Fatto
RITENUTO IN FATTO
1. Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte di assise di appello di Genova, in parziale riforma della sentenza emessa il 23/09/2022 dal GUP presso il Tribunale di Genova, all’esito di giudizio abbreviato, ha assolto Ba.Vi. dal reato contestato al capo A), già qualificato dal giudice di primo grado sotto la specie dell’omicidio colposo, per insussistenza del fatto; ha ridotto la pena inflitta a On.Pa. per il medesimo reato ad anni uno e mesi quattro di reclusione, con beneficio della sospensione condizionale e della non menzione della condanna, confermando le statuizioni civili emesse da parte del GUP a carico del solo On.Pa.
2. Nell’atto di esercizio dell’azione penale era stato ascritto al Ba.Vi. e all’On.Pa., in concorso tra loro, il reato di omicidio volontario consumato nei confronti di Re.Ro., per condotte tra di loro indipendenti e commesse: quanto al primo, nella veste di “maestro spirituale” di formazione olistica all’interno del “Centro di meditazione e benessere Anidra”, sito in Bollonzasca e, al secondo, in qualità di medico chirurgo, socio del centro e insegnante di discipline distiche; segnatamente, si faceva riferimento alla condotta costituita dall’intervenuta asportazione – avvenuta nel mese di ottobre del 2018 – dalla persona offesa di un nevo sanguinante da parte dell’On.Pa., effettuata nei locali del centro in assenza di anestesia, senza adeguata tecnica chirurgica e in mancanza di successivo esame istologico; condotta cui era seguito un progressivo peggioramento delle condizioni fisiche della Re.Ro., a fronte del quale entrambi gli imputati avevano omesso di rappresentarle i rischi derivanti dalla pregressa asportazione del nevo e di indirizzarla a congrui esami specialistici, fino all’intervenuto trasferimento della persona offesa presso l’ospedale di Lavagna avvenuto alla sola data del l/10/2020, ove le era stata diagnosticata una diffusa metastasi da melanoma che l’aveva condotta al decesso il 09/10/2020.
Nell’atto di esercizio dell’azione penale era altresì stato contestato il delitto di omicidio volontario nei confronti di Do.Pa. – psicologa e vice direttrice del Centro – nonché, nei confronti del Ba.Vi., quelli previsti dall’art. 572 cod. pen. , dall’art. 609bis cod. pen. e dall’art. 643 cod. pen. , dai quali lo stesso era stato assolto già all’esito del primo grado di giudizio.
3. I giudici di secondo grado – nell’esaminare l’impugnazione proposta dall’imputato Ba.Vi. nonché quelle presentate dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Genova e dalle parti civili – hanno operato una previa critica alla ricostruzione della sentenza di primo grado; la quale aveva ritenuto sussistente, in capo allo stesso Ba.Vi., una posizione di garanzia conseguente a uno specifico legame con la persona offesa derivante dall’ascendenza che questi aveva sulla Re.Ro. e dal rapporto personale che li legava, ricostruito dal giudice di prime cure – in riferimento ai profili attinenti all’elemento oggettivo e a quello soggettivo – sulla scia dei principi enunciati da Sez. 5, n. 27905 del 03/05/2021, Ciontoli, Rv. 281817.
3.1 In relazione alle argomentazioni contenute nella sentenza impugnata, i giudici di appello hanno esposto che: doveva considerarsi pacifico che Ba.Vi. non avesse creato la situazione iniziale di pericolo, atteso che l’intervento era stato effettuato su iniziativa della Re.Ro., con modalità scelte dalla stessa e che la presenza del Ba.Vi. era stata richiesta a solo titolo di supporto morale; che, nei mesi successivi all’intervento – di cui erano comunque a conoscenza anche diverse altre persone – la vita della Re.Ro. si era svolta con modalità normali; che, in ordine alla sintomatologia manifestatasi dal maggio 2019, la Re.Ro. ne aveva riferito al Ba.Vi. ma non allo scopo di chiedere aiuto, bensì con il fine della mera condivisione di un malessere, al di fuori di ogni istanza di carattere sanitario, profilo in ordine al quale l’imputato non sarebbe comunque stato in grado di intervenire; che, fatta eccezione per gli ultimi giorni di settembre 2020, la Re.Ro. era stata comunque pienamente in grado di muoversi autonomamente e di recarsi presso qualsiasi struttura sanitaria di propria scelta, potendo anche contare su altre persone in grado di prestarle aiuto (tra cui il compagno e i familiari); che, per l’effetto, non era ravvisabile in capo al Ba.Vi. la condotta di un soggetto che avesse determinato o accentuato l’esposizione rispetto al rischio ovvero impedito l’attivarsi di alternative di protezione in riferimento al determinante elemento rappresentato dall’assunzione – in concreto – da parte del soggetto agente della gestione del rischio connesso all’attività in questione; atteso che lo stesso Ba.Vi. non era in grado di assumere alcun ruolo nella gestione medesima non avendo le conoscenze necessarie per la sua comprensione e valutazione.
3.2 La Corte territoriale ha quindi affrontato il determinante profilo di fatto -posto alla base della prospettazione accusatoria – in base al quale la Re.Ro. versasse in una condizione di inferiorità psichica nei confronti del Ba.Vi., derivante da un’attività di suggestione e manipolazione; deduzione, a propria volta, fondata da parte del giudice di prime cure su una perizia disposta nel corso del secondo incidente probatorio, nella quale pure era stata esclusa la sussistenza di un disturbo mentale essendosi ivi indagata la rilevanza dell’attività di suggestione in rapporti personali di tipo asimmetrico.
A proposito di tale perizia, i giudici di appello hanno ritenuto che dovesse comunque considerarsi incerto il confine tra la mera attività di persuasione, non tale da alterare le capacità di autodeterminazione e quella di vera e propria suggestione, tale da condizionare in modo irresistibile la volontà e la capacità di critica; situazione da ritenersi, peraltro, complessivamente non provata anche alla luce del complessivo materiale istruttorio esaminato (quali gli scritti riconducibili alla persona offesa e le sommarie informazioni testimoniali rese dai conoscenti della Re.Ro.).
La Corte ha altresì rilevato che, sulla base delle investigazioni difensive, nell’ultimo periodo della malattia era emersa – da parte della persona offesa – la ricerca di strumenti di cura alternativi (peraltro privi di validazione scientifica) e ai quali sembrava del tutto estraneo il contributo del Ba.Vi.
I giudici di appello hanno quindi ritenuto che, dagli atti, la personalità della Re.Ro. emergesse come “variegata, mutevole e complessa”, in modo tale da rendere incerto ogni giudizio sulla sussistenza effettiva di uno stato di dipendenza psichica nei confronti del Ba.Vi.; a proposito del quale, in relazione all’appello proposto dalle parti civili, sarebbe emerso il totale difetto di prova circa forme di costrizione o umiliazione idonee a essere valutate sotto la specie del reato previsto dall’art. 572 cod. pen. , la sussistenza di atti di disposizione patrimoniale rilevanti ai sensi dell’art. 643 cod. pen. così come in ordine alla costrizione a pratiche sessuali.
Sulla base di tali considerazioni, i giudici di secondo grado hanno ritenuto infondati gli appelli proposti in ordine alla posizione del Ba.Vi.; mentre, quanto al reato contestato al capo A), hanno ritenuto che – in presenza delle predette considerazioni inerenti alla mancanza di una posizione di garanzia – l’imputato dovesse essere assolto per insussistenza del fatto.
4. In ordine alla posizione dell’On.Pa., la Corte ha premesso come nei confronti del suddetto imputato fosse formulabile un addebito di negligenza, derivante dall’avere effettuato l’asportazione del nevo in un ambiente non sanitario e senza effettuazione di esame istologico, nonché una successiva condotta omissiva, che – sulla base di quanto esposto nella motivazione – “non interrompe la catena causale che conduce irreparabilmente all’evento finale (i controlli effettuati nel 2019 e nel 2020 da On.Pa. su richiesta della stessa Re.Ro. circa la presenza e il significato dei linfonodi ingrossati)”; sottolineando, peraltro, come tutta la vicenda fosse stata caratterizzata da un’ingerenza della vittima nella condotta del sanitario, elemento che non poteva non circoscrivere la situazione di pericolo allo schema della responsabilità colposa.
4.1 I giudici di appello hanno rilevato che, sulla base della prospettazione accusatoria, l’evento letale sarebbe stato da ricondurre a un atteggiamento di dolo eventuale dell’imputato in conseguenza dell’accettazione dell’evento medesimo derivante dalla comunicazione ricevuta dalla Re.Ro., nel maggio 2019 e nel derivante dalla comunicazione ricevuta dalla Re.Ro., nel maggio 2019 e nel giugno 2020, di gonfiori inguinali divenuti bilaterali; peraltro, la Corte ha ritenuto che – in considerazione del complessivo contesto in cui si collocava l’intera sequenza causale – non si potesse ritenere sussistente un’adesione psicologica dell’On.Pa. rispetto all’evento mortale ma solo il persistere di una negligente sottovalutazione della situazione, argomentando altresì che non potessero essere interpretate nel senso ritenuto dall’accusa le conversazioni intercorse tra l’imputato e la Re.Ro. pochi giorni prima del suo decesso e dalle quali era emersa un’evidente reticenza del sanitario a essere personalmente coinvolto nella vicenda; in quanto, comunque, intervenute in un momento in cui l’imputato non aveva più alcuna possibilità di determinare un’eventuale risoluzione positiva della problematica.
In punto di valutazione operata sul piano del giudizio controfattuale, la Corte ha osservato che le richieste di assistenza medica rivolte dalla Re.Ro. all’imputato erano da considerarsi del tutto estemporanee e svolte nei modi e nei tempi scelti dalla paziente e, come, comunque nessuna delle circostanze di fatto fosse idonea ad attestare un’effettiva accettazione dell’evento letale in capo all’On.Pa.
4.2 In riferimento all’appello presentato dall’imputato, la Corte ha quindi affrontato il problema della sussistenza del nesso causale tra l’asportazione del nevo e l’effettiva origine della patologia tumorale che aveva condotto al decesso della paziente.
Ha rilevato che – in ordine all’individuazione della fonte primaria del melanoma – dovesse attribuirsi valenza determinante agli accertamenti sanitari effettuati presso gli ospedali di Lavagna e di Genova, anche alla luce delle conclusioni degli esperti nominati in sede di incidente probatorio; i quali avevano ritenuto di poter individuare la suddetta fonte proprio nella lesione cutanea asportata dall’On.Pa. nell’ottobre del 2018, attribuendo la causa del melanoma, non all’intervento in sé, bensì alla totale assenza di diagnosi successiva e all’inadeguatezza del relativo trattamento.
Difatti, i periti avevano escluso l’assenza di altre possibili sedi originarie del melanoma sulla base dell’esistenza delle cosiddette metastasi in transit rilevate nella TAC del 03/10/2020, in quanto individuate nel tratto compreso tra la lesione primitiva ove si trovava il nevo escisso e la prima stazione linfonodale, ovvero quella inguinale destra.
Sul punto, la sentenza di secondo grado ha smentito le considerazioni tecniche poste alla base dell’appello dell’imputato e tendenti a sottolineare anche il carattere multifattoriale della patologia e la conseguente probabilità di decorsi causali alternativi; ha evidenziato che, nel caso concreto, era stata individuata la sede originaria del melanoma sulla base di una neoformazione asportata in sede il tutto anche alla luce delle circostanze di fatto emerse successivamente (quali il sanguinamento del nevo e la comparsa di linfonodi nella zona inguinale destra), vertendosi quindi non in un ambito di argomentazioni “suggestive” – come ritenuto nell’atto di appello – bensì di un giudizio induttivo condotto sulla base delle risultanze di fatto concrete; il tutto anche alla luce di una fotografia presente agli atti e anteriore rispetto all’intervento, su cui era raffigurata la schiena nuda della Re.Ro. e nella quale era riscontrabile, sulla base del parere degli esperti, una lesione in zona paravertebrale destra rappresentativa di un melanoma cutaneo.
In punto di complessiva valutazione della responsabilità colposa dell’On.Pa., la Corte territoriale ha ritenuto sussistente una posizione di garanzia assunta dal sanitario in conseguenza dell’originario intervento e dei successivi contatti con la paziente; ha quindi ritenuto sussistenti dei profili di colpa atteso che la presenza di un nevo sanguinante avrebbe imposto un attento esame clinico e un successivo esame istologico, la cui omissione – pur se dovuta a richiesta della stessa Re.Ro. – doveva considerarsi come condotta antidoverosa sul piano deontologico e negligente in relazione alla tutela della paziente, avendo il medico colposamente assecondato una richiesta di quest’ultima di prestazione di un trattamento sanitario palesemente contrario a obblighi di legge o comunque alle buone prassi; rilevando altresì come, in riferimento all’esame istologico del reperto postoperatorio, potesse dubitarsi che il sanitario avesse bisogno del consenso della paziente, evidenziando comunque la complessiva contrarietà del modus operandi rispetto alle disposizioni relative al consenso informato e contenute nella I. n. 219 del 2017.
Ha rilevato che le risultanze processuali avevano fatto emergere, senza possibilità di dubbio, il carattere potenzialmente salvifico dell’esame istologico del nevo asportato, avendo tale omissione impedito la diagnosi della lesione cutanea e citando sul punto le conclusioni espresse dai periti; ha altresì rilevato che, accanto a tale profilo di negligenza, la condotta del sanitario si presentava anche connotata da imperizia, atteso il carattere oggettivamente sospetto della lesione e avendo invece l’imputato ritenuto – con dichiarazioni rese nel corso del presente procedimento – che il nevo non presentasse caratteristiche preoccupanti.
Ha altresì rilevato che, in occasione dei successivi contatti con la Re.Ro. -nel maggio 2019 e alla fine di giugno del 2020 – erano ravvisabili ulteriori profili di imperizia, non avendo il sanitario operato la dovuta diagnosi differenziale e quindi prospettato alla paziente la potenziale riconducibilità degli ingrossamenti linfonodali alla precedente asportazione del nevo.
Riassumendo la valenza dei predetti dati oggettivi, il Collegio ha ritenuto che sussistesse il necessario profilo della causalità della colpa, argomentando che i comportamenti alternativi leciti omessi dall’On.Pa. avrebbero permesso di rendere comportamenti alternativi leciti omessi dall’On.Pa. avrebbero permesso di rendere nota alla paziente l’insorgenza di una patologia tumorale, ancora curabile – in particolare al momento dell’asportazione del nevo – con elevate probabilità di guarigione; con considerazione di tipo analogo svolta in relazione alle condotte connotate da imperizia databili al maggio 2019 e al giugno 2020, con tutte le relative conseguenze in tema di giudizio controfattuale.
Ha quindi ritenuto che, nei confronti del sanitario, fosse riscontrabile una colpa cosciente, attesa la piena consapevolezza in ordine alla violazione delle suddette regole cautelari, quanto meno in relazione alla condotta tenuta in occasione dell’asportazione del nevo, mentre doveva giungersi a differenti conclusioni in ordine alle condotte tenute successivamente e in riferimento alle quali il grado della colpa doveva ritenersi di minore gravità.
Il Collegio ha quindi ritenuto fondato il motivo di appello inerente alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche e ha provveduto alla rideterminazione del trattamento sanzionatorio nel senso suddetto, confermando nei confronti dell’On.Pa. le statuizioni civili pronunciate dal giudice di primo grado.
5. Avverso la predetta sentenza hanno proposto distinti ricorsi per cassazione l’imputato Paolo On.Pa. e le parti civili Re.Re., Maura Ma.Ma. e Re.Ri.
6. La difesa dell’On.Pa. ha articolato cinque motivi di impugnazione, il cui contenuto viene qui riassunto nei limiti strettamente necessari per la motivazione, ai sensi dell’art. 173, disp. att., cod. proc. pen.
6.1 Con il primo motivo ha dedotto l’inosservanza e/o erronea applicazione dell’art. 40 cod. pen. , nei capi e nei punti aventi a oggetto la prova circa l’origine della patologia tumorale che aveva condotto al decesso della persona offesa, ritenendo che la Corte avesse confuso il piano della c.d. causalità materiale con quello della c.d. causalità giuridica, ritenendo applicabili al giudizio esplicativo principi propri del diverso giudizio controfattuale; esponendo come, nei casi di responsabilità medica, costituisce un necessario presupposto di fatto l’accertamento dell’esatta sequenza eziologica che ha portato all’evento, a propria volta da condurre su parametri connotati da assoluta certezza e non meramente probabilistici.
Ha quindi dedotto che mancava la prova certa circa l’origine della patologia tumorale che aveva condotto al decesso della Re.Ro., in assenza di esame istologico sul nevo asportato nonché di informazioni univoche desumibili dalle cartelle cliniche e in considerazione del carattere pure non univoco degli accertamenti peritali, con la conseguenza che non era stato possibile acclarare che il nevo asportato dall’imputato fosse la causa primitiva del tumore.
Ha altresì censurato la motivazione della sentenza – sotto il profilo della carenza, della illogicità e del travisamento della prova – nella parte in cui, anche ammettendo di applicare sul punto il criterio della alta probabilità logica, aveva escluso la sussistenza di decorsi causali alternativi.
