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Cassazione penale sez. III, 27/03/2017, n. 14812

Massima

Il ricorso per Cassazione dell’imputato è dichiarato totalmente infondato e generico qualora si limiti a eccepire la mancanza o l’illogicità della motivazione (ai sensi dell’Art. 606 c.p.p., lett. e)) senza contestare la ricostruzione del fatto stabilita in appello.

Supporto alla lettura

RICORSO PER CASSAZIONE

Il ricorso per cassazione, nel processo penale, disciplinato dagli art. 606 e ss. c.p.c, è un mezzo di impugnazione ordinario, costituzionalmente previsto avverso i provvedimenti limitativi della libertà personale ed esperibile negli altri casi previsti dal codice di procedura penale, tramite il quale l’impugnante lamenta un errore di diritto compiuto dal giudice nell’applicazione delle norme di diritto sostanziale (c.d. error in iudicando) o di diritto processuale (c.d. error in procedendo).

Legittimata a ricorrere è la parte che vi abbia interesse e conseguentemente le parti necessarie quali l’imputato (a mezzo di difensore abilitato al patrocinio avanti le giurisdizioni superiori) e il pubblico ministero. Altresì, possono proporre ricorso anche le parti ritualmente costituite come la parte civile, civilmente responsabile, civilmente obbligato per la pena pecuniaria.

I giudici della Cassazione possono decidere soltanto nell’ambito dei motivi palesati dal ricorrente, in quanto il giudizio verte sulla fondatezza di tali motivi che devono corrispondere alle ipotesi tassativamente previste dall’art. 606 c.p.p.:

  • eccesso di potere;
  • error in iudicando;
  • error in procedendo;
  • mancata assunzione di una prova decisiva;
  • carenza o manifesta illogicità della motivazione.

Il ricorso può essere presentato da una parte o da un suo difensore, che deve essere iscritto ad un albo speciale predisposto dalla Corte stessa, (in mancanza viene nominato uno d’ufficio), quindi il Presidente della Cassazione assegna il ricorso ad una delle sei sezioni della Corte a seconda della materia e di altri criteri stabiliti dall’ordinamento giudiziario. Se rileva l’inammissibilità del ricorso, lo assegna alla VII Sezione Penale (c.d. Sezione Filtro), composta dai magistrati di Cassazione delle altre Sezioni Penali che vi si alternano a rotazione biennale. Entro 30 giorni la sezione adìta si riunisce in Camera di Consiglio e decide se effettivamente esiste la causa evidenziata dal Presidente, in mancanza rimette gli atti a quest’ultimo. Come nel procedimento civile, la Cassazione si riunisce a “Sezioni Unite” quando deve decidere una questione sulla quale esistono pronunce contrastanti della Corte di Cassazione stessa o per questioni di importanza rilevante.

Qualora non si proceda in camera di consiglio, l’art. 614 c.p.p. prevede l’ovvia fase dibattimentale. Particolarità è che la sentenza non viene emanata dopo la chiusura del dibattimento, ma subito dopo il termine dell’udienza pubblica. Tuttavia il presidente può decidere di differire la deliberazione ad un’udienza successiva se le questioni sono numerose o particolarmente importanti e complesse.

Sono quattro i tipi di sentenza che la Corte può emettere:

  • di inammissibilità;
  • di rigetto;
  • di rettificazione;
  • di annullamento (con rinvio o senza rinvio).

Come per il procedimento civile, anche nel processo penale è previsto il “ricorso per saltum“, cioè dal primo grado direttamente in Cassazione (art. 569 c.p.p.), è importante precisare che non si può ricorrere per saltum per i motivi alle lettere d) ed e) dell’art. 606 c.p.p. (prove non ammesse in giudizi di grado inferiore e per illogicità o motivazione carente nella sentenza) in quanto la Cassazione ha potere cognitivo di merito molto ristretto.

