• Home
  • >
  • Cassazione penale sez. III, 23/06/2016, n. 22127

Cassazione penale sez. III, 23/06/2016, n. 22127

Massima

Integra l’elemento oggettivo del reato di violenza sessuale non soltanto la condotta invasiva della sfera della libertà ed integrità sessuale altrui realizzata in presenza di una manifestazione di dissenso della vittima, ma anche quella posta in essere in assenza del consenso, non espresso neppure in forma tacita, della persona offesa, come nel caso in cui la stessa non abbia consapevolezza della materialità degli atti compiuti sulla sua persona. (Fattispecie in tema di atti sessuali realizzati nei confronti di una persona dormiente).

Supporto alla lettura

VIOLENZA SESSUALE

La violenza sessuale è riconosciuta a livello internazionale come un crimine contro l’umanità e come una forma di violenza maschile sulle donne.

Nell’ordinamento italiano è riconosciuta come un delitto contro la persona ed è un reato punito secondo l’art. 609 bis c.p..

Può assumere forme diverse: dallo stupro all’aggressione sessuale, passando dalle violenze nel matrimonio, nella coppia e nella famiglia, quindi non è posto l’accento sulla sessualità, si tratta bensì di una dimostrazione di potere e della messa in atto di obiettivi personali o politici degli autori del reato.

Per la configurazione del reato è importante la mancanza di consenso da parte della vittima, e non la manifestazione del dissenso, ma anche tra partner se non c’è consenso al rapporto sessuale allora vi è violenza.

L’attuale formulazione dell’art. 609 bis c.p. è il frutto di molteplici modifiche che si sono susseguite nel corso del tempo e che hanno reso la disciplina in materia sempre più rigida. L’ultima riforma, in ordine di tempo, è quella apportata dal Codice Rosso (L. 69/2019), che non ha solo modificato l’articolo, ma ha introdotto molteplici strumenti per assicurare maggiori tutele alle donne e ai minori vittime di violenza domestica e di genere.

Ambito oggettivo di applicazione

RITENUTO IN FATTO

La Corte di appello di Catania, in data 9 ottobre 2015 ha confermato la sentenza con la quale il precedente 30 giugno 2010 il Gup del Tribunale di Catania, all’esito di giudizio abbreviato, aveva condannato (omissis), concesse a suo favore le attenuanti generiche, alla pena di anni 3 di reclusione, oltre accessori, avendolo riconosciuto colpevole del reato di maltrattamenti in famiglia in danno della convivente (omissis) e dei tre figli di costei, nonchè del reato di violenza sessuale continuata in danno della medesima convivente.

Ha interposto ricorso per cassazione avverso la predetta sentenza il prevenuto, con l’ausilio del proprio difensore di fiducia, affidandolo a quattro motivi di impugnazione.

Col primo di essi lo (omissis) ha dedotto la violazione di legge in cui sarebbe incorsa la sentenza della Corte territoriale nel non avere dichiarato la avvenuta prescrizione del reato di maltrattamenti.

Invero, premesso che il tempus commissi delicti del reato di cui sopra non può essere protratto oltre la data del 10 novembre 2007, momento in cui per espressa affermazione della persona offesa lo (omissis) si sarebbe allontanato dalla casa comune, erroneamente la Corte territoriale ha ritenuto che il termine massimo di prescrizione del reato possa essere calcolato tenendo conto della recidiva contestata nel capo di imputazione; secondo quanto rileva, infatti, il ricorrente, in sede di primo grado il Gup non ha tenuto conto di tale circostanza in occasione della determinazione della pena in concreto, di tal che deve ritenersi che egli la abbia esclusa; illegittimamente, pertanto, la Corte di appello ha recuperato detta circostanza ai fini della determinazione del tempo massimo necessario per la prescrizione.

La sentenza sarebbe, altresì, viziata per difetto di motivazione per avere i giudici del merito omesso di considerare, affermandone anzi la inesistenza, le dichiarazioni a proprio discarico rese dallo (omissis) in occasione dell’interrogatorio di garanzia cui lo stesso era stato sottoposto in data 30 marzo 2009.

Col terzo motivo è censurata la motivazione della sentenza, con riferimento alla dichiarazione di penale responsabilità del prevenuto in ordine al reato di violenza sessuale a carico della convivente, nella parte in cui la stessa si fonda esclusivamente sulla dichiarazioni accusatorie di quest’ultima, anche laddove le stesse sono del tutto inattendibili, così come si verifica allorchè la stessa ha dichiarato di essere stata violentata dal convivente nella notte mentre la stessa dormiva, essendo inverosimile che una siffatta evenienza possa accadere senza che la persona offesa sia almeno svegliata.

Infine, subordinatamente al rigetto della precedente censura, è stata dedotta la illegittimità della sentenza impugnata laddove è stata esclusa la ricorrenza, con riferimento alla imputazione di violenza sessuale, del fatto di minore gravità sulla base di mere formule di stile inadeguate a dare contezza delle ragioni della scelta operata dai giudici del merito.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

Il ricorso è inammissibile.