In particolare, ha premesso che la sentenza impugnata aveva scelto di aderire alle valutazioni peritali affermando che il nevo ritratto nella fotografia acquisita agli atti e corrispondente a quello asportato presentasse caratteristiche morfologiche denotative di melanoma, esponendo come il giudice di merito avrebbe travisato la letteratura scientifica acquisita in atti che attestava come i melanomi cutanei insorgessero più frequentemente su cute sana o derivino dall’evoluzione di nevi non preoccupanti sulla base del criterio dell'”ABCDE” citato dalla Corte e che – quindi – i nevi preesistenti la cui trasformazione può dare origine a melanoma appaiono più frequentemente essere quelli “ordinari” e non quelli displastici; elementi da cui desumeva che il criterio adottato dai giudici di merito si fondava su una legge di copertura scientifica con ridotto tasso di probabilità.
In ordine alla valutazione del profilo rappresentato dalla metastasi in transit, ne ha contestato l’univocità in quanto – al fine di ricavarne la derivazione dal melanoma – sarebbe stato necessario identificare la certa o probabile origine del medesimo; proprio in quanto non è la metastasi in transit che determina l’identificazione della sede primitiva del tumore ma è la certa identificazione della sede primitiva che consente di qualificare in tal modo una metastasi.
Ha esposto che il richiamo agli indici ritenuti idonei ad avvalorare l’identificazione della sede primitiva si sarebbe fondato su un travisamento del dato probatorio, atteso che il sanguinamento di un nevo non è sempre un dato patogenetico e che non rispondeva a verità che la Re.Ro. fosse stata sottoposta a visita dermatologica che avrebbe consentito di escludere altre formazioni oggetto di asportazioni o altri nevi problematici.
Ha quindi ritenuto censurabili le affermazioni della Corte di assise di appello volte ad avvalorare induttivamente le richiamate leggi scientifiche nei capi e nei punti aventi a oggetto la prova circa l’origine del melanoma; in particolare con specifico riferimento alla fotografia versata in atti ha esposto che la stessa non risaliva all’epoca della medicazione effettuata dall’On.Pa. ma era di molto anteriore, rappresentando quindi una situazione che nel tempo avrebbe potuto essere totalmente mutata anche in considerazione della eventuale formazione di nuove formazioni displastiche; ha quindi ritenuto illogica l’esclusione di un percorso causale alternativo alla base dello sviluppo del tumore atteso che la paziente aveva una naturale predisposizione alla formazione di nevi e aveva sofferto di un’irritazione vaginale tra il 2019 e il 2020; ha specificamente contestato il processo logico che aveva portato a escludere la derivazione del tumore da formazioni diverse rispetto al nevo oggetto di escissione e il carattere carente della motivazione in ordine alla potenziale derivazione vulvare o vaginale del melanoma, essendo la relativa irritazione temporalmente collocabile proprio in concomitanza dell’insorgenza della linfoadenopatia inguinale, richiamando sul punto la letteratura scientifica già prodotta dalla difesa nonché le dichiarazioni rese da Sa.Ev. (che aveva visitato la paziente nell’agosto del 2020 e riscontrato una “maggiore tensione dei tessuti” nella zona del ventre) e il referto rilasciato dall’Ospedale di Lavagna dopo la visita uroginecologica, che aveva ipotizzato una neoplasia nella zona ovarica.
Ha dedotto che la motivazione doveva ritenersi inficiata da travisamento anche in relazione ad altra spiegazione alternativa, rappresentata dalla possibile presenza di melanomi subungueali degli arti inferiori; atteso che la paziente aveva iniziato a lamentare dolori alle gambe sin dal 2019 con intorpidimento e perdita di sensibilità, sintomi del tutto compatibili con il dedotto decorso.
Riassumendo il contenuto del motivo, ha quindi ritenuto che i giudici di secondo grado non sarebbero stati coerenti con le proprie premesse nell’escludere un decorso causale alternativo rispetto a quello conclusivamente prospettato.
6.2 Con il secondo motivo di impugnazione ha dedotto la manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione nei capi e nei punti in cui la sentenza di appello aveva ritenuto sussistente una posizione di garanzia in capo al ricorrente.
Ha dedotto che, sulla base delle dichiarazioni di alcune persone ascoltate nel corso delle indagini, dovevano ritenersi incerte le effettive ragioni alla base dell’intervento dell’On.Pa., che potevano anche identificarsi con la verificazione di una ferita lacerocontusa coinvolgente un nevo già parzialmente reciso, con la conseguenza che l’incertezza sulle ragioni dell’intervento terapeutico e sulla finalità conseguita avrebbero dovuto ritenersi incompatibili con un’effettiva presa in carico del bene-vita della Re.Ro.
In relazione al periodo successivo, ha anche argomentato che un effettivo affidamento da parte della paziente nei confronti dell’On.Pa. doveva ritenersi in contrasto con varie circostanze ritenute dimostrate dalla Corte; la quale aveva invece sottolineato come – nel periodo medesimo – la Re.Ro. avesse posto un personale rifiuto rispetto a un approccio di tipo “tradizionale” alla cura delle malattie, derivandone che la stessa non poteva aver fatto alcun affidamento sulla persona dell’imputato, non essendo sufficienti a tale fine gli occasionali ed estemporanei contatti avvenuti in tale periodo e allegando sul punto le correlative, scansioni temporali, tutti elementi sulla base dei quali doveva ritenersi smentita la circostanza in base alla quale l’On.Pa. avesse assunto la veste di “medico curante” della Re.Ro.
Ha evidenziato che la sussistenza del predetto rapporto fiduciario doveva ritenersi smentita da diversi passaggi del diario dell’On.Pa. acquisito agli atti, nel quale l’imputato aveva fornito una prospettiva genuina sulle continue critiche espresse dalla Re.Ro. per il suo approccio scientifico di tipo tradizionale nonché dalla circostanza in base alla quale risultava che la paziente non avrebbe mai dato seguito ad alcuna indicazione formulata dal sanitario, ivi compresa proprio la sollecitazione a far effettuare un esame istologico della neoformazione rimossa; esponendo, altresì, come la Corte non avesse tenuto conto del fatto che, in quel periodo, la Re.Ro. si era rivolta ad altre figure e delle quali aveva seguito pedissequamente i consigli, deponendo tale circostanza per l’insussistenza dell’asserito rapporto di garanzia, non essendo l’On.Pa. mai stato un effettivo punto di riferimento per la paziente ed emergendo come quest’ultima si fosse sempre affidata a terapie di tipo alternativo rifiutando percorsi terapeutici di tipo tradizionale; si trattava quindi, sulla base della prospettazione difensiva, di elementi di fatto idonei a disarticolare l’intero ragionamento probatorio seguito dalla Corte territoriale in ordine alla sussistenza della pretesa posizione di garanzia.
6.3 Con il terzo motivo di impugnazione ha dedotto la manifesta illogicità e contraddittorietà nonché la carenza della motivazione nei capi e nei punti in cui era stata riconosciuta sussistente una responsabilità colposa in capo al ricorrente; ritenendo che le parti della sentenza che avevano concluso in ordine alla sussistenza degli addebiti colposi dovevano ritenersi caratterizzate da gravi e manifeste illogicità nonché da un travisamento del materiale probatorio.
Specificamente, in ordine all’effettuazione dell’intervento di asportazione e della medicazione nell’ottobre del 2018, ha dedotto che la stessa Corte aveva ritenuto che l’atto dell’asportazione non fosse stato, di per sé, causa dell’insorgenza del tumore, con conseguente irrilevanza causale della condotta.
In ordine al dato costituito dalla sottovalutazione della natura potenzialmente maligna del nevo escisso e della mancata diagnosi in tal senso, ha dedotto che la Corte territoriale avrebbe ignorato le risultanze documentali che attestavano come il sanguinamento di un nevo rappresenti un indice di potenzialità maligna solo quando sia spontaneo e derivante dall’ulcerazione della lesione; mentre, nel caso di specie, non era stato possibile accertare le cause concrete del sanguinamento, ragione per la quale all’imputato non poteva essere ascritto alcun addebito colposo nel senso predetto; esponendo come i giudici di secondo grado avessero ricostruito l’elemento soggettivo sulla base di una mera legge statistica.
Ad avviso del ricorrente, altresì, il sanitario non si trovava comunque – al momento dell’escissione – nella condizione di apprezzare compiutamente le caratteristiche morfologiche di quanto rimosso, atteso che il nevo non si presentava nelle condizioni per poter essere adeguatamente valutato, anche considerando che il sanitario non era specializzato in dermatologia.
In riferimento alle dedotte violazioni di regole cautelari derivanti dalla mancata effettuazione dell’esame istologico, il ricorrente ha evidenziato come -dalla stessa motivazione della Corte – potesse dubitarsi che il sanitario fosse tenuto a effettuare l’esame medesimo, ragione per la quale non poteva essere formulato alcun addebito di colpa per avere ottemperato al rifiuto della Re.Ro. di procedere all’esame; ha anche argomentato che sussistesse un travisamento della prova in ordine al dato della mancata informazione dei benefici di tale accertamento diagnostico, in quanto il dato medesimo era stato dedotto sulla base di elementi del tutto congetturali, come riconosciuto dallo stesso perito nominato in sede di incidente probatorio.
In ordine a un ulteriore profilo di asserita responsabilità colposa -rappresentato dalla mancata correlazione tra la proliferazione linfonodale e la lesione asportata nel 2018 – ha dedotto che il dato rappresentato dall’omissione diagnostica poteva essere dimostrato solo attraverso l’acquisizione di una serie di presupposti, attinenti alle originaria finalità dell’intervento e alla conoscenza di elementi tali da far sospettare la malignità del nevo e che la stessa sentenza impugnata aveva sottolineato in varie occasioni il carattere fugace, incompleto e improprio delle occasioni in cui l’On.Pa. aveva avuto notizia dei sintomi lamentati dalla Re.Ro.; ha dedotto altresì che sarebbe stata assente la prova di un’effettiva e continua comunicazione da parte di quest’ultima delle proprie condizioni di salute e dei relativi dati anamnestici, concludendone che unica condotta doverosa era quella – di fatto, seguita dall’imputato – consistente nell’invitare la persona offesa a indagare in ordine alla natura del nevo escisso e alla sintomatologia poi comunicatagli.
In sintesi, ha quindi ritenuto che nel comportamento del ricorrente difettasse l’elemento soggettivo della colpa, attesa la carenza di un quadro anamnestico tale da fargli concretamente sospettare la natura maligna del nevo escisso; mentre, sul piano oggettivo, era comunque emerso che l’On.Pa. avesse invitato la Re.Ro., nelle poche occasioni di coinvolgimento, a effettuare l’esame istologico e a sottoporsi a esami strumentali, ponendo in atti i soli comportamenti effettivamente esigibili.
6.4 Con il quarto motivo ha dedotto il travisamento della prova nella parte in cui la sentenza aveva escluso la rilevanza dei riscontri probatori aventi a oggetto la personalità e le convinzioni della Re.Ro., in ordine al giudizio controfattuale avente a oggetto le condotte alternative lecite.
Ha ritenuto che la sentenza doveva ritenersi viziata in riferimento alla deduzione della c.d. causalità della colpa, ritenuta dai giudici di secondo grado assumendo la circostanza che la Re.Ro. – qualora venuta a conoscenza delle proprie condizioni di salute – avrebbe comunque accettato di curarsi secondo i canoni propri della medicina tradizionale; ha infatti dedotto che la persona offesa era seguace di filosofie e correnti di pensiero accomunate dalla convinzione circa l’inesistenza di malattie in senso classico e da un particolare approccio rispetto alle condizioni patologiche, ivi compresi i tumori; elementi in presenza dei quali la dimostrata assunzione (nell’estate del 2020) di farmaci antinfiammatori non era idonea a dimostrare che la Re.Ro. fosse, in assoluto, disponibile ad assumere medicinali; elemento in relazione al quale la Corte aveva valorizzato un dato concernente gli ultimi mesi di vita per leggere retrospettivamente le scelte che la persona offesa avrebbe compiuto durante tutto il percorso sintomatologico, invece caratterizzato da un’assoluta resistenza rispetto ad approcci medici di tipo tradizionale; ha quindi ritenuto errato il complessivo giudizio controfattuale formulato dalla Corte, in quanto non tenente conto della variabile rappresentata dal comportamento individuale del paziente.
6.5 Con il quinto motivo ha dedotto l’inosservanza degli artt. 43 e 61, n. 3, cod. pen. , nella parte in cui la sentenza aveva ritenuto che le condotte poste in essere dall’imputato nel 2018 fossero state caratterizzate da colpa cosciente.
Ha dedotto che, sulla base della giurisprudenza di questa Corte, la colpa cosciente sarebbe caratterizzata da un sufficiente grado di specificità e determinatezza in ordine alla previsione dell’evento, fino a giungere a una sua vera e propria previsione in concreto, non essendo quindi sufficiente la mera violazione consapevole delle regole cautelari; deducendo, pertanto, come nel caso di specie non potesse argomentarsi che il sanitario si fosse mai effettivamente rappresentato il rischio circa la natura maligna del nevo escisso.
7. Hanno proposto altresì ricorso le parti civili Re.Re., Ma.Ma. e Re.Ri., articolando sei motivi di impugnazione.
7.1 Con il primo motivo hanno dedotto – ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b), c) ed e) cod. proc. pen. – la nullità della sentenza per inosservanza o erronea applicazione dell’art. 40, comma 2, cod. pen. , con riferimento alla ritenuta assenza in capo al Ba.Vi. di una posizione di garanzia nei riguardi della persona offesa.
Hanno dedotto che, dagli atti, emergeva che la vittima versava in una condizione di inferiorità psichica – come accertato dai periti – tale da esporla all’attività di suggestione e manipolazione da parte del Ba.Vi. e rendendola dipendente dai suoi voleri e desideri; invece la Corte ha ritenuto che la stessa fosse stata sottoposta a una mera attività di persuasione, in ciò contraddicendo le conclusioni esposte dai periti stessi, che avevano ritenuto che la Re.Ro. versasse in condizione di totale dipendenza rispetto al Ba.Vi. Anche se gli stessi ausiliari avevano rilevato che tali condizioni non fossero percepibili da terzi al di fuori del Centro Anidra, ciò non esclude che la vittima non fosse in condizioni di tutelare autonomamente e adeguatamente il bene giuridico della propria integrità psicofisica.
In punto di sussistenza della posizione di garanzia in capo al Ba.Vi., hanno assunto che questi gestiva e condizionava ogni aspetto dell’esistenza dell’allieva e, in forza di tale presupposto, avrebbe quindi dovuto astenersi dal cooperare rispetto all’effettuazione di pratiche mediche improprie; esponendo come, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte, dopo l’intervento la Re.Ro. aveva iniziato a manifestare al Ba.Vi. la sintomatologia che la affliggeva e allo scopo di richiedere intervento ed aiuto, come attestato dalla messaggistica acquisita agli atti.
7.2 Con il secondo motivo hanno dedotto – ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. – l’inosservanza o erronea applicazione dell’art. 113 cod. pen. , in ordine all’omessa affermazione di responsabilità del Ba.Vi. quale cooperante o concorrente nel delitto di omicidio e quale agevolatore della condotta dell’On.Pa.
Hanno dedotto che, ai sensi del richiamato art. 113 cod. pen. , doveva ritenersi sufficiente la coscienza dell’altrui commissione dello stesso reato, ferma restando la necessità di un contributo causale rispetto al verificarsi dell’evento, anche prescindendosi dalla sussistenza di una posizione di garanzia.
Nel caso di specie, sarebbe quindi sussistita l’ipotizzata cooperazione da parte del Ba.Vi., avendo questi organizzato l’intervento e ad esso assistito, in tal modo agevolando la condotta colposa dell’On.Pa.; esponendo come, dagli atti, fosse emerso che il Ba.Vi., in varie occasioni, avesse effettuato visite o comunque dato indicazioni e consigli nei confronti degli adepti e/o frequentatori del centro che lamentavano malesseri fisici, formulando diagnosi paramediche.
7.3 Con il terzo motivo hanno dedotto – ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. – la contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine all’assoluzione del Ba.Vi. dai delitti di maltrattamenti, violenza sessuale e circonvenzione di incapace e giustificata dalla Corte territoriale sulla base della mancanza di prova certa in ordine a una effettiva carenza di autodeterminazione in capo alla persona offesa.
Sul punto, hanno richiamato quanto esposto nel primo motivo di ricorso in ordine alla dedotta situazione di deficienza psichica della vittima, tale da inficiarne le capacità critiche e volitive.
7.4 Con il quarto motivo hanno dedotto – ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen. – l’inosservanza o erronea applicazione dell’art. 43 cod. pen. con riguardo all’assoluzione dell’On.Pa. dal reato di omicidio volontario con riguardo all’omessa affermazione di responsabilità a titolo di dolo eventuale.
Hanno premesso che la Corte territoriale aveva ritenuto di escludere la responsabilità del sanitario alla luce della concreta ingerenza della vittima nell’intera condotta dello stesso, nella quale – in ordine alla fase successiva all’intervento – non poteva ravvisarsi un atteggiamento interiore di accettazione dell’evento e ciò al di là della circostanza, evidenziata dalla Corte, che la sussistenza dell’evoluzione della patologia fosse stata manifestata al medico in modo occasionale e in ambienti estranei rispetto a una struttura sanitaria; hanno difatti ritenuto incongruo tale argomento, alla luce del fatto che il dato anamnestico era stato comunque rilevato dal sanitario, con la conseguenza che incombeva su questi l’obbligo di fornire le necessarie coordinate terapeutiche, a propria volta rappresentabili sulla base delle cognizioni comuni di qualsiasi medico.
