1. Con sentenza emessa in data 23 giugno 2022, la Corte di appello di Torino ha confermato la sentenza pronunciata dal Tribunale di Torino che aveva dichiarato la penale responsabilità di P.S.S. per i reati di violenza sessuale, maltrattamenti in famiglia, lesione personale e danneggiamento, e, ritenuta la continuazione tra gli stessi; più grave il delitto di violenza sessuale;
nonché concesse le circostanze attenuanti generiche con giudizio di equivalenza rispetto all’aggravante del fatto commesso in danno del coniuge, gli aveva irrogato la pena di sei anni e sei mesi di reclusione.
Secondo quanto ricostruito dai giudici di merito, P.S.S., in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, avrebbe: -) costretto la moglie, dalla quale era separato, a subire un rapporto vaginale senza preservativo il 10 marzo 2019 (capo 1); -) maltrattato la donna, anche davanti ai figli minori, con plurime condotte reiterate nel tempo, dal gennaio 2019 fino al 28 giugno 2019, consistite in umiliazioni ed offese verbali, pedinamenti, diffusione di filmati relativi a momenti “riservati” della loro vita, minacce, anche di morte, ripetute percosse anche sul viso e anche con calci, nonché abusive invasioni di domicilio, da ultimo in violazione della misura cautelare del divieto di avvicinamento (capo 2); -) cagionato alla stessa, in data 14 febbraio 2019 e in data 23 aprile 2019, lesioni personali guaribili in dieci giorni (capo 3); -) danneggiato, in data 6 giugno 2019, l’autovettura in uso alla medesima (capo 4).
2. Ha presentato ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte di appello indicata in epigrafe P.S.S., con atto sottoscritto dall’avvocato Passero Giovanni, articolando sei motivi, preceduti da una premessa, nella quale si espongono elementi in ordine alla nascita del rapporto sentimentale e coniugale tra imputato e vittima, alla progressiva evoluzione dello stesso, all’origine dei contrasti familiari, e all’odierna ricomposizione dei rapporti tra i due.
2.1. Con il primo motivo, si denuncia vizio di motivazione, a norma dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), avuto riguardo alla attendibilità delle dichiarazioni della persona offesa in relazione al reato di violenza sessuale, anche per l’omessa risposta alle censure formulate con l’atto di appello.
Si deduce che le dichiarazioni della persona offesa non hanno trovato conferma, ed anzi sono smentite, dagli ulteriori elementi acquisiti agli atti del processo, e che la sentenza impugnata non ha risposto alle puntuali doglianze evidenziate con l’atto di gravame.
Si rappresenta, innanzitutto, che i referti medici attestano l’esistenza di una cicatrice sullo zigomo, di una cicatrice sul braccio desto e di una ecchimosi sulla coscia destra, senza precisare se le stesse siano ascrivibili a traumi recenti. Si segnala, poi, che la violenza sessuale sarebbe avvenuta dopo che la donna si era adagiata nuda sul letto coniugale, al ritorno da una serata in discoteca, che le dichiarazioni dell’imputato sull’episodio sono state fraintese, in quanto l’uomo si è limitato a dire che la persona offesa “non ha fatto niente e non ha detto niente”, e che la stessa non si è allontanata dal letto nemmeno quando l’attuale ricorrente si è recato in bagno per prendere l’olio lubrificante da usare nei giochi erotici, sebbene la porta della stanza non fosse chiusa. Si aggiunge che la frase dell’imputato: “secondo me un no me l’ha anche detto” ha riguardo ad una iniziale ritrosia, poi superata, come dimostra la permanenza della donna nel letto coniugale fino alla mattina successiva. Si osserva, ancora, che la persona offesa ha ammesso di aver avuto un rapporto sessuale consensuale con l’imputato la settimana prima del fatto, ed aveva un preciso movente per accusare l’uomo, quello di punirlo per aver inviato a tutte le utenze presenti nella sua rubrica telefonica un video in cui ella era ripresa in atteggiamenti “equivoci” con un amico. Si espone, quindi, che le dichiarazioni della vittima risultano anche intrinsecamente contraddittorie, perché la stessa, nel corso del controesame, non ha riferito di essere stata afferrata per le braccia, presa a testate ed afferrata per i capelli mentre l’ex-marito la penetrava.