Ambito oggettivo di applicazione

Svolgimento del processo

1. Con sentenza del 15/04/1015 la Corte di appello di Genova, in riforma della pronuncia assolutoria del 11/07/2012 del Tribunale di quello stesso capoluogo, impugnata dal Procuratore Generale e dalla parte civile “(omissis) S.p.a.”, ha dichiarato il sig. (omissis) responsabile del delitto di cui all’art. 517 ter c.p., così diversamente qualificato il fatto originariamente contestato ai sensi dell’art. 474 c.p., e lo ha condannato alla pena di un anno di reclusione e 10.000,00 Euro di multa, oltre al pagamento delle spese processuali e al risarcimento del danno in favore della costituita parte civile da liquidarsi in separata sede.

1.1. Si imputa allo (omissis), titolare dell’impresa individuale all’insegna “(omissis)”, di aver importato, tra il 30/11/2009 ed il 17/12/2009, per farne commercio o metterle altrimenti in circolazione, 38.200 borse recanti il marchio “(omissis)” contraffatto.

1.2. Il Tribunale di Genova, ritenuta la diversità del marchio impresso sulle borse rispetto a quello “(omissis)” (sia per diversità grafica, sia per la presenza di elementi spuri e dozzinali, come per esempio una grossa fibbia in metallo, con il logo delle due “O” scritto in brillantini e ciuffi di frange di plastica, posta sulle borse in tessuto), tale da renderla evidente anche ad un sommario e superficiale esame, aveva assolto l’imputato sul rilievo dell’impossibilità che il pubblico avrebbe potuto esser tratto in inganno sulla provenienza del bene, escludendo così la sussistenza anche dei reati di cui agli artt. 517 e 517 ter c.p. (quest’ultimo anche per la mancanza della condizione di procedibilità).

1.3. La Corte di appello è giunta a opposte conclusioni.

1.4. Quanto ai profili di fatto i Giudici distrettuali affermano che “dalle stesse fotografie in atti appare evidente tra i due diversi prodotti il richiamo e la somiglianza, seppure vaghi ed imprecisi. La struttura cui è ispirato il disegno, i segni tondeggianti affiancati tra loro, il colore usato, denotano tutti una stessa impressione di insieme. Risulta in realtà evidente il richiamo ai segni di cui al marchio (omissis) riprodotto negli oggetti sequestrati, così come dai colori utilizzati per il fondo e per le linee d’insieme, nonchè per i fregi (…) poco importa che in un caso le G affiancate, di cui una rovesciata, non completino la traccia dei due ovali ravvicinati, come invece accade nel disegno riprodotto, rimanendo identica, pur nella palese diversità, l’impressione d’insieme. Nei prodotti sequestrati, di cui le fotografie agli atti ben raffigurano le caratteristiche, risultano riprodotti alcuni elementi essenziali del disegno oggetto di registrazione, con l’aggiunta di linee estranee al marchio, ma capziosamente inserite al fine di dare parvenza di diversità. L’impatto visivo derivatone, però, risulta quello dei prodotti originali, essendone stati riprodotti in modo parassitarlo i connotati essenziali. Alcune delle caratteristiche tipiche dell’idea originale sono riproposte, due forme ovali affiancate con linee incrociate che le intersecano, il che già dimostra lo sfruttamento degli elementi essenziali del marchio”.

1.5. In diritto, la Corte di appello ha escluso la ipotizzata contraffazione del marchio sul rilievo che quello apposto ai prodotti sequestrati è stato registrato presso l’ufficio italiano Brevetti e Cambi il 23/12/2009 e che, pertanto, anche se idoneo a creare confusione con quello “(omissis)” anteriormente registrato, potrebbe al più ravvisarsi un’ipotesi di concorrenza sleale civilisticamente sanzionata, non già il reato di cui all’art. 474 c.p..

1.6. Piuttosto, sul rilievo che la criminalizzazione delle condotte ipotizzate con il reato di cui all’art. 517 ter c.p., intende prevenire “l’usurpazione non confusoria di un marchio”, che – affermano – consiste nell’indebito sfruttamento di un segno distintivo altrui del quale non è necessaria la pedissequa imitazione, bensì il semplice richiamo ad alcuni tratti originali, anche se inidonei a creare confusione, i Giudici distrettuali hanno ritenuto la sussistenza della diversa ipotesi di reato di cui all’art. 517 ter c.p., facendo notare che ai fini della sua integrazione è sufficiente “la mera somiglianza, un richiamo parziale, perchè quel che si sfrutta non è il marchio in sè, ma la bontà originale dell’idea. Agganciarsi, insomma, al mero effetto evocativo, senza alcuna imitazione o inganno (…) questa tipologia di prodotti trae la sua forza commerciale dal semplice richiamo all’idea sottesa al marchio noto. Sono appetibili in quanto richiamo l’originale, pur senza una vera e propria imitazione”.