Hanno quindi ritenuto non condivisibile la conclusione in forza della quale, in capo al sanitario, non fosse ravvisabile una vera e propria accettazione consapevole in ordine alla verificazione dell’evento infausto.
7.5 Con il quinto motivo hanno dedotto – ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. – la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla condanna dell’On.Pa. per il reato di omicidio colposo anziché per omicidio doloso.
Hanno dedotto che il complessivo atteggiamento tenuto dall’imputato era da ritenere indicativo della volontà adesiva rispetto all’evento infausto, anche sulla base del fatto che l’On.Pa. aveva sottaciuto agli stessi sanitari che avevano preso in cura la Re.Ro. in prossimità del decesso elementi utili alla corretta formulazione della diagnosi; sottolineando l’irrilevanza del dato rappresentato dalla estemporaneità delle visite successive all’intervento e di quello costituito dalla mancanza della qualità di medico curante, evidenziando invece l’avvenuta costituzione del rapporto terapeutico in capo all’On.Pa. in quanto autore dell’intervento, circostanza che onerava comunque l’imputato ad attivarsi a tutela della vita e della salute della paziente.
Hanno altresì dedotto che la sentenza impugnata doveva ritenersi censurabile per omessa motivazione, nella parte in cui non si era fatta carico delle doglianze formulate nell’appello delle parti civili in punto di riqualificazione della fattispecie, originariamente ascritta, di omicidio volontario, fondate sull’adesione dell’On.Pa.
al verificarsi dell’evento e sulla conseguente sussistenza del dolo eventuale, argomentazioni sulle quali i giudici avevano omesso di motivare.
7.6 Con il sesto motivo hanno dedotto – ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. – la contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla condanna del solo On.Pa., al pagamento della somma liquidata a titolo di provvisionale.
Hanno dedotto che, pur avendo la Corte riconosciuto il carattere percentualmente modesto degli importi liquidati a titolo di provvisionale, li aveva peraltro ritenuti congrui alla luce della concausalità riconosciuta al comportamento della vittima; hanno evidenziato che tale conclusione si pone in contrasto con quanto argomentato dai periti – e con considerazioni già poste alla base del primo motivo – in ordine alle condizioni di deficienza psichica in cui versava la persona offesa, con la conseguente non formulabilità di una valutazione di colpa concorrente.
8. Il Procuratore Generale ha depositato conclusioni scritte, nelle quali ha chiesto il rigetto del ricorso proposto dall’On.Pa. e l’annullamento, con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello, in ordine all’assoluzione del Ba.Vi.
Diritto
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso proposto dall’On.Pa. va parzialmente accolto, mentre deve essere rigettato quello proposto dalle parti civili.
Il ricorso di On.Pa.
1. In ordine alla posizione dell’imputato ricorrente – ritenuto responsabile in entrambi i gradi di giudizio per il reato di omicidio colposo aggravato dalla colpa cosciente – va premesso che, vertendosi in una fattispecie di c.d. doppia conforme, le due decisioni di merito vanno lette congiuntamente, integrandosi le stesse a vicenda, secondo il tradizionale insegnamento della Suprema Corte; tanto in base al principio per cui “Il giudice di legittimità, ai fini della valutazione della congruità della motivazione del provvedimento impugnato, deve fare riferimento alle sentenze di primo e secondo grado, le quali si integrano a vicenda confluendo in un risultato organico ed inscindibile” (Sez. 2, n. 11220 del 13/11/1997, Ambrosino, Rv. 209145; in conformità, tra le numerose altre, Sez. 6, n. 11878 del 20/01/2003, Vigevano, Rv. 224079; Sez. 6, n. 23248 del 07/02/2003, Zanotti, Rv. 225671; Sez. 5, n. 14022 del 12/01/2016, Genitore, Rv. 266617).
2. Con il primo e articolato motivo di impugnazione, la difesa dell’imputato ha complessivamente contestato la motivazione della Corte territoriale in punto di effettiva individuazione dell’origine della patologia tumorale che ha portato alla morte della persona offesa, deceduta a causa di melanoma con metastasi diffuse, cachessia neoplastica e conseguente arresto cardiocircolatorio.
In particolare, la difesa ha ritenuto che la sentenza impugnata avrebbe indebitamente applicato al profilo dell’eziologia del decesso il canone di alta probabilità logica, in luogo di quello della certezza immune da dubbi; ha argomentato che la Corte territoriale avrebbe fatto errata applicazione della legge scientifica di copertura in ordine all’individuazione del melanoma proprio nello specifico nevo oggetto dell’intervento di escissione operato dall’imputato, trascurando – con conseguente vizio di illogicità e di omessa motivazione – di considerare le possibili causali alternative del decesso, a partire dall’individuazione di una diversa origine del melanoma stesso in altri nevi, nella zona vulvare-vaginale ovvero in aree subungueali degli arti inferiori.
2.1 II motivo è complessivamente infondato, avendo – con il medesimo – la difesa, di fatto, reiterato censure già spiegate in sede di atto di appello e affrontate dalla Corte territoriale con motivazione congrua e priva di connotati di manifesta illogicità, coerentemente fondata sul sapere scientifico introdotto mediante la perizia medico-legale espletata in sede di incidente probatorio nonché collimante con gli ulteriori elementi probatori oggetto di valutazione.
Sotto tale profilo, deve infatti essere premesso – in via logicamente pregiudiziale – che eccede dai limiti di cognizione della Corte di cassazione ogni potere di revisione degli elementi materiali e fattuali, trattandosi di accertamenti rientranti nel compito esclusivo del giudice di merito, posto che il controllo sulla motivazione rimesso al giudice di legittimità è circoscritto, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. , alla sola verifica dell’esposizione delle ragioni giuridicamente apprezzabili che l’hanno determinata, dell’assenza di manifesta illogicità dell’esposizione e, quindi, della coerenza delle argomentazioni rispetto al fine che ne ha giustificato l’utilizzo e della non emersione di alcuni dei predetti vizi dal testo impugnato o da altri atti del processo, ove specificamente indicati nei motivi di gravame, requisiti la cui sussistenza rende la decisione insindacabile (Sez. 2, n. 9106 del 12/02/2021, Caradonna, Rv. 280747; Sez. 3, n. 17395 del 24/01/2023, Chen, Rv. 284556, tra le altre).
Ricordando, altresì, che non è consentita in sede di legittimità una rivalutazione nello stretto merito delle risultanze processuali, essendo preclusa in tale sede la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (Sez. 6, n. 27429 del 4/7/2006, Lobriglio, RV. 234559; Sez. 6, n. 47204 del 7/10/2015, Musso, Rv. 265482; Sez. 6, n. 5465 del 04/11/2020, dep. 2021, B., Rv. 280601); essendo, infatti, stato più volte ribadito che la Corte di cassazione non può sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di giudizio (Sez. 5, n. 39048 del 25/9/2007, Casavola, Rv. 238215; Sez. 6, n. 25255 del 14/2/2012, Minervini, Rv. 253099), restando esclusa la possibilità di una nuova valutazione delle risultanze acquisite, da contrapporre a quella effettuata dal giudice di merito, attraverso una diversa lettura dei dati processuali o una diversa ricostruzione storica dei fatti o un diverso giudizio di rilevanza o attendibilità delle fonti di prova (Sez. 2, n. 7380 del 11/1/2007, Messina, Rv. 235716).
Mentre, in relazione specifica all’ambito della responsabilità del sanitario, non è censurabile in sede di legittimità la decisione con cui il giudice di merito, nel contrasto tra opposte tesi scientifiche, all’esito di un accurato e completo esame delle diverse posizioni, ne privilegi una, purché dia congrua ragione della scelta e dimostri di essersi soffermato sulle tesi che ha ritenuto di non dover seguire (Sez. 4, n. 15493 del 10/03/2016, B., Rv. 266787).
2.2 Ciò posto, la sentenza di appello – nel confermare, sul punto, le argomentazioni già spese dalla pronuncia di primo grado – ha ritenuto che l’origine del melanoma costituente la causa del decesso della Re.Ro. non potesse che essere individuata nel nevo oggetto dell’intervento di asportazione cutanea effettuato dall’imputato nell’ottobre del 2018.
Sul punto, la censura di illogicità formulata dalla difesa attiene a un dedotto e improprio utilizzo, in ordine all’origine della neoplasia, del canone di “alta probabilità logica” (sulla scia dei principi dettati da Sez. U, n. 30328 del 10/07/2002, Franzese, Rv. 222138 – 01 e 222138 -02), il quale sarebbe proprio della, strutturalmente successiva, valutazione in punto di sussistenza del nesso causale tra la condotta omissiva addebitata al sanitario e l’evento lesivo.
Tale pregiudiziale argomentazione va ritenuta infondata alla luce di una complessiva lettura dei passaggi motivazionali oggetto di censura.
Va premesso che la giurisprudenza di questa Corte ha ripetutamente affermato che, in punto di valutazione del nesso di causalità, il passaggio logico inerente al giudizio controfattuale, imponendo di accertare se la condotta doverosa omessa, ove eseguita, avrebbe potuto evitare l’evento, richiede il preliminare accertamento di ciò che è naturalisticamente accaduto (ed. giudizio esplicativo), mentre il giudizio controfattuale (c.d. giudizio implicativo, o predittivo) implica la necessaria valutazione del potenziale carattere salvifico della condotta doverosa omessa, sulla base di un giudizio ipotetico fondato sul paradigma indiziario disponibile imperniato sulla verifica, anche empirica, ma scientificamente condotta, di tutti gli elementi di giudizio disponibili, criticamente esaminati (Sez. 4, n. 29889 del 05/04/2013, De Florentis, Rv. 257073; Sez. 4, Sentenza n. 16843 del 24/02/2021, Suarez Cardenas, Rv. 281074; Sez. 4, n. 416 del 12/11/2021, dep. 2022, Castriotta, Rv. 282559).
Specificamente, come rilevato in parte motiva da Sez. 4, Sentenza n. 36942 del 18/09/2024, Concilio, Rv. 287001, il ragionamento esplicativo – attinente al frammento dell’esame del giudizio di causalità riferito al tema definibile come del decorso causale “reale” – tenta di spiegare le cause di un accadimento e di individuare i fattori che lo hanno generato sulla base di giudizi causali retti da leggi scientifiche che esprimano una certa correlazione causale tra una categoria di condizioni e una categoria di eventi realmente verificatisi; conseguendone che, nell’ambito del ragionamento esplicativo, il sapere scientifico può fornire con ragionevole approssimazione la spiegazione di un determinato evento effettivamente verificatosi quale effetto di un determinato fattore eziologico; conseguendone che, in riferimento a tale aspetto del percorso motivazionale, il giudice è tenuto a valutare in senso rigoroso la piattaforma probatoria al fine di stabilire se essa avvalori o meno l’ipotesi accusatoria circa il rapporto tra la condotta umana e l’evento naturale verificatosi alla luce di una legge naturale o di regolarità statistiche, sulla base di significati frequentistici forniti dagli studi del settore di riferimento.
Di contro, il giudizio controfattuale (giudizio implicativo o predittivo) – attinente al tema definibile come del decorso causale “ipotetico” – pertiene a un ulteriore tipo di indagine, avente ad oggetto la prognosi postuma di cosa sarebbe accaduto ove la condotta omessa fosse stata posta in essere.
La valutazione processuale del ruolo salvifico della condotta omessa, come ha reiteratamente chiarito questa Corte di legittimità, non può che culminare in un giudizio ipotetico, con l’avvertenza che si tratta di un giudizio ipotetico che si svolge alla luce del “paradigma indiziario” disponibile (Sez.4, n. 43786 del 17/09/2010, Cozzini, in motiv.; Sez. 3 civ., n. 21530 dei 27/07/2021, Rv. 662197 – 01).
In tal caso – sempre sulla base dei parametri dettati dalla sentenza Franzese – al giudice si impone una puntuale analisi delle particolarità del caso concreto, che potrà condurre a un giudizio di elevata credibilità logica o di evidenza del probabile, indipendente da rigide quantificazioni statistiche, strettamente correlato alle caratteristiche del caso medesimo sulla base di un ragionamento probatorio non incerto.
In sostanza, ciò che si impone di verificare nel giudizio controfattuale è l’elevata credibilità logica o l’evidenza dell’efficacia salvifica della condotta alternativa corretta, con l’obiettivo di raggiungere una certezza processuale che sia frutto dell’elaborazione, da parte del giudice, delle evidenze disponibili (Sez. 4, n. 18573 del 14/02/2013, Meloni, Rv. 256338; Sez. 4, n. 16843 del 24/02/2021, Suarez, Rv. 281074).
2.3 In particolare, in una rilevante pronuncia emessa sul punto e attinente alla distinzione tra i due passi successivi dell’analisi del decorso causale – con specifico riferimento al tema della causalità omissiva – questa Corte ha rilevato che “se del giudizio predittivo si ammette la validità anche in presenza di esiti non coincidenti con la certezza processuale (oltre ogni ragionevole dubbio), sicché può dirsi che la condotta doverosa avrebbe avuto effetto impeditivo anche se tanto può affermarsi solo con elevata probabilità logica, per il giudizio esplicativo la certezza processuale (nei sensi sopra indicati) deve essere raggiunta. Ove si tratti di reati omissivi impropri può dirsi che la situazione tipica, donde trae origine l’indifferibilità dell’adempimento dell’obbligo di facere, deve essere identificata in termini non dubitativi; ove così non fosse non sarebbe possibile neppure ipotizzare l’omissione tipica. Si tratta di piani correlati ma distinti; e non sembra ammissibile che i deficit di conoscenza che incidono sul giudizio esplicativo possano essere colmati da una particolare evidenza dell’attitudine salvifica del comportamento doveroso mancato, perché in realtà senza una preliminare incontroversa delineazione del quadro fattuale quell’attitudine si può predicare solo in termini astratti” (così, in parte motiva, Sez. 4, n. 23339 del 31/01/2013, Giusti, Rv. 256941; in senso analogo le sopra citate Sez. 4, n. 416 del 12/11/2021, dep. 2022, Castriotta, Rv. 282559 e, in motivazione, Sez. 4, Sentenza n. 36942 del 18/09/2024, Concilio, Rv. 287001).
Peraltro, la tematica attinente al consolidato quadro giurisprudenziale in punto di giustapposizione tra canoni di giudizio propri del giudizio esplicativo e quelli, di rango ipotetico, sottesi al giudizio implicativo/predittivo, impone la precisazione di due specifici corollari.
2.4 In particolare riferimento alla materia in esame, ovvero quella del decorso causale in ambito sanitario, in specifica relazione all’ambito di indagine proprio del giudizio esplicativo, deve puntualizzarsi che la necessità del raggiungimento della certezza processuale in ordine all’evoluzione eziologica della patologia, implica comunque che il giudice di merito, al fine di raggiungere la certezza medésima, possa fondarsi sull’esame combinato degli elementi probatori acquisiti al processo, anche in applicazione della regola di giudizio dettata dall’art. 192, comma 2, cod. proc. pen. e quindi di desumere l’esistenza del fatto e delle pertinenti correlazioni causali anche sulla base di elementi di fatto gravi, precisi e concordanti.
Sotto altro profilo, i principi dettati dalla citata giurisprudenza di questa Corte in ordine alla contrapposizione tra regola di giudizio propria dell’ambito esplicativo rispetto a quella, logicamente successiva, propria del giudizio predittivo, non possono far giungere a teorizzare una giustapposizione ontologica tra i due ambiti sotto il profilo del canone dell'”oltre ogni ragionevole dubbio”.
Difatti, anche in relazione al decorso causale ipotetico – e pur tenendo conto degli specifici parametri imposti dalla sentenza Franzese – quella che deve essere formulata dal giudice di merito, alla luce dei conseguenti passaggi logici in tema di controfattualità (anche sulla scorta delle valutazione delle circostanza del caso concreto e dell’assenza di decorsi causali alternativi) è comunque una certezza processuale espressa “al di là di ogni ragionevole dubbio”; in ciò richiamando proprio uno dei fondamentali passaggi della sentenza Franzese, nel quale è stato rilevato che “l’insufficienza, la contraddittorietà e l’incertezza probatoria, quindi il plausibile e ragionevole dubbio, fondato su specifici elementi che in base all’evidenza disponibile lo avvalorino nel caso concreto, in ordine ai meccanismi sinergici dei plurimi antecedenti, per ciò sulla reale efficacia condizionante della singola condotta omissiva all’interno della rete di causazione, non può non comportare la neutralizzazione dell’ipotesi prospettata dall’accusa e l’esito assolutorio stabilito dall’art. 530 comma 2 c.p.p., secondo il canone di garanzia in dubio prò reo”.
Se ne deve quindi concludere che, proprio il rispetto del predetto canone probatorio, porta a escludere che tra le due specie di ragionamento probatorio -una di carattere reale e una di carattere ipotetico – possa concepirsi o teorizzarsi un’effettiva contrapposizione rispetto all’applicazione dell’art. 533, comma primo, cod. proc. pen.