Si rileva, a questo punto, che le spiegazioni offerte dalla sentenza impugnata alle incoerenze sopra evidenziate sono manifestamente illogiche. Si osserva, in particolare, che la Corte d’appello: -) giustifica le omissioni della vittima, in sede di controesame, relativamente alle “apprensioni” coattive e alle testate subite al momento della violenza sessuale, come un “dato neutro”; -) spiega la permanenza a letto della vittima e la sua mancata fuga, mentre l’imputato si recava in bagno a prendere l’olio lubrificante, come conseguenza del suo essere “ancora addormentata” e di non aver compreso le intenzioni dell’imputato; -) ritiene verosimile l’affermazione della donna di essersi accorta di essere sporca di olio solo la mattina seguente, nonostante la stessa, nel corso dell’esame, rispondendo a domanda del Presidente, ha ammesso di essersi avveduta dell’utilizzo del precisato lubrificante da parte dell’imputato in occasione del rapporto sessuale; -) colloca il momento in cui la vittima venne a conoscenza della diffusione, a tutti i contatti della sua rubrica, del video in cui ella era ripresa in atteggiamenti “equivoci” con un amico solo quando era già dai Carabinieri a sporgere denuncia, alle ore 9,00 dell’11 marzo 2019, senza tener conto della molto più verosimile possibilità di essersene avveduta al risveglio o poco dopo, controllando la sua utenza cellulare.
2.2. Con il secondo motivo, si denuncia violazione di legge, in riferimento all’art. 609-bis c.p. e art. 609-ter c.p., comma 1, n. 5, nonché vizio di motivazione, a norma dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), avuto riguardo alla ritenuta sussistenza dell’elemento soggettivo del reato di violenza sessuale.
Si deduce che la sentenza impugnata ha omesso di considerare elementi da cui inferire la mancata percezione, da parte dell’imputato, del dissenso della vittima al rapporto sessuale. Si segnala, in particolare, che la vittima, la sera del fatto in contestazione, aveva reagito timidamente ai primi approcci dell’imputato e, quando questo si era allontanato dalla stanza in cui ella si trovava per andare in bagno a prendere l’olio lubrificante peri giochi erotici, era rimasta a letto e non aveva tentato né di fuggire, né di chiudersi a chiave in quella stanza o nella stanza dei figli, pur avendone la possibilità, restando nell’appartamento per tutta la notte. Si aggiunge che imputato e vittima erano coniugi da circa quindici anni, ed inoltre solo dieci giorni prima avevano avuto un rapporto sessuale consensuale.
2.3. Con il terzo motivo, si denuncia violazione di legge, in riferimento all’art. 572 c.p. e art. 61 c.p., n. 11-quinquies, nonché vizio di motivazione, a norma dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), avuto riguardo alla ritenuta sussistenza del reato di maltrattamenti in famiglia.
Si deduce che la sentenza impugnata ha omesso completamente di valutare se sia ravvisabile l’abitualità delle condotte dell’imputato e non ha indicato perché deve ritenersi accertata una condizione di soggezione della vittima, entrambi elementi costitutivi del reato di maltrattamenti in famiglia (si cita Sez. 3, n. 35997 del 10/11/2020). Si osserva che gli episodi ritenuti rilevanti sono sporadici, come dimostra l’imputazione, la quale ne enuncia solo sei, e, quindi, al più, conservano la loro autonomia di reati contro la persona.
2.4. Con il quarto motivo, si denuncia vizio di motivazione, a norma dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), avuto riguardo alla ritenuta sussistenza dell’elemento soggettivo del reato di maltrattamenti in famiglia.
Si deduce che le condotte accertate nell’istruttoria risultano sorrette da dolo d’impeto, e non certo dalla finalità di infliggere alla vittima abituali sofferenze fisiche o morali, perché si presentano come reazioni a specifici comportamenti della persona offesa percepiti come inadeguati e provocatori. Si rileva, inoltre, che la sentenza impugnata non ha evidenziato una qualche forma di consapevolezza dell’imputato di persistere in un’attività delittuosa idonea a ledere l’interesse protetto dalla norma incriminatrice.
2.5. Con il quinto motivo, si denuncia violazione di legge, in riferimento all’art. 609-bis c.p., u.c., nonché vizio di motivazione, a norma dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), avuto riguardo alla mancata applicazione dell’attenuante della minore gravità del fatto.
Si deduce che la sentenza impugnata esclude l’applicazione dell’attenuante della minore gravità del fatto in ragione della totale indifferenza per il benessere psico-fisico della persona offesa e dei figli dimostrato dell’imputato, omettendo di considerare l’inesistenza di un’iniziale coartazione della volontà della vittima, la modesta rilevanza del danno arrecato alla stessa, ed il contesto in cui è maturato l’evento.