1.7. Di qui la condanna per il reato di cui all’art. 517 ter c.p., e al risarcimento del danno.

2. Per l’annullamento della sentenza ricorrono l’imputato e la parte civile.

3. Lo (omissis) articola un unico motivo con il quale eccepisce, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. e), la sostanziale mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione.

Sulla premessa che la sentenza di appello che riformi totalmente quella di primo grado richiede una motivazione “rafforzata”, lamenta la totale inesistenza, anche sul piano grafico, della motivazione in ordine alla sussistenza dell’elemento psicologico del reato.

4.La “(omissis) S.p.a.” propone anch’essa un solo motivo con il quale eccepisce l’inosservanza o comunque l’erronea applicazione dell’art. 474 c.p., e delle norme che regolano le procedure di registrazione dei titoli di proprietà industriale.

Deduce al riguardo che:

4.1. La linea di demarcazione tra il reato di cui all’art. 474 c.p., e quello di cui al successivo art. 517 ter, non è costituita – come erroneamente afferma la Corte di appello – dalla circostanza che il segno imitante sia stato registrato come marchio dal contraffattore bensì dal grado di imitazione del marchio originale e dalla idoneità di quello imitante a trarre in inganno la collettività e i consociati;

4.2. La registrazione del marchio (imitante) non ha alcun valore scriminante anche perchè non è preceduta da alcun esame di novità del marchio stesso, compito che esula dalle attribuzioni degli uffici competenti; quel che rileva, ai fini penali, è solo la riproduzione integrale (contraffazione) ovvero parziale purchè ingannatoria (alterazione) del marchio registrato.

Motivi della decisione

5. Per ragioni di ordine logico deve essere esaminato per primo il ricorso della parte civile che propone il tema relativo alla sussistenza del reato di cui all’art. 474 c.p., comma 1, originariamente contestato all’imputato.

5.1. Preliminare all’esame nel merito è però la verifica della sussistenza dell’interesse della parte civile a impugnare la sentenza che comunque ha genericamente condannato l’imputato al risarcimento del danno in suo favore.

5.2. La parte civile cita a sostegno dell’ammissibilità del ricorso l’indirizzo di questa Corte secondo il quale, ferma la legittimazione, sussiste l’interesse della parte civile ad impugnare ai fini civili la sentenza di condanna che dia al fatto una diversa qualificazione giuridica allorchè da quest’ultima possa derivare una differente quantificazione del danno da risarcire, cui si pervenga tenendo conto anche della gravità del reato e dell’entità del paterna d’animo sofferto dalla vittima (Sez. 4, n. 39898 del 03/07/2012, Giacalone, Rv. 254672; Sez. 5, n. 12139 del 14/12/2011 – dep. 2012, Martinez, Rv. 252164; Sez. 5, n. 4303 del 04/12/2002, Gunnella, Rv. 223769; Sez. 5, n. 8577 del 26/01/2001, Chieffi, Rv. 218427).

5.3. In senso contrario, si è invece sostenuto che la parte civile non è legittimata ad impugnare la sentenza con la quale l’imputato è stato condannato, anche nell’ipotesi in cui al fatto sia stata data una qualificazione giuridica diversa rispetto a quella contenuta nell’imputazione e oggetto della costituzione di parte civile. In ogni caso alla parte civile rimane la possibilità di sollecitare l’impugnazione del Pm, che potrà rigettare l’istanza con decreto motivato (Sez. 3, n. 11429 del 02/10/1997, Palmieri, Rv. 209643; Sez. 4, n. 13220 del 27/10/2000, Arancio, Rv. 218687).