2.5 Nel caso di specie, deve quindi ritenersi che – in tema di formulazione del giudizio esplicativo – i giudici di merito abbiano fatto corretta applicazione dei suddetti principi, giungendo a una valutazione di ragionevole certezza in ordine all’origine della patogenesi fondata sulle considerazioni compiute dai periti nominati in sede di incidente probatorio, a propria volta corroborate da una serie di elementi acquisiti al giudizio; alla luce dei quali – pure in assenza di un originario esame istologico sul nevo asportato e di accertamento sugli elementi di stadiazione – si è giunti a una conclusione, logicamente argomentata.
In particolare, la valutazione dei giudici di merito – conforme, sul punto, a quella dei periti – si fonda sull’elemento di prova costituito dalla rappresentazione fotografica della schiena della paziente (documento acquisito agli atti, raffigurato alla pag. 12 della perizia e risalente sicuramente a prima dell’intervento data l’assenza di cicatrici, come riferito dal perito in sede di esame) e sulla base della quale è stata evidenziata la presenza di un nevo avente una morfologia diversa rispetto agli altri nevi presenti nella medesima zona nonché identificabile come un melanoma in considerazione delle sue caratteristiche.
Esso si presentava come asimmetrico, dai bordi irregolari e dal colore scuro (pagg. 21 e 22 della trascrizione dell’esame dei periti) e avente oltre un centimetro di diametro (pag. 8 della trascrizione); formazione che. sulla base anche della documentazione video attinente alle ultime fasi dell’intervento, è stata identificata con certezza con quella oggetto dell’escissione eseguita dall’On.Pa.
2.6 Inoltre, gli ausiliari hanno fatto riferimento – al fine di escludere la sussistenza di altre possibili origini del melanoma – al contenuto della copiosa messaggistica acquisita agli atti e direttamente esaminata, dal complesso della quale era direttamente desumibile la comparsa, a circa sei mesi di distanza dall’intervento, di linfoadenopatie loco-regionali e controlaterali e, quindi, delle successive metastasi viscerali gastriche.
Ulteriormente, al fine di avvalorare la conclusione in punto di eziopatogenesi, i periti hanno fatto riferimento alle risultanze della TAC eseguita il 03/10/2020 presso l’istituto ospedaliero, sulla base della quale era stata rappresentata la presenza delle c.d. metastasi in transit, costituite da un nodulo collocato tra la sede originaria del melanoma, come sopra individuata (e coincidente con la zona paravertebrale destra) e quella della prima sede delle metastasi linfonodali; a propria volta definite come metastasi dermiche o sottocutanee poste a una distanza di oltre due centimetri dal melanoma primitivo e nella regione compresa tra questa e il bacino di linfonodi locoregionali.
2.7 II complessivo ragionamento probatorio seguito dai giudici di merito – in adesione a quanto esposto dagli ausiliari in tema di giudizio esplicativo – appare del tutto immune dalle prospettate censure di illogicità.
Ciò in quanto, sulla base dei predetti elementi di fatto derivanti dall’esame della documentazione clinica e dei supporti probatori, sempre di tipo documentale, i giudici di merito sono giunti a una valutazione di ragionevole certezza in riferimento alla quale le deduzioni difensive appaiono espressione di argomentazioni congetturali meramente oppositive e tali da non introdurre, secondo la congruente e conseguente conclusione dei giudici di merito, ragionevoli ipotesi alternative.
In particolare, la difesa ha argomentato – sulla scorta di quanto esposto dai propri consulenti di parte – che la metastasi qualificata come in transit, avendo caratteristiche complessive identiche a quelle delle altre metastasi, potrebbe essere correttamente ritenuta tale solo previa esatta individuazione della sede originaria del melanoma, nel caso di specie non effettivamente avvenuta.
Osservazione che si riconnette quindi, per diretta conseguenza logica, alle censure spiegate nel corpo del motivo di ricorso e attinenti alle possibili origini alternative del melanoma, ivi individuate: a) nell’evoluzione patogenetica di altri nevi presenti nella zona lombare o nell’insorgenza di nuovi nevi; b) nella potenziale origine vulvare o vaginale della patologia; c) nella possibile origine dai melanomi subungueali degli arti inferiori.
Deve ritenersi non palesemente illogica la motivazione dei giudici di merito in ordine all’origine del melanoma, nella parte in cui sono state analiticamente prese in esame le suddette censure difensive, inerenti a decorsi causali alternativi, peraltro radicalmente esclusi da parte dei periti.
In particolare – come evidenziato nella trascrizione del verbale di audizione dei periti (pag. 14) – gli ausiliari hanno rappresentato che, data la collocazione del nodulo metastatico, la lesione originante la metastasi stessa non poteva che essere collocata nella medesima zona di quella oggetto dell’escissione; evidenziando altresì (pag. 16) come tutti gli altri nevi raffigurati nella foto fossero “tipiche lesioni da scottatura al sole” e completamente diversi per caratteristiche morfologiche rispetto a quelli oggetto del successivo intervento.
D’altra parte, in ordine alla qualificazione del predetto nodulo quale metastasi in transit, in sede di udienza il perito ha univocamente riferito, sulla base di circostanza di fatto recepita da parte dei giudici di merito, che la relativa qualificazione era desumibile con grado di certezza proprio dalla sede della lesione, dalla presenza dei linfonodi inguinali sulla parte destra, dalla lesione paravertebrale destra e dalla metastasi segnalata clinicamente, oltre che – come detto – sulla base del relativo posizionamento del nodulo.
Mediante tale argomentazione, i giudici di merito sono quindi giunti – con motivazione scevra da illogicità – a un univoco giudizio in ordine al posizionamento dell’origine del melanoma escludendo che lo stesso potesse derivare da altri nevi; rafforzando, altresì, tale conclusioni con un ulteriore argomento di carattere induttivo – che si riallaccia a quello precedentemente esposto in ordine alle caratteristiche peculiari del nevo in questione – desunto dal filmato versato in atti e riproduttivo dell’ultima fase della medicazione effettuata dall’On.Pa. dopo l’intervento e dal quale emergeva che gli altri nevi ivi raffigurati presentavano le medesime caratteristiche morfologiche di quelli evidenziati nella predetta fotografia, non mostrando quindi alcun segno di evoluzione clinicamente apprezzabile.
Mentre, quanto alle origini alternative del melanoma, la Corte territoriale ha, con argomentazione congrua, escluso l’ipotesi dell’origine vaginale ovvero subungueale, fondandosi sui dati degli esami di laboratorio e delle visite specialistiche ai quali la Re.Ro. era stata sottoposta al momento dell’ingresso presso l’ospedale e nessuno dei quali aveva fornito indicazioni tali da poter ipotizzare l’esistenza di differenti sedi primarie del melanoma.
2.8 Ne consegue che, contrariamente a quanto argomentato nel motivo di ricorso, non sussiste alcuna altra ricostruzione causale – connotata dalle regole di giudizio tipiche della valutazione esplicativa, come sopra riassunte – tale da indurre a ipotizzare la sussistenza di diverse ipotesi in ordine al decorso causale della malattia tali da indurre in un ragionevole dubbio.
Essendo tali ipotesi fondate unicamente su una lettura di una parte del materiale probatorio in atti, rappresentato da alcune mail inviate dalla paziente e danti atto di irritazioni vaginali (manifestatesi nel giugno/luglio 2019) e di dolori alle gambe (manifestatesi in analogo periodo) e pure ritenute dai giudici di merito, con valutazione non tangibile in questa sede, compatibili proprio con l’evoluzione del melanoma proveniente dal nevo oggetto dell’intervento di escissione.
Deve quindi ritenersi, conclusivamente, che le sentenze di merito abbiano adeguatamente valutato – e correlativamente smentito – le ipotesi alternative sul decorso causale prospettate dalla difesa.
Dovendosi rammentare che, in tema di giudizio di legittimità, l’introduzione nel disposto dell’art. 533 cod. proc. pen. del richiamato principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio” ad opera della legge 20 febbraio 2006, n. 46, non ha mutato la natura del sindacato della Corte di cassazione sulla motivazione della sentenza, sicché la duplicità di ricostruzioni alternative del medesimo fatto, segnalata dalla difesa, non integra un vizio di motivazione se sia stata oggetto di disamina da parte del giudice di merito (Sez. 1, n. 5517 del 30/11/2023, dep. 2024, Lombardi, Rv. 285801).
Peraltro, il dubbio idoneo ad introdurre una ipotesi alternativa di ricostruzione dei fatti è soltanto quello “ragionevole”, ovvero quello che trova conforto nella logica, sicché, in caso di prospettazioni alternative , occorre comunque individuare gli elementi di conferma dell’ipotesi ricostruttiva accolta, non potendo il dubbio fondarsi su un’ipotesi del tutto congetturale, seppure plausibile (Sez. 4, n. 22257 del 25/03/2014, Guernelli, Rv. 259204; Sez. 3, n. 5602 del 21/01/2021, P., Rv. 281647 – 04).
3. Con il secondo motivo dì ricorso, la difesa ha dedotto l’illogicità e la contraddittorietà della motivazione nella parte in cui ha ritenuto sussistente una posizione di garanzia in capo all’On.Pa.
In particolare, la difesa ha ritenuto che: l’incertezza originaria sull’oggetto dell’intervento terapeutico (che poteva, ex ante, assumere anche la mera valenza di una sutura di una ferita) appariva incompatibile con la ritenuta esistenza di una ‘ presa in carico del bene-vita della paziente; il comportamento della Re.Ro., tenuto successivamente all’intervento, sarebbe stato tale da escludere la suddetta assunzione della posizione di garanzia e tanto sulla base del mancato affidamento negli strumenti propri della medicina tradizionale, non potendo quindi ritenersi muniti di carattere dimostrativo gli occasionali ed estemporanei contatti intercorsi con l’imputato; deducendosi altresì la carenza di un effettivo rapporto fiduciario tra questi e la paziente, dimostrato dal fatto che la Re.Ro. non aveva mai dato seguito ad alcun consiglio terapeutico rivoltole dall’On.Pa. tra il 2018 e il 2020 e che la stessa si era rivolta ad altre figure, pure prive di competenze mediche specifiche, al fine di acquisire consigli terapeutici, nei confronti delle quali – sulla base della prospettazione difensiva – poteva invece ritenersi perfezionata un’effettiva posizione di garanzia.
In sostanza, mediante la formulazione delle predette censure, la difesa ha ritenuto di escludere la sussistenza di una posizione di garanzia – in relazione al disposto dell’art. 40, comma 2, cod. pen. – sia nella fase di esecuzione dell’intervento e sia in relazione ai comportamenti successivi tenuti dal sanitario, pure posti alla base di specifiche contestazioni contenute nell’atto di esercizio dell’azione penale.
Il motivo deve ritenersi complessivamente infondato, avendo la Corte territoriale individuato la sussistenza di una posizione di garanzia in capo all’On.Pa. in riferimento a tutte le scansioni temporali contenute nell’imputazione applicando correttamente i principi pertinenti e dando conto del percorso logico giuridico seguito con motivazione completa e non manifestamente illogica.
3.1 Va quindi premesso che la giurisprudenza di legittimità si è specificamente soffermata sulla nozione – e sui criteri di selezione – del soggetto che versa in posizione di garanzia, in coerenza con i principi di tassatività e determinatezza che presiedono alla formulazione delle norme penali; trattandosi, in realtà, di un’elaborazione imposta dalla funzione incriminatrice direttamente svolta dalla “clausola” di cui all’art. 40, comma 2, cod. pen., per il caso di inosservanza degli obblighi impeditivi da parte del soggetto individuato come garante.
Al riguardo, la Corte regolatrice ha osservato che si delinea una posizione di garanzia, nei sensi ora indicati, a condizione che: (a) un bene giuridico necessiti di protezione, poiché il titolare da solo non è in grado di proteggerlo; (b) una fonte giuridica – anche negoziale – abbia la predetta finalità di tutela; (c) tale obbligo di protezione gravi su una o più persone specificamente individuate; (d) queste ultime siano dotate di poteri atti ad impedire la lesione del bene garantito ovvero siano ad esse riservati mezzi idonei a sollecitare gli interventi necessari ad evitare che l’evento dannoso sia cagionato (Sez. 4, n. 24372 del 09/04/2019, Molfese, Rv. 276292).
Va altresì richiamato il consolidato principio in base al quale, in tema di reati omissivi colposi, la posizione di garanzia può derivare, oltre che da una fonte normativa, sia di diritto pubblico che di natura privatistica, anche da una situazione di fatto, cioè dall’esercizio delle funzioni tipiche del garante, mediante un comportamento concludente consistente nella presa in carico del bene protetto (tra le altre, Sez. 4, n. 24372 del 09/04/2019, Molfese, Rv. 276292 cit.; Sez. 4, n. 21869 del 25/05/2022, Tomasso, Rv. 283387); conseguendone, specificamente, che, in tema di colpa professionale medica, l’instaurazione della relazione terapeutica tra medico e paziente è fonte della posizione di garanzia che il primo assume nei confronti del secondo e da cui deriva l’obbligo di attivarsi a tutela della salute e della vita (Sez. 4, n. 10819 del 04/03/2009, Ferlito, Rv. 243874; Sez. 4, n. 15178 del 12/01/2018, Tessitore, Rv. 273012).
Ancora, nel settore dell’attività medica, si è poi precisato che la posizione di garanzia è riferibile, sotto il profilo funzionale, ad entrambe le categorie in cui tradizionalmente si inquadrano gli obblighi in questione: ovvero la posizione di garanzia c.d. di protezione, che impone di preservare il bene protetto da tutti i rischi che possano lederne l’integrità; e la posizione c.d. di controllo, che impone di neutralizzare le eventuali fonti di pericolo che possano minacciare il bene protetto (Sez. 4, n. 7967 del 29/01/2013, Fichera, Rv. 25443101, in motivazione; Sez. 4, n. 25310 del 07/04/2004, Ardovino, Rv. 228954).
3.2 Non sussiste quindi dubbio che il conferimento dell’incarico all’On.Pa. -pure avvenuto al di fuori di qualsiasi formalizzazione – di procedere chirurgicamente all’asportazione di una lesione cutanea, abbia determinato l’instaurazione di una relazione terapeutica rilevante ai fini del perfezionamento del rapporto di garanzia; rimanendo del tutto irrilevanti e non idonee a configurare una valutazione di illogicità tale da scalfire tale conclusione le argomentazioni spiegate dalla difesa in ordine alle motivazioni contingenti in forza dei quali il predetto intervento era stato predisposto (ovvero se lo stesso fosse stato richiesto in ragione di un occasionale sanguinamento del nevo oppure di un generico fastidio derivante da tale formazione).
In relazione alla fase successiva rispetto all’effettuazione dell’intervento, la difesa ha sottolineato come i rapporti – di fatto – instaurati tra la Re.Ro. e l’On.Pa. e propedeutici rispetto agli esami obiettivi delle paziente avvenuti nel maggio del 2019 e nel giugno del 2020 sarebbero intervenuti, anche per i concreti contesti in cui gli stessi sarebbero avvenuti, in maniera del tutto occasionale e al di fuori di un’effettiva relazione terapeutica e, in quanto tali, effettivamente inidonei a concretizzare una posizione di garanzia; e, di conseguenza, a poter ritenere applicabili i principi suddetti in tema di prolungamento degli obblighi derivanti dalla posizione medesima anche nella fase postoperatoria.
Sul punto, la difesa dell’imputato ha specificamente fatto riferimento alle considerazioni espresse da Sez.4, n. 10795 del 14/11/2007, Pozzi, n. m., nella cui parte motiva è stato sottolineato che “una posizione di garanzia del medico può sorgere esclusivamente con l’instaurazione della relazione terapeutica tra il paziente e il professionista” e che “è invece stato escluso in dottrina che sorga una posizione di garanzia “in capo al medico che sia stato soltanto occasionalmente richiesto di un parere, nel quadro di una relazione di amicizia, convivialità, familiarità o convivenza, ma al di fuori di uno specifico conferimento di incarico professionale””.
3.3 Tale giurisprudenza, relativa alle connotazioni proprie del rapporto di garanzia nella relazione tra medico e paziente (anche in riferimento al concetto di “continuità assistenziale”, su cui Sez. 4, n. 39838 del 19/09/2016, Ficarra, Rv. 267780) deve ritenersi condivisibile ma, peraltro, questo Collegio ritiene che non sia applicabile nel caso di specie.
Difatti, come pure evidenziato dalla Corte territoriale nel relativo passaggio motivazionale, le richieste di parere provenienti dalla Re.Ro. nei confronti dell’On.Pa. non potevano, nel caso di specie, ritenersi svincolate e indipendenti rispetto a quelle nascenti dall’originaria relazione terapeutica instaurata in occasione dell’intervento.
Tanto in conseguenza della fondamentale considerazione in base alla quale le richieste dei pareri avanzate nel maggio del 2019 e, poi, nel giugno del 2020 non potevano ritenersi intervenute nel quadro di un mero rapporto amicale, ma erano stato rivolte al medico che aveva operato la paziente per l’asportazione del nevo e che – dopo l’esecuzione dell’intervento – aveva espressamente sollecitato la paziente medesima a far sottoporre il reperto ad esame istologico in conseguenza della sospetta presenza di un melanoma; elemento di fatto riferito dallo stesso On.Pa. in sede di interrogatorio e inequivocabilmente attestato dalla messaggistica risalente al 5 ottobre 2020 e riportata alla pag. 46 della sentenza di primo grado (in cui il sanitario aveva fatto espresso riferimento al rifiuto, da parte della Re.Ro., di sottoporre il reperto asportato all’esame istologico).