2.6. Con il sesto motivo, si denuncia violazione di legge nonché vizio di motivazione, a norma dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), avuto riguardo alla mancata applicazione, con giudizio di prevalenza, delle circostanze attenuanti generiche.
Si deduce che la sentenza impugnata erroneamente ha ritenuto le ammissioni dell’imputato come non accompagnate da resipiscenza, e, quindi, inidonee a giustificare un giudizio di prevalenza delle circostanze attenuanti generiche sull’aggravante. Si aggiunge che la risposta della Corte d’appello sul punto ricorre ad una espressione di mero stile.
3. Nell’interesse del ricorrente, l’avvocato Passero Giovanni ha presentato anche motivi nuovi, in data 31 marzo 2023, e memoria, in data 4 settembre 2023.
3.1. Nei motivi nuovi, si evidenzia innanzitutto la contraddittorietà della motivazione della sentenza impugnata, che individua un riscontro alle dichiarazioni della persona offesa nelle parole dell’imputato, valutandole però credibili soltanto nelle parti utili a confermare l’affermazione di responsabilità, e non anche nelle altre parti. Si segnala che la scelta di ritenere attendibili solo alcune delle affermazioni dell’imputato non poggia su precisi elementi fattuali ed è manifestamente illogica. Si osserva, poi, che la indicata contraddittorietà attiene ad un profilo centrale della questione, e precisamente alla consensualità o meno del rapporto sessuale.
Nei medesimi motivi nuovi, inoltre, si ribadiscono le censure relative alla mancata concessione dell’attenuante della minore gravità del fatto, sottolineandosi la genericità, e quindi la sostanziale mancanza, della motivazione della sentenza impugnata sul punto (si cita: Sez. 3, n. 9199 del 20/01/2023).
3.2 Nella memoria, si ripropongono e si sviluppano, anche con ulteriori richiami di giurisprudenza (in particolare: Sez. 3, n. 10516 del 06/12/2011, dep. 2012), gli argomenti esposti nei motivi nuovi.
4. Il Procuratore generale presso la Corte di cassazione, in data 19 luglio 2023, ha presentato memoria, nella quale chiede dichiararsi l’inammissibilità del ricorso, illustrando le ragioni poste a fondamento di tale conclusione.
Diritto
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è nel complesso infondato per le ragioni di seguito precisate.
2. Manifestamente infondate, se non diverse da quelle consentite in sede di legittimità, sono le censure esposte nel primo motivo, ed ulteriormente illustrate nei motivi nuovi e nella memoria, le quali contestano l’affermazione di attendibilità delle dichiarazioni della persona offesa in relazione al reato di violenza sessuale, deducendo che la sentenza impugnata è incorsa in errori logici di valutazione nonché in omissioni nel rispondere alle doglianze proposte con l’atto di appello.
2.1. Sotto un profilo generale, va rilevato, per un verso, che il giudizio di responsabilità si può fondare anche sulle sole dichiarazioni della persona offesa, se giudicate attendibili, e, sotto altro lato, che il controllo in sede di legittimità sul giudizio di attendibilità di tali dichiarazioni è estremamente limitato.
Con riguardo al primo aspetto, occorre considerare che secondo quanto affermato anche dalla giurisprudenza delle Sezioni Unite, le regole dettate dall’art. 192 c.p.p., comma 3, non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell’affermazione di penale responsabilità dell’imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve in tal caso essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone (così, per tutte, Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012 Bell’Arte, Rv. 253214-01, nonché Sez. 4, n. 410 del 09/11/2021, dep. 2022, Aramu, Rv. 28258-01).
Relativamente al secondo profilo, poi, deve segnalarsi che costituisce principio ampiamente consolidato quello in forza del quale, in tema di valutazione della prova testimoniale, l’attendibilità della persona offesa dal reato è questione di fatto, non censurabile in sede di legittimità, salvo che la motivazione della sentenza impugnata sia affetta da manifeste contraddizioni, o abbia fatto ricorso a mere congetture, consistenti in ipotesi non fondate sullo id quod plerumque accidit, ed insuscettibili di verifica empirica, od anche ad una pretesa regola generale che risulti priva di una pur minima plausibilità (cfr., tra le tantissime, Sez. 4, 10153 del 11/02/2020, C., Rv. 278609-01, e Sez. 2, n. 7667 del 29/01/2015, Cammarota, Rv. 262575-01, ma anche Sez. 5, n. 51604 del 19/09/2017, D’Ippedico, Rv. 271623-01).
2.2. La sentenza impugnata espone in dettaglio il contenuto delle dichiarazioni della persona offesa, anche con specifico riferimento al fatto delittuoso di violenza sessuale, e le ragioni per le quali ritiene le stesse attendibili.