5.4. Si pone in linea con l’indirizzo prevalente, quella giurisprudenza di questa Corte che, pur ritenendo la legittimazione della parte civile ad impugnare la sentenza di condanna al risarcimento del danno, onera quest’ultima di precisare le ragioni per cui una diversa qualificazione giuridica incida concretamente sulla pretesa risarcitoria (in termini, Sez. 5, n. 32762 del 07/06/2013, Rv. 256952).

5.5. Ritiene il Collegio che la soluzione della questione non può prescindere dalla verifica, in primo luogo, della legittimazione della parte civile a impugnare la sentenza anche quando condanna l’imputato al risarcimento del danno in suo favore.

5.6. Non v’è dubbio, infatti, che tale possibilità sussiste ai sensi dell’art. 576 c.p.p., comma 1, quando alla parte civile il risarcimento sia stato negato o sia stato concesso in misura inferiore a quella richiesta o comunque quando in generale la parte civile sia soccombente in tutto o in parte rispetto alle proprie pretese.

5.7. Nel caso di condanna generica, invece, non si può prescindere dagli effetti che essa produce nel processo civile per le restituzioni e il risarcimento del danno secondo quanto prevede l’art. 651 c.p.p..

5.8. La condanna generica al risarcimento del danno di cui all’art. 539 c.p.p., comma 1, non esige, per sua natura, alcuna indagine in ordine alla concreta esistenza di un danno risarcibile, essendo sufficiente, a tal fine, l’accertamento del fatto-reato (cd. “danno evento”) potenzialmente produttivo di conseguenze dannose (cd. “danno conseguenza”) (Sez. 6, n. 12199 del 11/03/2005, Molisso, Rv. 231044; Sez. 6, n. 14377 del 26/02/2009, Giorgio, Rv. 243310; Sez. 5, n. 45118 del 23/04/2013, Di Fatta, Rv. 257551; cfr. altresì Sez. 3, n. 36350 del 23/03/2015, Bertini, Rv. 265637 che ha affermato che la condanna generica al risarcimento dei danni contenuta nella sentenza penale, pur presupponendo che il giudice abbia riconosciuto il relativo diritto alla costituita parte civile, non comporta alcuna indagine in ordine alla concreta esistenza di un danno risarcibile, postulando soltanto l’accertamento della potenziale capacità lesiva del fatto dannoso e dell’esistenza – desumibile anche presuntivamente, con criterio di semplice probabilità – di un nesso di causalità tra questo ed il pregiudizio lamentato, restando perciò impregiudicato l’accertamento riservato al giudice civile sulla liquidazione e l’entità del danno, ivi compresa la possibilità di escludere l’esistenza stessa di un danno eziologicamente collegato all’evento illecito).

5.9. Ne consegue che tale statuizione, ai sensi dell’art. 651 c.p.p., non ha normalmente efficacia di giudicato in ordine alle conseguenze economiche del fatto illecito commesso dall’imputato (Sez. 4, n. 1045 del 16/12/1998, Selva, Rv. 212284).

5.10. La condanna generica al risarcimento del danno non esclude la eventualità che il giudice affermi la concreta sussistenza del cd. “danno conseguenza” (l’an del danno risarcibile), demandandone al giudice civile la sola liquidazione (il quantum).

5.11. Sul punto la giurisprudenza delle Sezioni civili civile di questa Suprema Corte ha autorevolmente affermato che “la sentenza penale di condanna passata in giudicato, la quale fa stato, ai sensi dell’art. 651 c.p.p., in ordine all’accertamento del fatto, alla sua rilevanza penale ed alla sua commissione, può non essere sufficiente ai fini del riconoscimento dell’esistenza del diritto al risarcimento del danno quando il fatto, avente rilevanza penale, non si configuri come “reato di danno”; al contrario, nel caso in cui il giudicato penale di condanna riguardi un reato appartenente a tale categoria (nella specie una truffa a danno di un ente regionale), l’esistenza del danno è implicita e, conseguentemente, non può formare oggetto di ulteriore accertamento, negativo o positivo, in sede civile, se non con riferimento al soggetto od ai soggetti che lo abbiano subito o alla misura di esso” (Sez. Un. Civ., n. 4549 del 25/02/2010, Rv. 611796).