Osserva, infatti, la Corte come il primo motivo di impugnazione presentato dallo (omissis), sebbene astrattamente argomentato sulla base di dati condivisibili, cioè l’avvenuta decorrenza al momento della decisione emessa dalla Corte di appello di Catania del termine ordinariamente previsto ai fini della prescrizione del reato di cui all’art. 572 c.p., non sia stato dal ricorrente contestualizzato con la circostanza, peculiare della presente fattispecie, che ambedue i reati contestati allo S., quindi anche i maltrattamenti in famiglia, sono stati addebitati con la previsione della recidiva specifica, reiterata ed infraquinquennanale, elemento questo che ha comportato, ai fini del termine massimo prescrizionale, non solamente la dilatazione sino a due terzi della pena edittale massima prevista per il reato di maltrattamenti in famiglia (dilatazione rilevante ai fini del calcolo della prescrizione in quanto derivante da circostanza aggravante ad effetto speciale: cfr. infatti l’art. 157 c.p., comma 2), ma anche l’ampliamento da un quarto sino a due terzi rispetto al termine ordinariamente previsto del tempo necessario per la prescrizione del delitto in presenza di fattori interruttivi della medesima (cfr. art. 161 c.p., comma 2).

Per effetto di tali elementi, nonchè della sospensione del termine prescrizionale in ragione del differimento del dibattimento a richiesta del difensore dell’imputato dal 4 dicembre 2014 al 13 febbraio 2015, per complessivi giorni 71 giorni, il termine prescrizionale del reato contestato sub a) della rubrica elevata a carico del prevenuto era destinato ad andare a scadere, quanto ai fatti più risalenti nel tempo (cioè quelli collocati all’inizio dell’anno 2000), non prima del 10 ottobre 2016.

Va peraltro chiarito che non può aderirsi alla tesi, che costituisce presupposto della censura svolta dal ricorrente, che ai fini del calcolo della prescrizione del reato in questione non debba, nell’occasione, tenersi conto degli aumenti derivanti dalla contestata recidiva, non essendo stata questa considerata dal giudice di primo grado in sede di determinazione della pena concretamente irrogata a carico dell’imputato.

Invero, in senso opposto alla tesi sostenuta dallo (omissis) sta – oltre al dato testuale riportato nella sentenza di primo grado, integralmente confermata in grado di appello, secondo il quale all’imputato è stata addebitata la penale responsabilità “in ordine ad entrambi i reati ascrittigli” quindi, in assenza di clausole esonerative, anche in relazione alla recidiva così come a suo carico contestata – anche la circostanza, deponente anch’essa per la rilevanza della contestata recidiva, che in sede di determinazione della pena il Gup del Tribunale di Catania si è fatto carico di considerare la personalità dello (omissis), già condannato per vari reati, siccome proclive al delinquere.

Nessun rilievo ha, giova chiarire, nè il fatto che l’esistenza della circostanza inerente alla persona del reo, pur tenuta in considerazione come segnalato dal giudice di primo grado, non abbia comportato un’aritmetica variazione della dosimetria sanzionatoria, posto che la stessa è stata evidentemente assorbita, in sede di giudizio di valenza, dalla ritenuta prevalenza delle attenuanti generiche, nè la circostanza che il giudice di prime cure abbia precisato che i sintomatici precedenti penali dello S. fossero relativi a reati ritenuti, di altra natura, rispetto a quelli ora in giudizio – in tal modo implicitamente escludendo che la recidiva contestata fosse specifica posto che, ai fini sia dell’aggravamento di pena edittale che ai fini del dilatamento dei termini prescrizionali così come dianzi descritto, la recidiva reiterata infraquinquennale, quale è quella correttamente accertata a carico del prevenuto, è del tutto equiparata, atteso l’automatismo quantitativo dei predetti ampliamenti cronologici una volta ritenuta la astratta sussistenza della aggravante, alla recidiva reiterata, specifica ed infraquinquennale, essendo sufficiente ai fini della determinazione di detti effetti la presenza anche di due sole degli elementi specializzanti rispetto alla recidiva semplice.

Essendo stata pronunziata la sentenza della Corte di appello di Catania in data 9 ottobre 2015, il termine prescrizionale relativo al reato di cui al capo a) della rubrica non poteva a tale data dirsi maturato per nessuno degli episodi delittuosi ivi contemplati, sicchè al riguardo nessuna doglianza può essere legittimamente mossa alla sentenza impugnata.

Il secondo motivo di impugnazione è del tutto generico in quanto, anche a voler ritenere l’esistenza delle dichiarazioni rese dal prevenuto in sede di interrogatorio di garanzia in data 30 marzo 2009, sarebbe stato onere del ricorrente, non solamente quello di richiamare il motivo di impugnazione già formulato sul punto in sede di appello avverso la sentenza di primo grado (essendo giurisprudenza costante di questa Corte la affermazione della inammissibilità, in caso di cosiddetta doppia conforme, del motivo di ricorso per cassazione afferente all’avvenuto travisamento della prova ove lo stesso non avesse già formato argomento del ricorso in grado di appello; cfr. ex multis: Corte di cassazione, Sezione 5^, penale, 24 novembre 2014, n. 48703), ma anche di precisarne puntualmente i contenuti onde consentire a questa Corte di verificare se ed in che misura tali dichiarazioni avrebbero potuto comportare la disarticolazione del ragionamento che aveva condotto i giudici del merito alla loro decisione condannatoria.