La Corte d’appello, in particolare, rappresenta che, secondo il racconto della vittima, l’imputato, nel quadro di un contesto diffuso di condotte di maltrattamenti in famiglia, la sera del 10 marzo 2019 costrinse la moglie a subire, contro la sua volontà, un rapporto sessuale, penetrandola in vagina senza preservativo, dopo averla afferrata per le braccia e per i capelli e presa a testate, mentre la stessa piangeva, utilizzando inoltre un lubrificante, prelevato nel bagno mentre la donna era a letto.
Il Giudice distrettuale indica, innanzitutto, due elementi a suo avviso di rilevantissima efficacia confermativa delle dichiarazioni della persona offesa: 1) l’ammissione dell’imputato di aver volontariamente danneggiato l’auto in uso alla persona offesa, così evidenziando la non necessità per questa di inventare calunnie; 2) l’ammissione dell’imputato di aver agito nonostante un apparente dissenso della moglie (“espressamente lei non aveva voglia di avere quel rapporto”; “io esattamente che ha detto di no non lo posso negare in questo momento, secondo me un no me l’ha anche detto”).
Rappresenta, poi, che non emergono apprezzabili discrasie nelle dichiarazioni della persona offesa. In primo luogo, rileva che l’avere la donna riferito di essere stata afferrata per le braccia e per i capelli e presa a testate soltanto in sede di esame, senza ribadire la circostanza anche durante il controesame, è un dato neutro. In secondo luogo, osserva che l’essere la donna rimasta a letto quando il marito si è recato in bagno per prelevare l’olio lubrificante è vicenda spiegata in termini ragionevoli, e cioè con la circostanza di essere ancora addormentata; del resto, l’imputato ha ammesso di aver utilizzato il lubrificante proprio per difetto di “complicità” della moglie (ha dichiarato: “perché in un rapporto sessuale quando non c’e’ complicità da parte dell’uomo o della donna, se non c’e’ un mezzo di lubrificazione diventa molto complicato avere un rapporto sessuale… sentimentalmente non era pronta per avere un rapporto sessuale”). In terzo luogo, segnala che l’essere la donna rimasta a casa dopo aver subito la violenza è scelta ragionevolmente spiegabile con l’esigenza di non abbandonare i figli nel cuore della notte, e con l’assenza di sistemazioni alternative prontamente reperibili.
Evidenzia, quindi, che deve escludersi un intento calunniatorio sorto, come asserito dall’imputato, per “ripicca” causata dall’invio da parte dell’uomo di video e fotografie ritraenti la persona offesa in situazioni di intimità o di particolare disagio a tutti i contatti telefonici della stessa. Rileva, in proposito, che questo invio avvenne la mattina successiva alla violenza sessuale, mentre la donna era dai Carabinieri a presentare la denuncia, e la medesima riuscì a ricostruire le modalità di tale azione lesiva soltanto, e proprio, grazie all’aiuto dei militari.
Rileva, infine, che la vittima presentava segni compatibili con un’aggressione sessuale, rilevati e refertati da un medico poi escusso a dibattimento.
2.3. Le conclusioni della sentenza impugnata sono immuni da vizi.
La Corte d’appello, infatti, offre una spiegazione del proprio convincimento sulla base di accettabili massime di esperienza e di elementi di fatto precisi e congrui rispetto alle conclusioni raggiunte. Ne’ risultano lacune motivazionali.
In particolare, sulla base degli elementi esposti è correttamente spiegato perché non è credibile la tesi alternativa prospettata dall’imputato, secondo cui, la donna, dopo una iniziale ritrosia, avrebbe poi consentito al rapporto sessuale.
3. Manifestamente infondate, se non diverse da quelle consentite in sede di legittimità, sono anche le censure formulate nel secondo motivo, le quali contestano l’affermazione della ritenuta sussistenza dell’elemento soggettivo.
Pur volendo ammettere, in linea di principio, la configurabilità della scriminante del consenso putativo nel reato di violenza sessuale (cfr., per la tesi negativa, Sez. 3, n. 2400 del 05/10/2017, dep. 2018, S., Rv. 272074-01, e, per la soluzione favorevole, Sez. 3, n. 52835 del 19/06/2018, P., Rv. 274417-03), deve comunque rilevarsi che la sentenza impugnata esclude l’esistenza di tale situazione alla luce di un corretto apprezzamento dei fatti come da essa ricostruiti.