Il complesso di tali considerazioni induce quindi a ritenere che le richieste di esame provenienti dalla Re.Ro. si giustificassero in ragione della relazione tra sanitario e paziente instauratasi con l’intervento e suscettibile di venire meno solo per esplicita interruzione voluta da una delle parti.
Appare quindi congruente la conclusione espressa dai giudici di merito nella parte in cui hanno ritenuto irrilevante la circostanza che la Re.Ro., durante il decorso successivo all’intervento, abbia chiesto ausilio e consigli anche ad altre figure, prive peraltro di qualsiasi documentata specializzazione medica.
Dovendo altresì essere richiamati i consolidati principi in base ai quali gli obblighi impeditivi e di controllo che derivano dalla posizione di garanzia non vengono meno per il solo fatto che vi siano altri soggetti gravati da autonomi e concorrenti analoghi obblighi e permangono fino a quando non si esaurisce il rapporto che ha legittimato la costituzione della singola posizione di garanzia; derivandone specificamente che, in tema di attività medico-chirurgica, il sanitario operante è titolare di una posizione di garanzia il cui contenuto non si esaurisce con lo svolgimento dell’atto operatorio ma si estende anche a tutto il successivo decorso e tanto in base alla considerazione in forza della quale le esigenze di cura e di assistenza dell’infermo sono note a colui che ha eseguito l’intervento più che ad ogni altro sanitario e discendendone la conseguente responsabilità ai sensi dell’art. 40, comma 2, cod. pen., qualora l’evento dannoso sia riconducibile a un comportamento omissivo individuabile nella fase postoperatoria (Sez. 4, n. 12275 del 08/02/2005, Zuccarello, Rv. 231321; Sez. 4, n. 17222 del 06/03/2012, Arena, Rv. 252375; Sez. 4, n. 22007 del 23/01/2018, Muratore, Rv. 272744).
Mentre le considerazioni inerenti all’insussistenza – in ragione delle personali convinzioni della Re.Ro. sull’efficacia delle terapie mediche tradizionali – di un rapporto di fiducia con il sanitario che l’aveva operata appaiono del tutto distoniche rispetto alle valutazioni inerenti all’instaurazione di un rapporto di garanzia; riguardando le stesse, evidentemente, il distinto profilo relativo alla materiale impossibilità, in capo al garante, di influenzare il corso dell’evento e ricadendo, quindi, nello specifico tema del giudizio controfattuale.
4. Con il terzo motivo di impugnazione, la difesa dell’On.Pa. ha dedotto la carenza, illogicità e contraddittorietà della motivazione nella parte in cui è stata ritenuta una responsabilità colposa in capo al ricorrente e in relazione ai singoli profili ravvisati nelle pronunce di merito; e, in particolare: a) nell’avere accettato le richieste formulate dalla paziente in ordine all’effettuazione della medicazione dopo l’intervento, in quanto non connesse – dal punto di vista scientifico – all’evoluzione metastatica del melanoma; b) nella indebita sottovalutazione della natura potenzialmente maligna del nevo escisso, in quanto all’imputato, in mancanza di prova circa l’ulcerazione della lesione pigmentata, non poteva essere ascritto alcun rimprovero per non avere sospettato la ricorrenza del melanoma, non essendo lo stesso imputato – qualora il nevo fosse stato sanguinante al momento dell’escissione – in grado di cogliere le possibili implicazioni cliniche della lesione; c) nella manifesta illogicità dell’individuazione delle regole cautelari asseritamente violate dal sanitario e nella carenza di motivazione della sentenza nella parte in cui aveva ritenuto che l’imputato non avesse fornito alla Re.Ro. un’informazione esaustiva; in particolare, ritenendo che il consenso della paziente fosse comunque necessario per l’effettuazione dell’esame istologico e risultando apodittica la motivazione della sentenza nella parte in cui aveva ritenuto come sicuramente violato l’obbligo di preventiva informazione; d) nella manifesta illogicità della sentenza in ordine alla mancata correlazione tra la comparsa dei rigonfiamenti linfonodali e la medicazione del nevo escisso; deducendo, con ripresa di quanto argomentato in precedente punto, che l’imputato non era in grado di rendersi conto della natura maligna del nevo e che, in ogni caso, in epoca successiva l’imputato stesso aveva avuto una conoscenza solo fugace ed impropria dei sintomi lamentati dalla paziente.
Il motivo deve ritenersi parzialmente fondato unicamente in relazione alla qualificazione come colposa delle condotte tenute dal sanitario a seguito delle richieste di parere provenienti dalla paziente nelle già richiamate occasioni del maggio del 2019 e del giugno del 2020.
4.1 Specificamente, il primo punto di doglianza, relativo alla dedotta insussistenza di nesso casuale tra l’escissione del nevo – considerata in sé stessa – e lo sviluppo della patologia tumorale, appare del tutto avulso rispetto allo specifico passaggio motivazionale della Corte territoriale.
Analoga considerazione deve essere formulata in relazione al terzo punto di doglianza, attinente alla dedotta carenza di effettiva dimostrazione del fatto (negativo) inerente al mancato adempimento degli obblighi informativi gravanti sul sanitario; punti, i suddetti, che possono essere congiuntamente esaminati in quanto entrambi attinenti alla violazione di regole cautelari incombenti sul sanitario nella fase antecedente all’intervento.
Va rilevato che la situazione di fatto accertata nelle sentenze di merito sulla base del complesso degli elementi acquisiti – come detto – faceva riferimento alla presenza, sulla schiena della paziente, di un nevo sanguinante, esprimendosi le sentenze medesime in termini dubitativi unicamente in ordine alla causa contingente del sanguinamento (ovvero se derivante da sfregamento ovvero da altro tipo di trauma).
In ogni caso, le sentenze medesime – con argomentazione intrinsecamente logica e, in particolare, coerente con le risultanze della perizia disposta in sede di incidente probatorio – hanno concordemente dato atto di come la presenza del sanguinamento fosse univocamente sintomatica della pericolosità della lesione (come affermato dal perito Qu. in sede di esame, pag. 12 della trascrizione).
Si tratta di un’affermazione univoca, a fronte della quale il ricorrente ha introdotto una serie di elementi oppositivi di segno contrario specificamente collegati all’affermazione secondo la quale il sanguinamento sarebbe indice di pericolosità del nevo solo in qualora lo stesso potesse considerarsi spontaneo e dovuto a ulcerazione, argomentando che – nella fattispecie concreta – il sanguinamento medesimo avrebbe potuto essere dovuto a una lesione contingente.
Si tratta, peraltro, di un profilo di mero fatto – già vagliato dalla Corte con motivazione non manifestamente illogica e fondata proprio sull’affermazione degli ausiliari – la cui reintroduzione in questa sede non è compatibile con i limiti propri del giudizio di legittimità.
Si verteva, quindi, in una situazione che – come rilevato nella sentenza impugnata – avrebbe imposto l’adempimento di una corretta e approfondita informazione tra medico e paziente, con particolare riferimento alla necessità di effettuazione di un esame istologico; tanto in coerenza con il principio espresso da questa Corte, in forza del quale è configurabile una colpa per negligenza nella condotta del medico che, in presenza di sintomatologia idonea a formulare una diagnosi differenziale, non rispetti l’obbligo cautelare informativo di rendere edotto il paziente circa l’insufficienza dei dati diagnostici acquisiti per individuare l’effettiva patologia che lo affligga, così da prevenire il rischio di scelte inconsapevolmente ostative agli approfondimenti diagnostici e alle cure (Sez. 4, n. 8464 del 17/02/2022, Masone, Rv. 282759).
D’altra parte, la Corte territoriale ha univocamente richiamato, in quanto rilevante ai fini della valutazione del correlativo profilo di colpa, oltre che i codici di deontologia medica approvati dagli organismi locali e nazionali (e dai quali si evince che il medico non deve accedere a richieste del paziente in contrasto con i principi di scienza e coscienza allo scopo di compiacerlo, sottraendolo alle cure disponibili sperimentate ed efficaci), anche lo specifico disposto dell’art. 1 della L. 22 novembre 2017, n. 219, già in vigore al momento del fatto, in base al quale: “Ogni persona ha il diritto di conoscere le proprie condizioni di salute e di essere informata in modo completo, aggiornato e a lei comprensibile riguardo alla diagnosi, alla prognosi, ai benefici e ai rischi degli accertamenti diagnostici e dei trattamenti sanitari indicati, nonché riguardo alle possibili alternative e alle conseguenze dell’eventuale rifiuto del trattamento sanitario e dell’accertamento diagnostico o della rinuncia ai medesimi. Può rifiutare in tutto o in parte di ricevere le informazioni ovvero indicare i familiari o una persona di sua fiducia incaricati di riceverle e di esprimere il consenso in sua vece se il paziente lo vuole. Il rifiuto o la rinuncia alle informazioni e l’eventuale indicazione di un incaricato sono registrati nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico” (comma 3) e, altresì che “Il paziente non può esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali; a fronte di tali richieste, il medico non ha obblighi professionali” (comma 6).
La Corte territoriale ha quindi osservato, con argomentazione logica e congruente con le suddette disposizioni, che nessuno degli adempimenti imposti dai codici deontologici nonché dalla predetta fonte normativa risulta essere stato osservato nel caso di specie da parte del sanitario.
Difatti, dal complesso degli elementi probatori acquisiti agli atti è emerso che, il consenso informato non è stato in alcun modo acquisito con le specifiche modalità formali imposte dalla I. n. 209/2017, il quale – tra l’altro – prevede che lo stesso “è documentato in forma scritta o attraverso videoregistrazioni o, per la persona con disabilità, attraverso dispositivi che le consentano di comunicare”; tale conclusione si giustifica alla luce dello stesso interrogatorio dell’On.Pa. – le cui risultanze sono state citate dalla Corte territoriale alla pag. 36 della sentenza impugnata – nella quale il medico ha unicamente riferito che la paziente aveva espresso un rifiuto al ricorso a una struttura medica pubblica e privata, rifiutando altresì l’anestesia locale e l’effettuazione del successivo esame istologico (“in quanto del tutto disinteressata a tal genere di accertamento diagnostico, nonostante lui l’avesse invitata più volte a farlo”).
Deve quindi ritenersi che il complesso delle argomentazioni spese dalla Corte territoriale in punto di intervenuta dimostrazione della violazione dell’obbligo informativo e della conseguente mancata acquisizione del consenso informato secondo le norme disciplinanti la materia, si appalesi del tutto consequenziale e logico; deve perciò ritenersi coerente con le risultanze processuali anche il dato, evinto dal suddetto materiale probatorio, in base al quale non risulta provato che il sanitario abbia fornito informazioni alla paziente sul pericolo connesso al rifiuto di sottoporsi a esame istologico sul tessuto asportato, limitandosi invece unicamente a richiedere alla stessa se fosse disponibile a eseguirlo.
Per l’effetto di tale condotta, il sanitario non ha adeguatamente informato la paziente in ordine alla necessità del successivo esame istologico sul tessuto asportato, esame a propria volta – e in riferimento al citato art. l, comma 3, della I. n. 209/2017 – rientrante in quegli “accertamenti diagnostici e trattamenti sanitari” oggetto dell’obbligo informativo così come le notizie inerenti “alle conseguenze dell’eventuale rifiuto del trattamento sanitario e dell’accertamento diagnostico o della rinuncia ai medesimi”.
4.2 Deve quindi osservarsi che, al fine di censurare la motivazione della Corte territoriale, la difesa del ricorrente ha fatto riferimento a un singolo passaggio argomentativo – nel quale il giudice di appello ha rilevato che potesse dubitarsi della necessità del consenso del paziente ai fini dell’effettuazione dell’esame istologico, elemento in realtà smentito dal citato testo dell’art. 1, comma 3, 1.209/2017 – omettendo però, di fatto, di tenere conto dell’inserimento di tale inciso all’interno dell’argomento in base al quale l’intera fase di espletamento dell’obbligo informativo e di acquisizione del consenso erano mancate, di modo da ritenere – con osservazione non illogica – che il rifiuto della Re.Ro. di procedere all’esame istologico (che avrebbe potuto rilevare la potenziale natura letale della formazione asportata) fosse una diretta conseguenza proprio dell’inadempimento rispetto agli obblighi informativi posti a monte.
Cosi come appare del tutto generica e aspecifica la censura secondo la quale non risulterebbe provata l’omissione dell’obbligo informativo, attesa la accertata mancata acquisizione del consenso informato secondo le modalità previste dalla legge e sopra richiamate.
Deve quindi ritenersi coerente e immune da censure la conclusione della Corte territoriale sulla di violazione, da parte del sanitario, delle disposizioni inerenti all’acquisizione del consenso rispetto all’intervento da effettuare.
D’altra parte, va ricordato che – già con risalente pronuncia – questa Corte ha affermato che qualora un medico ometta di praticare accertamenti diagnostici imposti dai protocolli professionali (quali, specificamente, l’esame istologico) e successivamente venga riscontrato un carcinoma, può affermarsi la sua responsabilità sulla base della detta omissione, ove sia certo che, al momento in cui gli esami avrebbero dovuto essere effettuati, la malattia fosse già diagnosticabile (cfr. Sez. 4, n. 6511 del 24/02/2000, Minella, Rv. 216732).
4.3 In relazione al secondo punto del motivo di impugnazione, il ricorrente ha dedotto un travisamento degli elementi probatori da parte della Corte territoriale con riguardo al sanguinamento del nevo e alla conseguente indebita sottovalutazione della natura maligna della formazione.
Va quindi premesso che, rispetto al denunciato vizio di travisamento della prova, questo può essere dedotto con il ricorso per cassazione, nel caso – come quello di specie – di cosiddetta “doppia conforme “, nell’ipotesi in cui il giudice di appello, per rispondere alle critiche contenute nei motivi di gravame, abbia richiamato dati probatori non esaminati dal primo giudice, ovvero quando entrambi i giudici del merito siano incorsi nel medesimo travisamento delle risultanze probatorie acquisite in forma di tale macroscopica o manifesta evidenza da imporre, in termini inequivocabili, il riscontro della non corrispondenza delle motivazioni di entrambe le sentenze di merito rispetto al compendio probatorio acquisito nel contraddittorio delle parti (Sez. 2, n. 5336 del 09/01/2018, L., Rv. 272018; Sez. 4, n. 35963 del 03/12/2020, Tassoni, Rv. 280155) e sempre che sia rispettato il principio devolutivo; ricordando che tale vizio vede circoscritta la cognizione del giudice di legittimità alla verifica dell’esatta trasposizione nel ragionamento del giudice di merito del dato probatorio, rilevante e decisivo, per evidenziarne l’eventuale, incontrovertibile e pacifica distorsione, in termini quasi di “fotografia “, neutra e a-valutativa, del “significante”, ma non del “significato”, atteso il persistente divieto di rilettura e di re-interpretazione nel merito dell’elemento di prova (Sez. 5, n. 26455 del 09/06/2022, Dos Santos Silva, Rv. 283370).
In particolare, il ricorso per cassazione con cui si lamenta il vizio di motivazione per travisamento della prova, non può limitarsi, pena l’inammissibilità, ad addurre l’esistenza di atti processuali non esplicitamente presi in considerazione nella motivazione del provvedimento impugnato ovvero non correttamente o adeguatamente letti dal giudicante, quando non abbiano carattere di decisività, ma deve, invece: a) identificare l’atto processuale cui fa riferimento; b) individuare l’elemento fattuale o il dato probatorio che da tale atto emerge e che risulta incompatibile con la ricostruzione svolta nella sentenza; c) dare la prova della verità dell’elemento fattuale o del dato probatorio invocato, nonché della effettiva esistenza dell’atto processuale su cui tale prova si fonda; d) indicare le ragioni per cui l’atto inficia e compromette, in modo decisivo, la tenuta logica e l’intera coerenza della motivazione, introducendo profili di radicale incompatibilità all’interno dell’impianto argomentativo del provvedimento impugnato (Sez. 6, n. 10795 del 16/02/2021, F., Rv. 281085).
Ciò premesso, la difesa ha ritenuto che i giudici di merito avrebbero complessivamente equivocato il quadro probatorio – incorrendo quindi nel vizio di travisamento – atteso che, dal medesimo, non sarebbero univocamente risultate le cause del pregresso sanguinamento del nevo e che – proprio in considerazione delle condizioni del nevo al momento dell’escissione (sanguinante per un presumibile fatto traumatico accidentale e, pure presumibilmente, attraversato quindi da un taglio) non vi sarebbe stata la possibilità dì rendersi conto dell’effettiva morfologia della formazione.
Tale profilo di censura è complessivamente inammissibile, in quanto, da un lato, non introduce un vero e proprio profilo di travisamento della prova e, peraltro, è fondato su una lettura parziale e non sinottica del materiale probatorio.
Sul punto, difatti, il giudice di merito – con valutazione coerente con i dati probatori e non palesemente illogica – ha pregiudizialmente valorizzato quanto riferito dai periti tanto in sede di relazione quanto di successivo esame, in base a cui il dato del sanguinamento del nevo – indipendentemente dalla causa contingente che lo avesse causato – costituiva un sintomo della sussistenza di un melanoma (si veda la pag. 12 della trascrizione dell’esame della perita Qu., in cui la stessa ha riferito che “è proprio il fatto che sanguina che fa immaginare che possa essere una lesione pericolosa”).