5.12. E’ stato inoltre precisato che “in caso di condanna generica al risarcimento dei danni contenuta nella sentenza penale, se il giudice penale non si sia limitato a statuire solo sulla potenzialità dannosa del fatto addebitato al soggetto condannato e sul nesso eziologico in astratto, ma abbia accertato e statuito sull’esistenza in concreto di detto danno e del relativo nesso causale con il comportamento del soggetto danneggiato, valgono sul punto i principi del giudicato” (Sez. 3 civ., n. 16113 del 09/07/2009, Rv. 608754), sicchè non sono vincolanti, per il giudice civile, “le valutazioni e qualificazioni giuridiche attinenti agli effetti civili della pronuncia, quali sono quelle che attengono all’individuazione delle conseguenze dannose che possono dare luogo a fattispecie di danno risarcibile” (Sez. 3, n. 8360 del 08/04/2010, Rv. 612361; sez. 6-3 civ., n. 14648 del 04/07/2011, Rv. 618452).

5.13. Ciò deriva dal fatto che, secondo quanto prevede l’art. 185 c.p., comma 2, non diversamente da quanto dispone sul punto l’art. 2043 c.c., in tema di fatto illecito civile, il reato (fatto ingiusto/danno evento) obbliga al risarcimento del danno patrimoniale o non patrimoniale (danno conseguenza) solo quando lo “abbia cagionato”. Il danno risarcibile, insomma, non costituisce conseguenza scontata e automatica di ogni reato, dovendo comunque essere oggetto di accertamento nella sua sussistenza e consistenza (cfr. sul punto, Sez. Un. civ., n. 26972 del 11/11/2008, secondo cui “il danno non patrimoniale, anche quando sia determinato dalla lesione di diritti inviolabili della persona, costituisce danno conseguenza (Cass. n. 8827 e n. 8828/2003; n. 16004/2003), che deve essere allegato e provato. Va disattesa, infatti, la tesi che identifica il danno con l’evento dannoso, parlando di “danno evento”. La tesi, enunciata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 184/1986, è stata infatti superata dalla successiva sentenza n. 372/1994, seguita da questa Corte con le sentenze gemelle del 2003. E del pari da respingere è la variante costituita dall’affermazione che nel caso di lesione di valori della persona il danno sarebbe in re ipsa, perchè la tesi snatura la funzione del risarcimento, che verrebbe concesso non in conseguenza dell’effettivo accertamento di un danno, ma quale pena privata per un comportamento lesivo).

5.14. Il fatto storico, così come ricostruito ed accertato dal giudice penale, determina inevitabili conseguenze sulla sussistenza e consistenza del danno conseguenza. Così, per fare un esempio, non v’è dubbio che la natura volontaria delle lesioni personali è astrattamente suscettibile di provocare una sofferenza morale maggiore rispetto ad una condotta produttiva delle medesime lesioni ma involontaria. Per rimanere in tema, la contraffazione di una griffe è potenzialmente suscettibile di provocare danni maggiori di una semplice imitazione.

5.15. La questione dell’incidenza, a fini risarcitori, della diversa qualificazione giuridica del fatto deve perciò essere correttamente impostata alla luce dei principi e considerazioni che precedono. Se la diversa qualificazione giuridica deriva da una diversa ricostruzione del fatto, quel che vincola il giudice civile in sede risarcitoria non è la qualificazione giuridica data al fatto in sede penale, bensì il fatto stesso nella sua dimensione illecita la cui diversa ricostruzione la parte civile è legittimata a contestare (salvo allegarne il concreto interesse); se la diversa qualificazione giuridica accede al fatto immutato nella sua sussistenza e consistenza storica, la parte civile non è legittimata a dolersene poichè tale diversa qualificazione non vincola il giudice civile. Al giudice civile, infatti, non interessa tanto il reato, quanto – piuttosto – il “fatto illecito” (tant’è che la sentenza penale non ha efficacia di giudicato quanto alla colpevolezza dell’imputato).

