indefettibili elementi: a) utilizzazione del luogo per lo svolgimento di manifestazioni della vita privata (riposo, svago, alimentazione, studio, attività professionale e di lavoro in genere), in modo riservato ed al riparo da intrusioni esterne; b) durata apprezzabile del rapporto tra il luogo e la persona, in modo che tale rapporto sia caratterizzato da una certa stabilità e non da mera occasionalità; c) non accessibilità del luogo, da parte di terzi, senza il consenso del titolare. Ha, quindi, affermato il principio secondo cui, ai fini della configurabilità del reato previsto dall’art. 624 bis cod. pen., rientrano nella nozione di privata dimora esclusivamente i luoghi nei quali si svolgono non occasionalmente atti della vita privata, e che non siano aperti al pubblico né accessibili a terzi senza il consenso del titolare, compresi quelli destinati ad attività lavorativa o professionale (Sez. U, n. 31345 del 23/03/2017, Rv. 270076 – 01).
4. Sulla base di tali coordinate interpretative, appare corretta la considerazione della Corte territoriale che ha ricondotto il furto in disamina nella fattispecie di cui all’art. 624-bis cod. pen.
In effetti, la detenzione da parte del titolare, nel proprio studio professionale, di ori ed oggetti personali di valore accentua la destinazione a privata dimora del luogo in cui tali beni sono stati depredati, trattandosi, evidentemente, di area riservata, non accessibile a terzi senza il consenso del proprietario, in cui si svolgevano, non occasionalmente, atti della vita privata, in relazione alla tenuta e custodia in tale luogo di beni preziosi strettamente e intimamente legati alla persona del titolare.
Si tratta, in altri termini — per usare la definizione richiamata nella motivazione della sentenza D’Amico sopra citata – di un luogo avente le stesse caratteristiche dell’abitazione, in termini di riservatezza e, conseguentemente, di non accessibilità, da parte di terzi, senza il consenso dell’avente diritto. In tal senso, la citata sentenza ha riconosciuto il carattere di privata dimora (anche) ai luoghi di lavoro se in essi, o in parte di essi, il soggetto compia atti della vita privata in modo riservato e precludendo l’accesso a terzi; ed ha fatto, in proposito, proprio l’esempio, fra gli altri, dell’area riservata di uno studio professionale (cfr., in motivazione, S.U., n. 31345/2017, D’Amico), condizione che si attaglia perfettamente alla vicenda in esame.
5. Stante l’inammissibilità del ricorso, e non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte cost. sent. n. 186/2000), alla condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria, che si stima equo
quantificare nella misura indicata in dispositivo.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 15 settembre 2021