Proprio tale pregiudiziale considerazione, in ordine all’intrinseca pericolosità di una lesione sanguinante, connota quindi nel senso della assoluta coerenza la valutazione della Corte territoriale in punto di violazione delle regole cautelari da parte del medico operante in ordine alla mancata effettuazione dei necessari accertamenti e dello svolgimento dell’eventuale operazione di escissione senza elementi propedeutici alla valutazione dello stato della lesione.
D’altra parte, ulteriormente rispetto a tale dato – che appare pregiudiziale -il sapere scientifico introdotto nel giudizio è anche del tutto idoneo a smentire l’ulteriore postulato messo alla base del profilo di doglianza.
Atteso che i periti (pag. 59 della relazione) hanno univocamente esposto che le caratteristiche morfologiche della lesione – sulla base della regola dell’ABCDE (e in specifica correlazione ai primi quattro profili, ovvero asimmetria, bordi irregolari, colore scuro, dimensioni superiore a 0,6 mm, essendo quello ulteriore relativo all’evoluzione della formazione non accertabile nel caso concreto) – erano comunque chiaramente percepibili da parte del medico operante pure in presenza del sanguinamento, connotando quindi di imprudenza e negligenza il mancato successivo accertamento istologico.
Ma, ulteriormente, le considerazioni alla base del relativo punto di doglianza non tengono conto di un elemento già evocato e univocamente valorizzato da parte dei giudici di merito.
Ovvero quello in base al quale doveva ritenersi univocamente sussistente, in capo al sanitario, il sospetto in ordine alla sussistenza di un melanoma, deducibile proprio dall’elemento – univocamente desunto dai giudici di merito sulla base dei dati probatori prima richiamati – in base al quale l’On.Pa. aveva sollecitato la paziente, attesa la concreta connotazione del reperto escisso, a sottoporre lo stesso all’esame istologico.
4.4 Deve invece ritenersi fondato il punto di doglianza attinente alla motivazione relativa alla sussistenza di ulteriori profili di colpa – specificamente qualificati dalla Corte territoriale nell’ambito dell’imperizia in sede diagnostica -associati all’omessa correlazione tra la proliferazione linfonodale, riscontrata nel maggio del 2019 e nel giugno 2020, con la lesione asportata nell’ottobre 2018.
Invero, risulta infondata l’argomentazione in base alla quale tale correlazione non sarebbe stata ipotizzabile dal sanitario, non essendo stato questi nella condizione dì individuare la potenziale natura tumorale del nevo escisso; infatti, è inequivocabilmente emerso, in occasione dell’intervento, la prospettazione dell’opportunità di procedere all’esame istologico.
Appaiono pure infondate le censure che fanno perno sul carattere estemporaneo e sommario dei pareri successivamente richiesti al sanitario.
Ciò posto, la motivazione della Corte territoriale appare però intrinsecamente contraddittoria proprio nella parte in cui ha qualificato come imperite le condotte concretamente dell’On.Pa. nelle due predette occasioni.
Nelle motivazioni dei giudici di merito è stato fatto riferimento al contenuto della relazione peritale e all’esame reso dagli ausiliari; alla pag. 40 della sentenza di appello è stato esposto che la rappresentazione della comparsa di una linfoadenopatia nella regione inguinale destra, descritta dalla paziente sin dall’aprile del 2019 e materialmente presa in esame dall’On.Pa. mediante valutazione obiettiva, costituiva circostanza che consentiva di rilevare una correlazione tra la stessa e l’asportazione del nevo, tenuto conto che, come esposto dagli ausiliari si tratta di una correlazione “nella competenza di qualunque laureato in Medicina e Chirurgia ed abilitato alla professione medica” (pag. 61 della relazione); affermazione riferibile anche alla proliferazione linfonodale riscontrata dal medico nel giugno del 2020.
Coerentemente con tale premessa, la Corte territoriale ha ritenuto che il sanitario – indipendentemente dal carattere occasionale delle suddette visite e dal loro svolgimento in ambiente extraprofessionale – avrebbe dovuto approfondire il dato anamnestico procedendo a una diagnosi differenziale; richiamando sul punto il principio espresso da questa Corte in base al quale è configurabile come colposa la condotta del medico che, in presenza di sintomatologia idonea a formulare una diagnosi differenziale, non rispetti l’obbligo cautelare informativo di rendere edotto il paziente circa l’insufficienza dei dati diagnostici acquisiti per individuare l’effettiva patologia che lo affligga (Sez. 4, n. 8464 del 17/02/2022, Masone, Rv. 282759), così da prevenire il rischio di scelte inconsapevolmente ostative agli approfondimenti diagnostici e alle cure e rimanendo fermo su un’iniziale diagnosi inesatta (Sez. 4, n. 26906 del 15/05/2019, Hijazì, Rv. 276341); la quale diagnosi inesatta si fondava, secondo quanto riferito dallo stesso medico in sede di interrogatorio, sull’asserita frequenza – e sul conseguente carattere non allarmante – della condizione rappresentata dall’infiammazione di un linfonodo.
Tuttavia, la motivazione della Corte è caratterizzata da un evidente vulnus nella parte in cui non specifica quale ulteriore comportamento alternativo lecito avrebbe dovuto, nei casi concreti, essere tenuto dall’imputato.
Difatti, lo stesso giudice di appello ha evidenziato (richiamando, sul punto, le dichiarazioni rese dal medesimo On.Pa.) che, in entrambe le suddette occasioni, il sanitario, a seguito dell’esame obiettivo, aveva prospettato alla Re.Ro. l’opportunità di procedere a un esame specialistico e, in particolare, di effettuare un’ecografia alla zona inguinale al fine di stabilire l’eziologia della proliferazione linfonodale.
La motivazione del giudice di appello appare quindi mancante perché, dopo aver ritenuto sussistente, una colpa per imperizia – derivante dal non avere immediatamente posto in correlazione l’ingrossamento dei linfonodi con la precedente asportazione del nevo e nel non avere proceduto alla formulazione della diagnosi differenziale – non ha chiarito quale comportamento avrebbe dovuto tenere l’imputato, diverso da quello della indicazione della necessità di approfondimento strumentale da effettuare mediante l’esecuzione di una visita specialistica e di un esame ecografico.
D’altra parte, è la stessa Corte territoriale (pag. 41) ad affermare che – per tutto il periodo compreso tra l’ottobre del 2018 e il giugno del 2020 – la Re.Ro. non aveva fornito all’On.Pa., informazioni in ordine al proprio stato di salute; ragione per la quale, anche in considerazione del carattere estemporaneo delle visite effettuate nel maggio 2019 e nel giugno 2020, la motivazione appare quindi intrinsecamente illogica nella parte in cui assume la sussistenza di profili di imperizia senza prospettare la necessità, in tali occasioni, di comportamenti diversi rispetto a quelli costituiti dai previ e indispensabili approfondimenti strumentali.
Ne consegue che la Corte non ha adeguatamente superato la censura difensiva inerente alla mancanza di imperizia; non avendo individuato quali comportamenti leciti avrebbero dovuto seguire alla mancata correlazione tra la proliferazione linfonodale e l’intervento, esplicitazione tanto più necessaria dal momento che l’On.Pa. aveva comunque sollecitato l’esecuzione di approfondimenti diagnostici.
5. Con il quarto motivo di ricorso, la difesa dell’imputato ha censurato le sentenze di merito in punto di valutazione della c.d. causalità della colpa e di conseguente giudizio controfattuale; ritenendo che, pur ipotizzando come realizzati i comportamenti alternativi leciti la cui omissione era stata ascritta al sanitario, vi sarebbe stato un travisamento probatorio ove era stato ritenuto che la Re.Ro. avrebbe accettato di sottoporsi ai necessari accertamenti diagnostici; ciò in considerazione delle personali convinzioni della persona offesa in merito di alle problematiche sanitarie, comportanti il rifiuto delle terapie tradizionali e dell’assunzione di farmaci.
Il motivo è fondato, rinvenendosi un’evidente aporia logica nel ragionamento seguito dalla Corte territoriale.
5.1 Va premesso che, proprio richiamando i principi espressi nella più volte richiamata sentenza Franzese, in tema di responsabilità medica per omissione, l’accertamento del nesso causale, ed in particolare il giudizio controfattuale necessario per stabilire l’effetto salvifico delle cure omesse, deve essere effettuato secondo un giudizio di alta probabilità logica, tenendo conto non solo di affidabili informazioni scientifiche ma anche delle contingenze significative del caso concreto, ed in particolare, della condizione specifica del paziente (in tal senso, tra le altre, Sez. 4, n. 33230 del 18/11/2020, Campo, Rv. 280074; Sez. 4, n. 28182 del 06/07/2021, R., Rv. 281737; Sez. 4, n. 9705 del 15/12/2021, dep. 2022, Pazzoni, Rv. 282855).
Nel caso di specie, in correlazione con le argomentazioni difensive poste alla base del motivo di ricorso, la valutazione operata dalla Corte territoriale appare manifestamente illogica per non avere tenuto conto delle particolari connotazioni del caso concreto, esplicando la valutazione della loro incidenza sul giudizio ipotetico.
Il giudice di appello ha dato atto della personalità e delle convinzioni della Re.Ro., evidenziando come la stessa si fosse “liberamente orientata verso l’opzione per uno stile di vita marcatamente naturista, con accentuata ritrosia verso i trattamenti della medicina tradizionale” (pag. 23); e, ulteriormente, che la stessa “era una convinta naturista, fermamente convinta della bontà dei rimedi di carattere naturale e solita rifiutare i trattamenti sanitari tradizionali” (pag. 38).
Gli specifici orientamenti della Re.Ro. nei confronti della medicina tradizionale risultano confermati dagli elementi documentali richiamati nella perizia medico-legale (come proposta nelle sentenze di merito); dalla quale emerge univocamente come la Re.Ro., pure a fronte dell’evidente peggioramento delle proprie condizioni fisiche, avesse omesso di procedere a qualsiasi accertamento diagnostico in ordine alla causa del proprio stato.
La Corte territoriale ha ritenuto che tale costante rifiuto della medicina tradizionale – anche nel corso dell’evoluzione della propria patologia – fosse integralmente da ascrivere (e su tale considerazione fondando il correlativo giudizio controfattuale) all’omessa e previa informazione, da parte dell’On.Pa., in ordine al carattere necessario dell’esame istologico e alle possibili conseguenze irreversibili derivante dall’assenza di successive cure, nel caso in cui il nevo escisso fosse risultato un melanoma; ritenendo, quindi, che la Re.Ro. avrebbe accettato di seguire un percorso di diagnosi e cura consigliato dalla medicina tradizionale qualora fosse stata pienamente e compiutamente edotta in ordine alle conseguenze derivanti dal rifiuto di procedere all’esame istologico.
Ad avviso della Corte territoriale non sarebbero emersi elementi dai quali ritenere che la Re.Ro. avrebbe continuato a sostenere le proprie convinzioni anche a fronte della prospettazione del suo possibile decesso a breve termine; giustificando la propria convinzione anche sulla base di alcune scelte operate dalla donna nelle ultime settimane di vita, quali l’assunzione di farmaci antinfiammatori (operata su consiglio fornito da Al.Fa., osteopata privo di competenze mediche) e l’accettazione, negli ultimi giorni di vita e su sollecitazione della famiglia, del ricovero ospedaliero.
Il giudice di appello ha fondato il proprio giudizio sulla massima di esperienza in base alla quale una persona, portata a tempestiva conoscenza del fatto di potere essere affetta da una patologia tumorale, avrebbe sicuramente acconsentito a un percorso medico tradizionale.
5.2 La giurisprudenza ha ripetutamente affermato che la massima di esperienza si differenza dalle mera congettura in quanto formulata sulla scorta dell’id quod plerumque accidit come risultato di una estesa e ripetuta verifica empirica; trattandosi, appunto, di generalizzazioni empiriche indipendenti dal caso concreto, fondate su ripetute esperienze e tratte, con procedimento induttivo, dall’esperienza comune, conformemente ad orientamenti diffusi nella cultura e nel contesto spazio-temporale in cui matura la decisione, in quanto non si risolvono in semplici illazioni o in criteri meramente intuitivi o addirittura contrastanti con conoscenze o parametri riconosciuti e non controversi (Sez. 6, n. 1775 del 09/10/2012, Ruoppolo, Rv. 254196; Sez. 2, n. 51818 del 06/12/2013, Brunetti, Rv. 258117).
Il controllo della Cassazione sui vizi di motivazione della sentenza impugnata, non può estendersi al sindacato sulla scelta delle massime di esperienza, ma può avere ad oggetto la verifica sul se la decisione abbia fatto ricorso non già ad esse ma a mere congetture, consistenti in ipotesi insuscettibili di verifica empirica, od anche ad una pretesa regola generale che risulta priva di una pur minima plausibilità (Sez. 1, n. 18118 del 11/02/2014, Marturana, Rv. 261992; Sez. 1, n. 16523 del 04/12/2020, Romano, Rv. 281385) ovvero costituente il risultato di un mero convincimento soggettivo non acquisito al comune sentire (Sez. 4, n. 23093 del 02/02/2017, Rappisi, Rv. 269998).
5.3 Nel caso di specie, la motivazione della Corte territoriale appare manifestamente illogica, perché ha applicato una massima di esperienza valevole nei confronti di un soggetto caratterizzato da una ordinaria fiducia nella medicina tradizionale e nella “scienza ufficiale”.
Ma trattandosi, di contro, di persona avente convinzione univocamente contraria ai consolidati metodi sanitari, come dimostrato nella specifica vicenda (si pensi alla circostanza attinente alle modalità dell’escissione e al rifiuto di sottoporre il reperto al successivo esame istologico), il giudizio formulato su una possibile accettazione dell’approccio tradizionale appare frutto di un ragionamento qualificabile, a tutti gli effetti, come meramente congetturale.
L’errore nell’uso del criterio inferenziale inficia la complessiva giustificazione interna del ragionamento del giudice e conduce alla manifesta illogicità della motivazione sul punto.
Ne consegue un’ulteriore ragione di annullamento della sentenza impugnata, andando quindi rimessa al giudice del rinvio una nuova valutazione del giudizio controfattuale alla luce delle peculiari caratteristiche della persona della Re.Ro.
6. Il quinto motivo di ricorso attiene alla valutazione compiuta dai giudici di merito in punto di elemento soggettivo e, in particolare, alla qualificazione dello stesso sotto l’ambito della colpa cosciente; avendo specificamente assunto la difesa che, nel caso di specie, non sarebbe da ritenere sufficiente una consapevole violazione della regola cautelare dovendosi ritenere necessaria una chiara rappresentazione del potenziale evento lesivo.
Il motivo è fondato, dovendosi ritenere che la Corte territoriale non abbia fatto coerente applicazione dei principi dettati in materia dalla giurisprudenza di legittimità.
6.1 Giova muovere dal principio espresso da Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn Rv. 261104 – 01, la cui massima ufficiale recita che “In tema di elemento soggettivo del reato, il dolo eventuale ricorre quando l’agente si sia chiaramente rappresentata la significativa possibilità di verificazione dell’evento concreto e ciò nonostante, dopo aver considerato il fine perseguito e l’eventuale prezzo da pagare, si sia determinato ad agire comunque, anche a costo di causare l’evento lesivo, aderendo ad esso, per il caso in cui si verifichi; ricorre invece la colpa cosciente quando la volontà dell’agente non è diretta verso l’evento ed egli, pur avendo concretamente presente la connessione causale tra la violazione delle norme cautelari e l’evento illecito, si astiene dall’agire doveroso per trascuratezza, imperizia, insipienza, irragionevolezza o altro biasimevole motivo”.
Ad avviso del Supremo Collegio: “Dal punto di vista soggettivo per la configurabilità del rimprovero è sufficiente che tale connessione tra la violazione delle prescrizioni recate delle norme cautelari e l’evento sia percepibile, riconoscibile dal soggetto chiamato a governare la situazione rischiosa. Nella colpa cosciente si verifica una situazione più definita: la verificazione dell’illecito da prospettiva teorica diviene evenienza concretamente presente nella mente dell’agente; e mostra per cosi dire in azione l’istanza cautelare. L’agente ha concretamente presente la connessione causale rischiosa; il nesso tra cautela ed evento. L’evento diviene oggetto di una considerazione che disvela tale istanza cautelare, ne fa acquisire consapevolezza soggettiva. Di qui il più grave rimprovero nei confronti dì chi, pur consapevole della concreta temperie rischiosa in atto, si astenga dalle condotte doverose volte a presidiare quel rischio. In questa mancanza, in questa trascuratezza, è il nucleo della colpevolezza colposa contrassegnata dalla previsione dell’evento: si è, consapevolmente, entro una situazione rischiosa e per trascuratezza, imperizia, insipienza, irragionevolezza o altra biasimevole ragione ci si astiene dall’agire doverosamente”.
Successivamente, altre pronunce di questa Corte hanno ulteriormente chiarito che la colpa cosciente è configurabile nel caso in cui l’agente abbia previsto in concreto che la sua condotta potesse cagionare l’evento ma abbia agito con il convincimento di poterlo evitare, sicché, ai fini della valutazione della responsabilità, il giudice è tenuto ad indicare analiticamente gli elementi sintomatici da cui sia desumibile – non la prevedibilità in astratto dell’evento -bensì la sua previsione in concreto da parte dell’imputato (Sez. 4, n. 32221 del 20/06/2018, Carmignani, Rv. 273460; Sez. 4, n. 12351 del 15/01/2020, Diana, Rv. 278917).