5.16. Orbene, nel caso in esame, il fatto storico attribuito all’imputato è rimasto uguale a se stesso in entrambi i gradi di giudizio; il minimo comune denominatore delle decisioni dei Giudici di merito è la concorde e pacifica esclusione della riproduzione fedele (contraffazione) o alterazione del marchio “(omissis)”. Peraltro, mentre il Tribunale aveva addirittura escluso l’ipotesi della mera imitazione del marchio, la Corte di appello è stata, come visto, di diverso avviso avendo affermato chiaramente che i due marchi (quello originale e quello asseritamente contraffatto) pur non confondibili sono somiglianti (“sotto questo profilo è sufficiente infatti la mera somiglianza, un richiamo parziale, perchè quel che si sfrutta non è il marchio di per sè, ma la bontà ed originalità dell’idea. Agganciarsi insomma di mero effetto evocativo, senza alcuna imitazione o inganno”). La parte civile del resto non contesta il fatto così come storicamente accertato, che fornisce le coordinate e la dimensione del danno risarcibile; altri sono i suoi argomenti.

5.17. Questa Corte ha sempre sostenuto che ai fini della configurabilità dell’elemento oggettivo del reato di cui agli artt. 473 e 474 c.p., non è sufficiente la mera confondibilità tra due marchi regolarmente registrati, ma è necessario un “quid pluris” rappresentato dalla materiale contraffazione o alterazione dell’altrui marchio (Sez. 1, n. 30774 del 09/09/2015, Baccalaro, Rv. 267509).

5.18. La qualificazione giuridica del fatto effettuata dalla Corte di appello non deriva perciò da una “deminutio” del fatto stesso, bensì dalla errata affermazione che la registrazione del marchio non genuino (o comunque che imita quello originale) esonera l’autore dalla responsabilità penale per il reato di cui all’art. 474 c.p..

5.19. E’ evidente che non è questa la linea di confine tra il reato di cui all’art. 517 ter, e quello di cui agli artt. 473 e 474 c.p..

5.20. Come riconosciuto in dottrina e già affermato da questa Corte, l’art. 517 ter c.p., si pone in sostanziale continuità normativa con il D.Lgs. n. 30 del 2005, abrogato art. 127, comma 1, e si riferisce tanto all’ipotesi dei prodotti realizzati ad imitazione di quelli protetti dal titolo di privativa e quindi in violazione del medesimo, quanto a quella della fabbricazione, utilizzazione e vendita di prodotti “originali” da parte di colui che non ne è titolato (così, in motivazione, Sez. 3, n. 8653 del 19/11/2015, Ruoso, Rv. 266220).

5.21. Quel che distingue tale ipotesi delittuosa da quella di cui agli artt. 473 e 474 c.p., è dunque la dimensione degli interessi coinvolti: pubblici nel primo caso (fede pubblica), privati nel secondo (patrimonio).

5.22. Il bene giuridico protetto dagli artt. 473 e 474 c.p., è la fede pubblica, “che si intende tutelare contro specifici attacchi insiti nella contraffazione od alterazione del marchio o di altri segni distintivi o del brevetto, disegni o modelli industriali. Bene messo in pericolo tutte le volte in cui la contraffazione (pedissequa riproduzione integrale, in tutta la sua configurazione emblematica e denominativa di marchi o segni distintivi, ovvero riproduzione negli elementi essenziali e caratterizzanti di un prodotto brevettato) o la alterazione (riproduzione solo parziale, ma tale da ingenerare confusione con marchio originario o segno distintivo o prodotto brevettato) siano tali da ingenerare confusione nei consumatori e da nuocere al generale affidamento. L’interesse pubblico, in tale situazione, è preminente rispetto a quello privato, nella sua specifica dimensione patrimoniale, che, anzi, resta assorbito in quello collettivo reputato di maggior rilievo (fede pubblica e tutela del mercato). Di contro, ove (…) sia ravvisabile solo uno specifico interesse patrimoniale di un privato, leso dall’abusiva utilizzazione di un prodotto da lui brevettato, ricorre altra fattispecie di reato, ratione temporis ravvisabile nella fattispecie di cui al D.Lgs. 10 febbraio 2005, n. 30art. 127 (in precedenza come frode brevettuale di cui al R.D. n. 1127 del 1939, art. 88), che tutela esclusivamente il patrimonio e dunque una sfera di interessi esclusivamente privati (circostanza questa chiaramente segnalata dalla procedibilità a querela di parte) ed ha, dunque, carattere sussidiario rispetto alle ipotesi di reato previste dal codice penale, tra cui appunto quella di cui all’art. 473 c.p. (cfr. Cass. sez. 5, 26.4.2006, n. 19512, rv. 234405, secondo cui ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 127 non rileva la mera somiglianza del prodotto contraffatto con quello originale, idonea a generare confusione, ma è necessario ravvisare un carattere del prodotto industriale, relativo a progetto o a struttura, componenti, assemblaggio, confezione od altro che, al di là del marchio, ne rende esclusiva la fabbricazione ed il commercio)” (così, in motivazione, Sez. 5, n. 37553 del 15/07/2008, Pedrollo, Rv. 241642; nello stesso senso, Sez. 5, n. 22503 del 07/01/2016, Sbaraini, Rv. 266856).

