Massima

In materia di stupefacenti, la perquisizione effettuata ai sensi dell’articolo 103, comma 3, del Dpr 9 ottobre 1990 n. 309 (finalità di repressione del traffico di sostanze stupefacenti e psicotrope) si differenzia da quella d’iniziativa della polizia giudiziaria disciplinata dal codice di rito per il fatto che non presuppone l’esistenza di una notizia di reato e rientra in un’attività di carattere preventivo, ma al pari di quella, seppure sia eseguita illegittimamente, non rende illegittimo l’eventuale sequestro della sostanza stupefacente e delle altre cose pertinenti al reato, all’esito rinvenute. Pertanto, quando procede a perquisizione nei casi previsti dal citato articolo 103, la polizia giudiziaria non ha l’obbligo di avvertire la persona sottoposta a controllo del diritto all’assistenza di un difensore perché tale tipologia di perquisizione, a differenza di quella contemplata dal Cpp, non presuppone necessariamente una preesistente notizia di reato e non è quindi funzionale alla ricerca e all’acquisizione della prova di un reato di cui consti già l’esistenza, ma può rientrare anche in un’attività di carattere preventivo.

Supporto alla lettura

Ambito oggettivo di applicazione

RITENUTO IN FATTO E CONSIDERATO IN DIRITTO

  1. Con sentenza del 5.11.2020, la Corte di appello di Brescia ha confermato la sentenza di primo grado che ha dichiarato M.S. responsabile del reato di cui al D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, comma 1-bis, per avere illecitamente detenuto 553,861 grammi (lordi) di eroina, pari a 179,9 grammi di principio attivo (fatto del (OMISSIS)).
  2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione il difensore dell’imputato, lamentando violazione di legge e vizio di motivazione, per avere affermato la responsabilità del ricorrente sulla base di una perquisizione effettuata ai sensi del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 103, attività della quale non fu mai notiziato il prevenuto, trattandosi di perquisizione eseguita solo nei confronti di altro coindagato ( F.N.), in difetto del requisito dell’urgenza.
  3. Il Procuratore generale, con requisitoria scritta, ha chiesto che il ricorso sia dichiarato inammissibile.
  4. Il ricorso è inammissibile, avuto riguardo alla manifesta infondatezza dell’unico motivo proposto.

La Corte di legittimità ha già da tempo chiarito che la perquisizione effettuata ai sensi del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 103, comma 3, si differenzia da quella d’iniziativa della polizia giudiziaria disciplinata dal codice di rito per il fatto che non presuppone l’esistenza di una notizia di reato e rientra in un’attività di carattere preventivo, ma al pari di quella, seppure sia eseguita illegittimamente, non rende illegittimo l’eventuale sequestro della sostanza stupefacente e delle altre cose pertinenti al reato, all’esito rinvenute (cfr. sez. 4 n. 150 del 15/11/2005, dep. 2006, D’Ambrosio, Rv. 232793). Pertanto, quando procede a perquisizione nei casi previsti dal D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 103, la polizia giudiziaria non ha l’obbligo di avvertire la persona sottoposta a controllo del diritto all’assistenza di un difensore perché tale tipologia di perquisizione, a differenza di quella contemplata dal codice di procedura penale, non presuppone necessariamente una preesistente notizia di reato e non è quindi funzionale alla ricerca e all’acquisizione della prova di un reato di cui consti già l’esistenza, ma può rientrare anche in un’attività di carattere preventivo (cfr. sez. 6 n. 9884 del 15/10/2013, dep. 2014, Pierini, Rv. 261527; sez. 3 n. 19365 del 17/02/2016, Pirri, Rv. 266580). In ogni caso, e conclusivamente, l’illegittimità della perquisizione non invalida il conseguente sequestro, qualora vengano acquisite cose costituenti corpo di reato o a questo pertinenti, dovendosi considerare che il potere di sequestro non dipende dalle modalità con le quali le cose, oggettivamente sequestrabili, sono state reperite, ma è condizionato unicamente all’acquisibilità del bene e alla insussistenza di divieti probatori espliciti o univocamente enucleabili dal sistema (cfr. sez. 2 n. 15784 del 23/12/2016, dep. 2017, Foddis, Rv. 269856).

  1. Stante l’inammissibilità del ricorso, e non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sent. n. 186/2000), alla condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria, che si stima equo quantificare nella misura indicata in dispositivo.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.

Motivazione semplificata.

Così deciso in Roma, il 17 giugno 2021.

 

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