6.2 Da tali principi consegue che la previsione dell’evento non voluto costituisce una specifica modalità in cui si sostanzia una particolare dimensione psicologica del reato colposo e che – sulla base del testo dell’art. 43, comma 1, cod. pen. (così come di quello dell’art. 61, n. 3, cod. pen. ) – ai fini del perfezionamento della colpa cosciente non si richiede una mera rappresentazione del rischio, ovvero del carattere genericamente pericoloso della condotta, ma la previsione effettiva di uno specifico evento quale potenziale esito della condotta medesima.
Da tale premessa ne consegue l’erroneità delle conclusioni adottate dalla Corte territoriale sul punto, dovendosi ritenere del tutto eccentrica – rispetto ai principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità – l’identificazione della colpa cosciente nella sola consapevolezza della violazione della regola cautelare.
Ne consegue che la motivazione risulta viziata da violazione di legge in ordine al necessario elemento costituito dalla previa rappresentazione dell’evento infausto; essendosi la motivazione accentrata sulla mera sottolineatura del carattere antidoveroso della condotta dell’On.Pa. rispetto alla norme di legge, alle linee guida e alla buona prassi clinico-assistenziali, senza però dare conto della presenza del coefficiente psicologico aggiuntivo necessario per il perfezionamento dell’aggravante.
Né la lettura della sentenza consente di comprendere da quali elementi sia stata tratta la coscienza, in capo all’agente, dell’astratta possibilità della realizzazione del fatto costituente reato, e della sicura fiducia che esso non si sarebbe verificato; mancando altresì il necessario approfondimento della sussistenza degli indici della previsione concreta del fatto, seppure ritenuto insuscettibile di effettiva realizzazione.
Anche per tale motivo, la sentenza deve essere annullata con rinvio.
Il ricorso proposto dalle parti civili.
7. Con il primo motivo di ricorso, le parti civili hanno contestato il punto della sentenza impugnata che ha ritenuto insussistente, in capo al Ba.Vi., una posizione di garanzia in ordine all’integrità psicofisica di Re.Ro.
I ricorrenti, nell’illustrare il motivo di impugnazione, hanno fatto riferimento alla accertata condizione di inferiorità psichica della persona offesa, ritenuta come immotivatamente smentita dalla Corte territoriale – pure in presenza di quanto accertato dai periti all’esito di incidente probatorio – sulla scorta del ritenuto presupposto che, in capo alla vittima, sarebbero comunque risultati margini di indipendenza inconciliabili con la situazione di inferiorità medesima.
Le parti civili hanno dedotto un complessivo travisamento delle risultanze degli accertamenti peritali.
Il motivo deve ritenersi complessivamente infondato.
7.1 Devono essere richiamate le considerazioni già svolte al par. 3 in ordine alla posizione dell’On.Pa., circa il fatto che la posizione di garanzia può derivare, oltre che da una fonte normativa, di diritto pubblico come di natura privatistica, anche da una situazione di fatto, cioè dall’esercizio delle funzioni tipiche del garante, mediante un comportamento concludente consistente nella presa in carico del bene protetto (tra le altre, Sez. 4, n. 24372 del 09/04/2019, Molfese, Rv. 276292; Sez. 4, n. 21869 del 25/05/2022, Tomasso, Rv. 283387); così come va ribadito che la Corte regolatrice ha osservato che si delinea una posizione di garanzia, nei sensi ora indicati, a condizione che: (a) un bene giuridico necessiti di protezione, poiché il titolare da solo non è in grado di proteggerlo; (b) una fonte giuridica -anche negoziale – abbia la predetta finalità di tutela; (c) tale obbligo di protezione gravi su una o più persone specificamente individuate; (d) queste ultime siano dotate di poteri atti ad impedire la lesione del bene garantito ovvero siano ad esse riservati mezzi idonei a sollecitare gli interventi necessari ad evitare che l’evento dannoso sia cagionato (Sez. 4, n. 24372 del 09/04/2019, Molfese, Rv. 276292, cit.).
In altri termini, la posizione di garanzia deve essere individuata accertando in concreto la effettiva titolarità del potere/dovere di cura dello specifico bene giuridico che necessita di protezione e di gestione della specifica fonte di pericolo di lesione di tale bene, alla luce delle circostanze in cui si è verificato l’evento avverso (Sez. 4, n. 28316 del 29/09/2020, Zanon, Rv. 280080; Sez. 4, n. 37224 del 05/06/2019, Piccioni, Rv. 277629; Sez. 4, n. 39261 del 18/04/2019, Cairo, Rv. 277193; Sez. 4, n. 24372 del 09/04/2019, Molfese, Rv. 276292, cit.; Sez. 4, n. 57937 del 09/10/2018, Ferrari, Rv. 274774).
Si deve convenire con i ricorrenti sul fatto che la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto che la titolarità di fatto di compiti di protezione dei beni altrui, rilevante ai sensi dell’art. 40, comma 2, cod. pen. , può ravvisarsi anche in contesti di tipo parafamiliare (si vedano, in particolare, Sez. 1, n. 9049 del 07/02/2020, Ciontoli, Rv. 278501; Sez. 5, n. 27905 del 03/05/2021, Ciontoli, Rv. 281817); quindi in relazione a soggetti comunque facenti parte – proprio come nel caso di specie – di una comunità organizzata secondo regole autoimposte. Tanto in ossequio alla teoria recepita dalla giurisprudenza maggioritaria, per la quale è ammissibile la individuazione della posizione di garanzia secondo un criterio contenutistico-funzionale.
7.2 Ciò premesso, il determinante elemento fattuale posto dalla Corte territoriale a fondamento dell’esclusione della sussistenza di un obbligo di garanzia in capo al Ba.Vi. si basa sulla mancanza del presupposto – valorizzato dagli arresti sopra citati – rappresentato dall’effettiva impossibilità, in capo alla persona offesa, di attendere alla tutela del bene protetto e rappresentato, nel caso di specie, dalla propria salute fisica.
In sede di incidente probatorio, il giudice aveva proceduto all’espletamento di una perizia, ove era stato affidato agli ausiliari il compito di valutare se Re.Ro. fosse una persona affetta da condizioni di inferiorità psichica o fisica (ovvero di decadimento mentale) e tale da incidere sulla capacità di autodeterminazione, con specifico riferimento anche alla capacità di compiere atti dispositivi rispetto al bene dell’integrità fisica.
I periti avevano quindi concluso che la Re.Ro. era stato soggetto non infermo di mente ma affetto da “particolare fragilità intrinseca sì da essere vulnerabile e suggestionabile al cospetto di personalità in grado di stabilire un rapporto dipendenza”, divenendo “progressivamente succube delle strategie poste in essere dal Ba.Vi. tanto da affidarsi completamente alla volontà e ai desiderata di questi”; ritenendo che “in tale contesto, quindi, non sorprendono le iniziative poste in essere dalla Re.Ro., apparentemente autodeterminate ma in vero prive della piena consapevolezza della loro non beneficialità verso se stessa” quali “rudimentali pratiche pseudo-sanitarie”; ritenendo che la iniziale vulnerabilità fosse progressivamente sfociata “nella condizione di totale dipendenza”.
Si tratta di considerazioni che erano state poste dal giudice di primo grado alla base della valutazione in ordine alla sussistenza, in capo al Ba.Vi., dì una posizione di garanzia c.d. di protezione, atteso il ravvisato e totale rapporto di dipendenza psicologica tra il suddetto e la persona offesa.
7.3 La Corte territoriale ha ritenuto di non condividere le predette conclusioni sulla base di una pregiudiziale considerazione critica verso le conclusioni formulate dagli ausiliari.
Al riguardo è opportuno ricordare che costituisce giudizio di fatto, incensurabile in sede di legittimità se logicamente e congruamente motivato, l’apprezzamento – positivo o negativo – dell’elaborato peritale e delle relative conclusioni da parte del giudice di merito, il quale, ove si discosti dalle conclusioni del perito, ha l’obbligo di motivare sulle ragioni del dissenso (Sez. 1, n. 46432 del – 19/04/2017, Fierro, Rv. 271924) e che, ancora più specificamente, il giudice di merito che intenda discostarsi dalle conclusioni del perito d’ufficio è tenuto ad un più penetrante onere motivazionale, illustrando accuratamente le ragioni della scelta operata, in rapporto alle prospettazioni che ha ritenuto di disattendere, attraverso un percorso logico congruo, che evidenzi la correttezza metodologica del suo approccio al sapere tecnico- scientifico, a partire dalla preliminare, indispensabile verifica critica in ordine all’affidabilità delle informazioni scientifiche disponibili ai fini della spiegazione del fatto (Sez. 5, n. 9831 del 15/12/2015, dep. 2016, Minichini, Rv. 267566).
Vanno quindi richiamati, in quanto pertinenti al caso in esame, i principi espressi da Sez. U, n. 9163 del 25/01/2005, Raso, Rv. 230317 (con particolare riguardo a quelli sviluppati ai punti 11.1, 14.0, 15.0 e 15.1).
Le Sezioni Unite, difatti, hanno evidenziato – in ordine al tema specifico dell’imputabilità – che anche ai disturbi della personalità può essere attribuita un’attitudine, sulla base del sapere scientifico, tale da escludere o gravemente scemare la capacità di intendere e di volere del soggetto agente in riferimento al disposto dell’art. 85 cod. pen., anche in mancanza della riconducibilità del disturbo a un preciso e predeterminato inquadramento clinico; a condizione che i disturbi medesimi siano di consistenza, rilevanza a gravità tali da potere concretamente incidere sulla stessa capacità di intendere e di volere in quanto idonei a determinare una situazione di assetto psichico incontrollabile e ingestibile e a compromettere la capacità di autodeterminazione.
Conseguendone, di converso, che non possono assumere rilievo a tale fine le anomalie, alterazioni o deviazioni caratteriali che non assumano una tale connotazione di incisività sulla capacità medesima nonché agli stati emotivi e passionali, salvo che questi ultimi non si inseriscano, eccezionalmente, in un quadro più ampio di “infermità”.
Di rilievo, ai fini del tema trattato, è anche l’elaborazione giurisprudenziale riferita al reato di cui all’art. 643 cod. pen.; nell’ambito della quale è stato sottolineato che la nozione di “abuso dello stato di infermità o di deficienza psichica, non postula che la vittima versi in stato di incapacità di intendere e di volere, essendo sufficiente che sia affetta da un’alterazione dello stato psichico che, sebbene meno grave dell’incapacità, risulti idonea a porla in uno stato di minorata capacità intellettiva, volitiva od affettiva, che ne affievolisca le capacità critiche (Sez. 2, n. 23283 del 24/02/2023, R., Rv. 284729).
Deve quindi osservarsi – anche tenendo presenti i suddetti arresti – che la Corte territoriale ha dato atto di come il complesso materiale di indagine esaminato dai periti inducesse a ritenere formulabile un giudizio non univoco sulla personalità della Re.Ro.; evidenziando come i sentimenti di devozione nei confronti di Ba.Vi. non avessero comunque alterato la capacità critica nei confronti di alcuni suoi giudizi e atteggiamenti e come – nelle proprie relazioni sociali – la persona offesa avesse manifestato forme tangibili di indipendenza rispetto alle attività svolte nel centro Anidra (evidenziate da dati quali il lavoro costante nell’agenzia immobiliare di famiglia, l’attività di insegnante di yoga, i viaggi in Italia e all’estero e la partecipazione a convegni).
I giudici di appello hanno altresì sottolineato gli elementi desumibili dagli scritti della Re.Ro. e dai quali erano emersi anche elementi di aperto dissenso su comportamenti e atteggiamenti del Ba.Vi.
Inoltre la Corte ha rilevato come – nell’ultimo periodo della malattia – la Re.Ro. avesse cercato strumenti di cura alternativi rispetto a quelli suggeriteli all’interno del Centro e cui doveva ritenersi del tutto estraneo l’apporto dell’imputato.
Si tratta quindi di considerazioni che il giudice di appello ha posto alla base di una valutazione personologica tale da rendere “oggettivamente incerto” ogni giudizio su una deficienza psichica derivante dal rapporto con il Ba.Vi. e tale da generare il rapporto di dipendenza ipotizzato dai periti, essendo stato escluso uno stato riconducibile alla condizione di minorata capacità volitiva e intellettiva; si tratta quindi, come detto, di considerazioni che – fondate sulla lettura dei dati processuali – appaiono espressioni di una valutazione in punto di fatto non palesemente illogica e, sulla base dei principi predetti, idonea a fondare un giudizio di non condivisione della valutazione espressa dagli ausiliari.
Deve pertanto ritenersi che il giudizio finale espresso dalla Corte territoriale -con il quale è stata negata la sussistenza della predetta condizione di “totale dipendenza” psicologica della Re.Ro. nei confronti del Ba.Vi., pur prendendo atto della situazione di forte ascendenza esercitata dall’imputato – si fondi su ragioni di fatto intrinsecamente congrue e non palesemente illogiche; specificamente avendo la Corte ritenuto che i periti avessero, di fatto, identificato la condizione di dipendenza psicologica a fronte di una situazione – dal punto di vista penalistico e alla luce dei principi sopra richiamati – in realtà ascrivibile più puntualmente alle categorie della fragilità e della vulnerabilità.
Rendendo, per l’effetto, non tangibile il giudizio di esclusione dell’obbligo di garanzia c.d. di protezione, invece già ipotizzato da parte del giudice di primo grado.
8. Con il secondo motivo di impugnazione, i ricorrenti hanno esposto che -anche negando la sussistenza di una posizione di garanzia in capo al Ba.Vi. -la motivazione dalla sentenza gravata sarebbe contraddittoria e illogica nella parte in cui ha escluso la sussistenza di una cooperazione colposa rispetto alla condotta tenuta dall’effettivo garante, a propria volta identificato nell’On.Pa.
Il motivo è infondato.
8.1 Va premesso che, nel risalente dibattito dottrinale e giurisprudenziale attinente all’interpretazione dell’istituto della cooperazione colposa e alla correlativa distinzione rispetto al fenomeno dell’evento determinato da cause colpose indipendenti, è stata attribuita decisiva rilevanza al collegamento soggettivo tra le condotte dei cooperanti, conseguendone che la cooperazione nel delitto colposo si verifica quando più persone pongono in essere una autonoma condotta ma nella reciproca consapevolezza dell’azione od omissione altrui (Sez. 4, n. 16978 del 12/02/2013, Porcu, Rv. 255274); essendo, quindi e ancora più specificamente, stato rilevato che, per aversi cooperazione nel delitto colposo, non è necessaria la consapevolezza della natura colposa dell’altrui condotta, essendo sufficiente la coscienza dell’altrui partecipazione, intesa come consapevolezza, da parte dell’agente, del fatto che altri soggetti sono investiti di una determinata attività, con una conseguente interazione rilevante anche sul piano cautelare, nel senso che ciascuno è tenuto a rapportare prudentemente la propria condotta a quella degli altri soggetti coinvolti (Sez. 4, n. 49735 del 13/11/2014, Jimenez Vellejro, Rv. 261183; Sez. 4, n. 6499 del 09/01/2018, Fersini, Rv. 271972; Sez. 4, n. 25846 del 26/03/2019, Santini, Rv. 276581).
Un corollario di particolare rilievo – e di diretto interesse a proposito della fattispecie concreta in esame – è rappresentato da quello in base al quale, ai fini del perfezionamento della figura della cooperazione colposa, non è necessario che il cooperante sia titolare di una posizione di garanzia rispetto alla tutela del bene giuridico protetto, essendo sufficiente che lo stesso, con la propria condotta cooperativa, fornisca un contributo causale giuridicamente apprezzabile alla realizzazione dell’evento, ancorché la condotta del cooperante in sé considerata, appaia tale da non violare alcuna regola cautelare, essendo sufficiente l’adesione intenzionale dell’agente all’altrui azione negligente, imprudente o inesperta, assumendo così sulla sua azione il medesimo disvalore che, in origine, è caratteristico solo dell’altrui comportamento (Sez. 4, n. 43083 del 03/10/2013, Redondi, Rv. 257197; Sez. 4, n. 46408 del 14/12/2021, Pisaniello, Rv. 282556).
Pertanto, la cooperazione colposa non richiede che il rischio sia stato creato dal cooperante, ravvisandosi la fattispecie prevista dall’art. 113 cod. pen. quando si verta in un’ipotesi di gestione comune del rischio medesimo, determinata da esigenze organizzative ovvero quando questa sia una contingenza oggettivamente definita della quale gli stessi soggetti risultino pienamente consapevoli (Sez. 4, n. 22214 del 12/04/2019, Scidone, Rv. 276685).
Ne discende che la disciplina della cooperazione nel delitto colposo ha funzione estensiva dell’incriminazione, coinvolgendo anche condotte meramente agevolatrici e di modesta significatività, le quali, per assumere rilevanza penale, devono necessariamente coniugarsi con comportamenti in grado dì integrare la tipica violazione della regola cautelare interessata (Sez. 4, n. 1786 del 02/12/2008, Tomaccio, Rv. 242566); potendosi quindi assumere che la valenza specifica dell’istituto della cooperazione colposa sia propria quella della sua “funzione incriminatrice”, tale da attribuire rilievo penale a condotte atipiche rispetto a quelle proprie della fattispecie incriminatrice di parte speciale.