5.23. In sintesi: a) la condanna al risarcimento del danno è stata comminata dalla Corte di appello in assenza di accertamenti positivi sulla sussistenza del danno; b) il fatto, così come storicamente accertato, è sempre stato uguale a se stesso; c) la sua diversa qualificazione giuridica, per quanto errata, non è il frutto di una diversa ricostruzione del fatto, incontestato nella sua dimensione storica.

5.24. Ne consegue che: a) la condanna generica e la diversa qualificazione giuridica data al fatto dal giudice penale non vincolano il giudice civile nell’accertamento della sussistenza e consistenza del cd. danno-conseguenza, liquidabile in base ai criteri stabiliti dal D.Lgs. n. 30 del 2005art. 125; b) la parte civile non è legittimata ad impugnare.

5.25. Si possono perciò affermare i seguenti principi di diritto:

“la parte civile non è legittimata ad impugnare la condanna generica al risarcimento del danno quando non ha efficacia di giudicato nel giudizio civile circa l’entità del danno risarcibile”;

“la sentenza di condanna che dia al fatto una diversa qualificazione giuridica può essere impugnata dalla parte civile solo quando ad essa corrisponda una diversa ricostruzione del fatto storico”.

5.26. Il ricorso della parte civile è perciò inammissibile.

5.27. In considerazione della fondatezza, nel merito, dell’assunto difensivo, non ritiene la Corte di dover condannare la parte civile al pagamento delle spese e della somma in favore della Cassa delle Ammende.

6. E’ totalmente infondato (oltre che generico) il ricorso dell’imputato.

6.1. Questi non prende posizione sulla ricostruzione del fatto così come effettuata nella sentenza, nè sulle conclusioni, non manifestamente illogiche, che la Corte di appello ne trae per dimostrare la consapevolezza della natura “usurpativa” del marchio apposto sulla merce importata e l’intenzione di sfruttarne “in modo parassitario” la forza commerciale.

6.2. Del tutto infondata è pertanto la censura sollevata dall’imputato che è priva di consistenza posto che il Tribunale non aveva affrontato affatto il tema del dolo del reato essendosi arrestato sulla soglia della insussistenza oggettiva del reato; sicchè è improprio il richiamo alla giurisprudenza di questa Corte in tema di cd. “motivazione rafforzata”.

6.3. Anche il ricorso dell’imputato è perciò inammissibile.

6.4. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue, ex art. 616 c.p.p., non potendosi escludere che essa sia ascrivibile a colpa del ricorrente (C. Cost. sent. 7-13 giugno 2000, n. 186), l’onere delle spese del procedimento nonchè del versamento di una somma in favore della Cassa delle ammende, che si fissa equitativamente, in ragione dei motivi dedotti, nella misura di Euro 2.000,00.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso di S.L. e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

Dichiara inammissibile per carenza di interesse il ricorso della parte civile “(omissis) S.p.a.”.

Così deciso in Roma, il 30 novembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 27 marzo 2017

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