Nulla avendo chiarito il ricorrente nel suo libello rispetto a quanto sopra segnalato, il motivo di ricorso si palesa, pertanto, inammissibile.

Quanto al terzo motivo di impugnazione, concernente la pretesa inattendibilità del racconto della parte offesa nella parte in cui questa riferisce di avere subito atti di violenza sessuale durante il sonno, osserva il Collegio, premessa la assoluta marginalità quantitativa degli episodi di violenza sessuale commessi dall’imputato secondo tali modalità, che, per un verso deve ritenersi inammissibile il motivo di impugnazione di fronte al giudice della legittimità con il quale è dedotta la erronea valutazione operata in sede di merito in relazione alla attendibilità intrinseca delle dichiarazioni accusatorie rese dalla parte offesa (si veda di recente: Corte di cassazione, Sezione 6 penale 4 aprile 2016, n. 13442), e, per altro verso, che non può affermarsi la illogicità della sentenza impugnata nella parte in cui è stato dato credito a quanto riferito dalla parte offesa in ordine al fatto che il prevenuto abbia, in alcune occasioni, compiuto atti sessuali violenti a suo danno anche mentre la medesima era dormiente.

Va, a tale proposito, ricordato che nel concetto di atto sessuale possono essere ricompresi, oltre che evidentemente gli atti di penetrazione fisica, anche tutte quelle condotte, quale ne sia la obbiettiva materialità, volte alla soddisfazione della concupiscenza dell’agente comportanti, attraverso un coinvolgimento fisico non necessariamente riferito ad ambedue i soggetti del reato, la violazione della integrità e della libertà sessuale della persona offesa (Corte di cassazione, Sezione 3 penale, 11 giugno 2015, n. 24683); va, altresì precisato che, ai fini della integrazione del reato, non è necessario il coinvolgimento emotivo di quest’ultima, essendo possibile anche che la stessa rimanga ignara dell’atto compiuto ai suoi danni ovvero che, per fattori occasionali o connessi alla età o derivanti da peculiari condizioni patologiche della persona offesa, questa non abbia la soggettiva consapevolezza del contenuto di tali atti.

Va ancora ricordato che possono essere ricondotte al concetto di violenza sessuale, premessa la ricordata materialità della condotta, non sole quelle azioni che violano la libertà e la integrità sessuale della persona offesa attraverso comportamenti realizzati contro la volontà di questa, pertanto, in violazione del dissenso manifestato da detta parte, ma anche ove la condotta sia realizzata in assenza di un atto, sia pur implicito o tacito, di disposizione del bene integrità sessuale; è quello che, appunto, si verifica laddove la persona offesa, non essendo consapevole della materialità degli atti compiuti sulla sua persona, non opponga ad essi un qualche dissenso, essendosi limitata a non esprimere, neppure in forma tacita, il proprio consenso.

Nel caso di specie i giudici del merito, considerata la possibilità che gli atti di violenza sessuale non abbiano un contenuto particolarmente invasivo della corporeità della persona offesa, hanno plausibilmente desunto la effettività delle condotte di violenza sessuale patite dalla (omissis) anche allorchè ella era dormiente, dai dati obbiettivi da questa riferiti e relativi al fatto che la stessa, una volta svegliatasi dal sonno, trovava sul proprio corpo tracce ed altri elementi materiali indubbiamente riconducibili alle avvenute manipolazioni ai suoi danni operate dal di lei convivente.

Infine, relativamente all’ultimo motivo di impugnazione, avente ad oggetto la mancata riconduzione dei fatti di violenza sessuale al novero di quelli di minore gravità ai sensi dell’art. 609 – bis c.p., u.c., va detto che, diversamente da quanto temerariamente osservato dal ricorrente, la motivazione della sentenza della Corte catanese è tutt’altro che superficiale al riguardo, essendo in essa evidenziata, onde escludere la ricorrenza della ipotesi delittuosa attenuata, la prolungata reiterazione nel tempo dei reati in questione nonchè il sistematico asservimento della persona offesa al soddisfacimento del proprio appetito sessuale, per la cui soddisfazione il prevenuto non esitava ad utilizzare metodi di convincimento, ove la donna opponeva un legittimo rifiuto, per lo più basati sulla violenza fisica e sulla minaccia.

Trattandosi di fattori chiaramente incidenti, inasprendola, sulla gravità dei fatti, in maniera del tutto condivisibile la Corte di merito ha escluso la ricorrenza della speciale attenuante invocata.

Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso segue, visto l’art. 616 c.p.p., la condanna del prevenuto al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1500,00 in favore della Cassa delle ammende.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1500,00 in favore della cassa delle ammende.

In caso di diffusione del presente provvedimento, si dispone che siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi delle persone, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto imposto dalla legge.

Così deciso in Roma, il 23 giugno 2016.

Depositato in Cancelleria il 8 maggio 2017

Allegati

    [pmb_print_buttons]

    Accedi