8.2 Nella vicenda processuale in esame, la sentenza di primo grado – nell’escludere l’ipotizzato concorso degli imputati Ba.Vi. e On.Pa. nel reato di omicidio volontario – aveva fondato il giudizio di responsabilità dei suddetti sulla base della ravvisata sussistenza di un concorso di condotte colpose.
Ciò posto, nel riformare la sentenza di primo grado in ordine alla posizione del Ba.Vi., la Corte territoriale (pag. 13 della sentenza di appello) ha ritenuto non ipotizzabile una fattispecie di cooperazione colposa; attribuendo importanza decisiva alla circostanza in base alla quale le omissioni contestategli erano riferibili a persone con professionalità e ruoli radicalmente diversi e che unico elemento unificante era costituito dalla presenza di entrambi nel momento “iniziale” dell’intervento, di modo da escludere una gestione comune del rischio.
D’altra parte la Corte – in successivo passaggio motivazionale (pagg.15-16)
– ha conferito rilievo alla circostanza in base alla quale il Ba.Vi. non avrebbe creato la situazione iniziale di rischio, atteso che l’intervento era avvenuto sulla base della sollecitazione della sola Re.Ro., avendone la stessa deciso tempi, luoghi e modalità esecutive.
Mentre, altresì, ha dato rilievo al fatto che il Ba.Vi. fosse privo di conoscenze mediche idonee a suggerire o a imporre all’On.Pa. la repertazione della cute escissa nella prospettiva dell’esecuzione dell’esame istologico.
Questo Collegio ritiene che la valutazione della Corte distrettuale sia parzialmente distonica con la corretta interpretazione dell’art. 113 cod. pen. , in particolare nel punto in cui ha ritenuto la radicale non ipotizzabilità della fattispecie medesima (come risultante nell’incipit illustrato alla citata pag. 13 della sentenza) sulla base della sussistenza di “professionalità e ruoli” radicalmente differenti tra gli imputati e dell’assenza di una gestione condivisa del rischio.
Tali considerazioni appaiono in contrasto con il principio medesimo, per cui assume rilievo la condotta atipica avente un’oggettiva connotazione agevolatrice o rafforzativa, al di là della veste assunta nella vicenda.
Proprio per tale ragione è però risolutivo che la Corte territoriale abbia ritenuto che il Ba.Vi. non ebbe alcuna parte nella scelta della modalità dell’intervento e – quindi e logicamente – nel segmento specifico della condotta avente a oggetto l’omessa informazione nei confronti della paziente della necessità dell’effettuazione dell’esame istologico e delle conseguenze potenzialmente derivanti dalla sua mancata effettuazione, profilo di fatto individuato quale innesco del processo causale che ha condotto al decesso della Re.Ro.
Deve quindi ritenersi corretto il giudizio della Corte distrettuale, per il quale il complesso delle condotte tenute dal Ba.Vi. ebbero una valenza cooperativa nella fase di preparazione dell’intervento ma lo stesso non tenne alcun comportamento colposo dotato di valenza agevolatrice rispetto a quella che è stata individuata come la condotta colposa causalmente efficiente del medico operante.
Il motivo deve pertanto essere rigettato.
9. Con il terzo motivo di impugnazione, le parti civili hanno censurato la motivazione della sentenza nella parte in cui ha mandato assolto il Ba.Vi. dalle imputazioni contestate ai sensi degli artt. 572,609bis e 643 cod. pen.
Il motivo è inammissibile in quanto estrinsecamente aspecifico.
Sul punto va evocato il già rammentato principio in base al quale, in tema di ricorso per cassazione per vizio di motivazione, il necessario onere di confronto con la motivazione della sentenza impugnata impone al ricorrente, a pena di inammissibilità, di non limitare il proprio esame alla sola parte del provvedimento specificamente riferita alla questione posta, ma di considerare anche le argomentazioni contenute in altre parti comunque rilevanti rispetto al giudizio devoluto sul tema (Sez. 3, n. 3953 del 26/10/2021, dep. 2022, Berroa, Rv. 282949).
Così come vanno tenuti presenti i principi sopra rammentati in tema di reciproca integrazione tra le sentenze di primo e di secondo grado, in caso – come in riferimento ai capi in esame – di c.d. doppia conforme.
Con il ricorso per cassazione le parti civili hanno fatto riferimento al mancato rilievo della situazione di dipendenza psichica della persona offesa nei confronti del Ba.Vi., ma senza in alcun modo raffrontarsi con le specifiche argomentazioni con le quali il giudice di primo grado – che pure, come detto, tale stato soggettivo aveva ritenuto ravvisabile – aveva escluso la consumazione dei predetti reati.
In particolare, in ordine al delitto di maltrattamenti, il giudice di primo grado aveva ritenuto che lo stesso non potesse ritenersi perfezionato in mancanza di prova in ordine all’abuso della suddetta situazione di dipendenza da parte dell’imputato e della mancata dimostrazione della prolungata situazione di incapacità, in capo alla persona offesa, di reagire e di opporsi alla situazione di vessazione; con considerazioni riproposte anche in riferimento al reato di violenza sessuale, attinente al provato e ripetuto compimento di pratiche sessuali di gruppo all’interno del centro, in ordine al quale il GUP aveva comunque ravvisato l’evidente indeterminatezza del capo di imputazione e la partecipazione della l’evidente indeterminatezza del capo di imputazione e la partecipazione della Re.Ro. a tali rituali, sulla base delle prove acquisite, come frutto di una scelta da ritenere psicologicamente libera.
Mentre, in ordine al reato previsto dall’art. 643 cod. pen., il giudice di primo grado aveva ritenuto non provata una stretta correlazione tra la soggezione provata dal Re.Re. nei confronti del Ba.Vi. con gli atti di disposizione patrimoniale posti in essere in favore del centro e con un effettivo abuso da parte del destinatario degli atti medesimi.
Con tali argomentazioni – il cui contenuto è stato sostanzialmente del tutto confermato dal giudice di appello- il motivo di ricorso omette qualsiasi effettivo raffronto, incorrendo quindi nel vizio di aspecificità.
10. Con il quarto motivo di impugnazione, le parti civili hanno censurato la motivazione della sentenza nella parte in cui non ha ravvisato, in capo all’On.Pa., l’elemento psicologico sotto la forma del dolo eventuale anziché sotto quella della colpa in relazione all’imputazione di cui al capo A) della rubrica.
Con il quinto motivo di impugnazione, le parti civili – sempre in relazione alla posizione dell’On.Pa. – hanno censurato la sentenza impugnata nella parte in cui non ha ravvisato l’omicidio doloso anziché quello colposo, in relazione all’imputazione di cui al capo A) della rubrica, in relazione alle condotte tenute durante la fase finale della malattia di Re.Ro.
I due motivi possono essere congiuntamente esaminati per la loro stretta connessione logica, attenendo gli stessi alla medesima questione di diritto ed essendo fondati su argomenti ampiamente sovrapponibili.
10.1 Richiamate integralmente le considerazioni sviluppare al par. 6 in ordine alla qualificazione dell’elemento psicologico, in capo all’On.Pa., in relazione alla esclusione della colpa cosciente, i motivi devono – per diretta derivazione logica -essere ritenuti complessivamente infondati.
In ordine agli elementi connotativi del dolo eventuale e alla distinzione rispetto alla colpa cosciente va citato il già richiamato arresto espresso da Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn, Rv. 261104; nel quale è stato rilevato che in tema di elemento soggettivo del reato, il dolo eventuale ricorre quando l’agente si sia chiaramente rappresentato la significativa possibilità di verificazione dell’evento concreto e ciò nonostante, dopo aver considerato il fine perseguito e l’eventuale prezzo da pagare, si sia determinato ad agire comunque, anche a costo di causare l’evento lesivo, aderendo ad esso, per il caso in cui si verifichi; ricorre invece la colpa cosciente quando la volontà dell’agente non è diretta verso l’evento ed egli, pur avendo concretamente presente la connessione causale tra la violazione delle norme cautelari e l’evento illecito, si astiene dall’agire doveroso per trascuratezza, imperizia, insipienza, irragionevolezza o altro biasimevole motivo.
Specificamente, nella parte motiva e a proposito della differenziazione delle due forme di colpevolezza, la Corte ha evidenziato che “Nel dolo si è in presenza dell’agire umano ordinato, organizzato, finalistico. Un processo intellettuale che, lungamente elaborato o subitaneamente sviluppatosi e concluso, sfocia pur sempre in una consapevole decisione che determina la condotta antigiuridica. Qui il rimprovero giuridico coglie la scelta d’azione, o d’omissione, che si dirige nel senso della offesa del bene giuridico protetto. Il dolo (……), esprime la più intensa adesione interiore al fatto, costituisce la forma fondamentale, generale ed originaria di colpevolezza; la più diretta contrapposizione all’imperativo della legge. Tale atteggiamento di contrapposizione alla legge giustifica, conviene rammentarlo, un trattamento sanzionatorio ben più severo di quello riservato ai comportamenti meramente colposi. Se così è, ne consegue che nel dolo non può mancare la puntuale, chiara conoscenza di tutti gli elementi del fatto storico propri del modello legale descritto dalla norma incriminatrice. In particolare, le istanze di garanzia in ordine al rimprovero caratteristico della colpevolezza dolosa richiedono che l’evento oggetto della rappresentazione appartenga al mondo del reale, costituisca una prospettiva sufficientemente concreta, sia caratterizzato da un apprezzabile livello di probabilità. Solo in riferimento ad un evento così definito e tratteggiato si può istituire la relazione di adesione interiore che consente di configurare l’imputazione soggettiva. In breve, l’evento deve essere descritto in modo caratterizzante e come tale deve essere oggetto, di chiara, lucida rappresentazione; quale presupposto cognitivo perché possa, rispetto ad esso, configurarsi l’atteggiamento di scelta d’azione antigiuridica tipica di tale forma d’imputazione soggettiva”; aggiungendo, in riferimento alla individuazione della figura della colpa cosciente che “Tale situazione è tutt’affatto diversa da quella prima delineata a proposito della puntuale conoscenza del fatto quale fondamento del rimprovero doloso, basato (…..) sulla positiva adesione all’evento collaterale che, ancor prima che accettato, è chiaramente rappresentato”; e, nel respingere la tesi (tradizionalmente condivisa) che individua il dolo eventuale mediante la formula dell’accettazione del rischio e in riferimento alle tematiche processuali sottese alla individuazione di tale forma di colpevolezza, ha rilevato che “Si tratterà, nei limiti del possibile, di tentare di spiegare l’accaduto, di ricostruire l’iter decisionale, di intendere i motivi che vi hanno agito, di cogliere, insomma, perché ci si è determinati in una direzione. Occorrerà comprendere se l’agente si sia lucidamente raffigurata la realistica prospettiva della possibile verificazione dell’evento concreto costituente effetto collaterale della sua condotta, si sia per così dire confrontato con esso e infine, dopo aver tutto soppesato, dopo aver considerato il fine perseguito e l’eventuale prezzo da pagare, si sia consapevolmente determinato ad agire comunque, ad accettare l’eventualità della causazione dell’offesa”.
In tal modo, le Sezioni Unite hanno ritenuto di prestare adesione alla teoria fondata sul giudizio ipotetico controfattuale rappresentato dalla c.d. formula di Frank e in base alla quale il dolo eventuale si configura quando, alla stregua delle concrete acquisizioni probatorie, è possibile ritenere che l’agente non si sarebbe trattenuto dalla condotta illecita neppure se avesse avuto contezza della sicura verificazione dell’evento (secondo una conclusione poi recepita, sia pure con alcune oscillazioni, dalla successiva giurisprudenza delle Sezioni semplici; cfr. Sez. 1, n. 8561 del 11/02/2015, De Luca, Rv. 262881; Sez. 4, n. 14663 del 08/03/2018, A., Rv. 273014; Sez. 6, n. 47152 del 18/10/2022, De Pieri, Rv. 284330); il tutto con l’importante corollario in base al quale “nei casi incerti il principio del favor rei dovrebbe sempre orientare a configurare la colpa cosciente, affinché non si disperda il tratto fondante del dolo, costituito dalla connessione tra l’atteggiamento interiore e l’evento”.
10.2 Nei caso di specie, quindi, in ordine alla configurazione specifica dell’elemento soggettivo sotto la forma del dolo eventuale – prospettata tanto nell’appello della Procura della Repubblica tanto in quello delle parti civili – la Corte territoriale ha escluso tale forma di colpevolezza (ipotizzando invece la sola colpa cosciente e in relazione al solo frammento della condotta riferito all’esecuzione dell’intervento) ritenendo che, in ordine all’esecuzione dell’intervento medesimo, la condotta dell’On.Pa. sarebbe stata caratterizzata da una grave imperizia, peraltro condizionata in modo determinante dalla condotta della persona offesa, la quale aveva chiesto di intervenire in ambiente non sanitario e con consapevole rifiuto dell’anestesia e dell’esame istologico; mentre, quanto alla mancata diagnosi dell’evoluzione della patologia evidenziata dagli ingrossamenti linfonodali, la Corte territoriale ha fatto riferimento al carattere occasionale delle visite – pure svolte in ambiente non sanitario – e della conseguente impossibilità di assumere la certezza psicologica dell’evento infausto, ritenendo quindi tali condotte omissive come frutto di una sola negligente sottovalutazione della gravità della situazione.
Deve quindi ritenersi che la sentenza impugnata abbia dato adeguatamente conto dell’assenza della forma di colpevolezza costituita dal dolo eventuale, specificamente rilevando l’assenza del fondamentale elemento rappresentato dall’adesione dell’agente rispetto all’evento letale; il tutto in coerenza con le conclusioni derivanti dalla necessità dell’applicazione del citato criterio controfattuale, avendo rilevato – come si evince dalla complessiva struttura argomentativa – il dato della mancanza della certezza del verificarsi dell’evento e quello dell’assenza della prova che l’agente avrebbe persistito nella sua condotta pure qualora fosse stato certo di produrre l’offesa al bene giuridico protetto.
D’altra parte, deve anche ritenersi che il motivo di ricorso non si raffronti in modo effettivo e puntuale con le argomentazioni della Corte territoriale; ciò, in quanto, nella relativa esposizione, le parti civili hanno confutato espressamente le considerazioni – pure ripetute nella motivazione della sentenza impugnata -attinenti alla valenza causale da riconoscere alla condotta della persona offesa ma hanno fatto ripetuto riferimento, al fine di censurare le relative conclusioni, all’omessa considerazione del dato rappresentato dall'”accettazione interiore dell’evento”, senza invece considerare il nucleo della motivazione del giudice di appello nella parte in cui ha attribuito fondamentale rilevanza ai dati fattuali rappresentati dalla mancata certezza – in capo all’imputato – rispetto all’evento stesso e, in ogni caso, alla mancata adesione psicologica rispetto ad esso, ritenendo i comportamenti dell’On.Pa. unicamente come frutto di un’evidente negligenza.
Sicché le argomentazioni delle parti civili finiscono per esaltare e approfondire gli elementi pure valorizzati dai giudici di merito posti alla base della valutazione in ordine alla presenza della colpa cosciente, ma non sono idonei a scalfire la logicità del complessivo apparato motivazionale della sentenza di appello in punto di mancata concretizzazione del dolo.
11. Con il sesto motivo di impugnazione, le parti civili hanno censurato la motivazione della sentenza di appello nella parte in cui ha confermato il quantum della provvisionale già liquidata dal giudice di primo grado a carico dell’On.Pa.; assumendo, in particolare, l’erroneità delle considerazioni spiegate dalla Corte territoriale in punto di sussistenza di un concorso colposo della persona offesa, richiamando le già esposte considerazioni in ordine alle condizioni di deficienza psichica in cui si trovava Re.Ro.
Il motivo è inammissibile, vertendo su un capo della sentenza non impugnabile in sede di legittimità.
Difatti, già secondo una risalente pronuncia delle Sezioni unite, “il provvedimento con il quale il giudice di merito, nel pronunciare condanna generica al risarcimento del danno, assegna alla parte civile una somma da imputarsi nella liquidazione definitiva, non è impugnabile per cassazione, in quanto per sua natura insuscettibile di passare in giudicato e destinato ad essere travolto dall’effettiva liquidazione dell’integrale risarcimento” (Sez. U, n. 2246 del 19/12/1990, dep. 1991, Capelli Rv. 186722).
Si tratta di orientamento poi ribadito nella successiva giurisprudenza di legittimità (Sez. 2, n. 43886 del 26/04/2019, Saracino, Rv. 277711; Sez. 2, n. 12. Conclusivamente, la valutazione di fondatezza del terzo motivo di ricorso (invero parziale, come sopra indicato) nonché del quarto e del quinto motivo, impongono l’annullamento della sentenza in ordine alla posizione dell’On.Pa., con conseguente rinvio (ai sensi dell’art. 175, disp. att., cod. proc. pen. ) alla Corte di assise di appello di Milano – cui va altresì demandata la regolamentazione delle spese tra le parti per questo grado di legittimità – per nuovo giudizio.
Va invece integralmente rigettato il ricorso proposto dalle parti civili, con conseguente condanna delle stesse al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata nei confronti di On.Pa. con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello di Genova, cui demanda anche la regolamentazione tra le parti delle spese di questo giudizio di legittimità. Rigetta i ricorsi di Re.Re., Ma.Ma. e Re.Ri. e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma il 21 novembre 2024.