2. Ricorre per cassazione il (omissis), a mezzo del proprio difensore, deducendo due motivi:
– violazione e falsa applicazione dell’art. 600 quater c.p., commi 1 e 2. La Corte di appello avrebbe confermato la condanna in forza di una errata nozione di “detenzione”, invero non riferibile a quella sottesa alla ratio del reato contestato. In particolare, i files pedopornografici non sarebbero stati conservati in modo permanente, ma cancellati prima ancora che il loro download fosse terminato, ed inseriti nella cartella temp sita – insieme a quelle config e incoming – in quella norphan”; dalla quale, peraltro, soltanto un esperto di computer avrebbe potuto recuperarli, non certo il (omissis);
– mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione. La Corte di appello avrebbe dovuto assolvere l’imputato atteso che, non essendo in grado di scaricare o visionare i frammenti di files in questione, non ne aveva libera utilizzazione. In tal senso, la motivazione sarebbe contraddittoria, dal momento che prima avrebbe affermato che i files – cancellati – sarebbero stati recuperabili solo attraverso una “sofisticata utilizzazione di strumenti di analisi forense”, quindi avrebbe sostenuto che il concetto di disponibilità deve essere inteso come “possibilità di libera utilizzazione”, anche senza possibilità di recupero. Il che, però, escluderebbe il reato contestato.
Diritto
CONSIDERATO IN DIRITTO
3. Il ricorso è infondato.
L’art. 600 quater c.p. sanziona chiunque, al di fuori delle ipotesi previste dall’art. 600 ter (Pornografia minorile), consapevolmente si procura o detiene materiale pornografico realizzato utilizzando minori di anni diciotto; orbene, con riguardo al concetto di detenzione – fulcro della presente vicenda, attesa la pacifica presenza di files a contenuto pedopornografico nel computer del (omissis) – ritiene la Corte che la sentenza impugnata abbia steso una motivazione del tutto adeguata, logica e priva di qualsiasi contraddizione. In particolare, il Collegio di merito ha evidenziato che 1) nell’apparecchio vi era una cartella (orphan), contenente un’altra (files temporanei di internet) relativa a “parti di pagina (immagini, disegni, grafici, etc.) appartenenti a siti visitati e che vengono memorizzate per essere utilizzate in caso di accesso alla stessa pagine in momenti successivi”, in misura di circa 500; 2) il materiale in questione poteva essere, in qualsiasi momento, “richiamato in visione, anche da parte di un utente non particolarmente esperto”; 3) le stringhe di ricerca – ovvero le “chiavi” usate al tempo per individuare i files da scaricare – erano “(omissis)”, “(omissis)” e “(omissis)”, di significato non equivoco e tali, quindi, da impedire di ritenere che il relativo “scarico” (download) fosse stato causale od involontario; 4) l’esame del computer aveva evidenziato nella cartella orphan decine di “files cancellati prima risiedenti sul pc e poi cancellati”. Orbene, in forza di queste oggettive risultanze, la Corte di appello ha quindi concluso che il ricorrente non aveva eliminato i files prima del download, ma li aveva effettivamente scaricati, archiviati, salvo poi cancellarli; pur potendo, peraltro, riprenderne visione senza difficoltà, atteso che l’archiviazione nella cartella orphan “ne consentiva una più agevole e veloce consultazione”.
In forza di queste risultanze, dunque, la sentenza ha affermato essersi verificata quella detenzione consapevole propria dell’art. 600 quater c.p.; in particolare, la Corte di merito ha aderito all’indirizzo per il quale integra il delitto in oggetto la cancellazione di “files” pedopornografici, “scaricati” da internet, mediante l’allocazione nel “cestino” del sistema operativo del personal computer, in quanto gli stessi restano comunque disponibili mediante la semplice riattivazione dell’accesso al “file” (Sez. 3, n. 639 del 6/10/2010, Angileri, Rv. 249117).
Esattamente come nel caso di specie, laddove – come afferma la sentenza -non si era verificata una cancellazione definitiva, l’unica idonea ad escludere la disponibilità dei files e, pertanto, il reato, ma soltanto l’allocazione degli stessi in apposite cartelle.
Orbene, a fronte di una così adeguata e logica motivazione, il ricorrente – dietro l’apparenza di violazione di legge o di difetto motivazionale – sollecita di fatto alla Corte una nuova valutazione delle medesime risultanze istruttorie già esaminate dai Giudici di merito, ed in particolare del carattere definitivo o meno della cancellazione dei files in oggetto; questione di mero fatto, non proponibile innanzi a questo Collegio e, comunque, congruamente risolta dalla sentenza con i passi motivi sopra richiamati.
Al riguardo, invero, occorre ribadire che il controllo del giudice di legittimità sui vizi della motivazione attiene alla coerenza strutturale della decisione di cui si saggia l’oggettiva tenuta sotto il profilo logico-argomentativo, restando preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (tra le varie, Sez. 3, n. 12110 del 19/3/2009, Campanella, n. 12110, Rv. 243247). Si richiama, sul punto, il costante indirizzo di questa Corte in forza del quale l’illogicità della motivazione, censurabile a norma dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), è soltanto quella evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi; ciò in quanto l’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione limitarsi, per espressa volontà del legislatore, a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo, senza possibilità di verifica della rispondenza della motivazione alle acquisizioni processuali (Sez. U., n. 47289 del 24/9/2003, Petrella, Rv. 226074).
Alcuna illogicità, dunque, pare riscontrabile nell’apparato argomentativo della sentenza, al pari di alcuna contraddittorietà;
ed invero, diversamente dall’assunto del ricorrente, la Corte di merito non afferma che i files cancellati potevano esser recuperati soltanto con competenze specifiche e che, però, il (omissis) ne aveva comunque libera disponibilità, ma afferma – e ribadisce – che i medesimi files potevano esse richiamati in visione in qualsiasi momento, “anche da parte di un utente non particolarmente esperto”, ed anche ammesso che il ricorrente potesse esser qualificato tale.
Nè mai afferma – ancora la Corte di merito – che i files in esame sarebbero stati liberamente utilizzabili, ancorchè senza possibilità di recupero; in senso diverso, infatti, la pronuncia, ancora con motivazione logica, sostiene che “le invocate, specifiche competenze, certamente richieste per recuperare i files cancellati e rimasti nella memoria remota dell’hard disk, non necessitavano per la semplice visione”.
Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato, ed il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali.
Depositato in Cancelleria il 8 giugno 2015