La Corte d’appello, infatti, esclude qualunque ipotizzabilità, in concreto, di un supposto consenso della vittima all’atto sessuale, posto che la donna fu costretta a subire una penetrazione vaginale dopo essere stata afferrata per le braccia, tirata per i capelli, presa a testate, e mentre piangeva, così manifestando apertamente il proprio dissenso.
4. Manifestamente infondate, e in parte prive di specificità, sono le censure esposte nel terzo motivo, che contestano la ritenuta sussistenza del reato di maltrattamenti in famiglia, deducendo che non è spiegato perché vi sarebbe un’abitualità di condotte maltrattanti, e che si è omesso di considerare come la vittima non versasse in stato di soggezione.
4.1. Per una puntuale risposta alle questioni appena sintetizzate, è utile indicare i principi elaborati dalla giurisprudenza, ampiamente consolidata in proposito, sulla nozione di abitualità delle condotte maltrattanti ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 572 c.p., e sullo stato di soggezione che deve affliggere la vittima di tali condotte.
Indubbiamente, ai fini della configurabilità del reato abituale di maltrattamenti in famiglia, è richiesto il compimento di atti che non siano sporadici e manifestazione di un atteggiamento di contingente aggressività, occorrendo una persistente azione vessatoria idonea a ledere la personalità della vittima (così, per tutte, Sez. 6, n. 6126 del 19/10/2018, dep. 2019, C., Rv. 275033-01). Tuttavia, non è necessario che gli atti vessatori, implicanti sofferenze fisiche o morali, vengano posti in essere per un tempo prolungato, essendo, invece, sufficiente la loro ripetizione, anche se in un limitato contesto temporale, e non rilevando, data la natura abituale del reato, che durante lo stesso siano riscontrabili nella condotta dell’agente periodi di normalità e di accordo con il soggetto passivo (cfr., tra le tante, Sez. 3, n. 6724 del 22/11/2017, D.L., Rv. 272452-01, e Sez. 6, n. 25183 del 19/06/2012, R., Rv. 253041-01).
Per quanto riguarda, poi, lo stato di soggezione che deve affliggere la vittima, è costante l’insegnamento secondo cui, in tema di maltrattamenti in famiglia, a fronte di condotte abitualmente vessatorie, che siano concretamente idonee a cagionare sofferenze, privazioni ed umiliazioni, il reato non è escluso per effetto della maggiore capacità di resistenza dimostrata dalla persona offesa, non essendo elemento costitutivo della fattispecie incriminatrice la riduzione della vittima a succube dell’agente (v., tra le altre, Sez. 6, n. 809 del 17/10/2022, dep. 2023, P., Rv. 284107-01, e Sez. 3, n. 46043 del 20/03/2018, C., Rv. 274519-02).
4.2. La sentenza impugnata riporta molteplici episodi maltrattanti realizzati dall’imputato nel periodo di circa sei mesi, dal gennaio al giugno 2019.
La Corte d’appello premette che gli episodi maltrattanti sono numerosi, e non certo solo sei, come indicato dalla difesa, alla luce di quanto indicato nell’imputazione, e si caratterizzano per notevole gravità. Innanzitutto, secondo quanto espone la sentenza impugnata, l’imputato si è reso responsabile di lesioni personali che hanno comportato il ricovero in ospedale della vittima per ben due volte, il 14 febbraio 2019, ed il 23 aprile 2019, risultate guaribili in dieci giorni, e la cui sussistenza non è stata in concreto contestata nemmeno in sede di gravame, e della violenza sessuale del 10 marzo 2019. La Corte distrettuale, inoltre, rappresenta che l’imputato: a) con cadenza pressoché quotidiana, nel periodo in esame, ha pedinato la moglie, o comunque controllato la stessa mediante dispositivi elettronici; b) più volte ha filmato la donna in momenti di intimità ed in una occasione ha divulgato queste immagini a tutti i contatti telefonici della stessa; c) numerose volte ha ingiuriato, minacciato o denigrato la vittima anche davanti ai figli minorenni, e, sempre davanti agli stessi, ha realizzato ripetute condotte finalizzate arrecare disagi e disturbi, consistite nell’asportare, manomettere o danneggiare suppellettili ed apparecchiature presenti nella casa familiare; d) in data 6 giugno 2019, ha volontariamente danneggiato l’automobile in uso alla vittima; e) in data 28 giugno 2019, si è introdotto nell’abitazione della vittima in violazione della misura del divieto di avvicinamento, notificatagli il precedente 8 giugno, ed è stato arrestato per tale fatto. Il Giudice di secondo grado, inoltre, sottolinea che molti di questi episodi, come quello relativo alla estesa divulgazione delle immagini della moglie nuda, o quello concernente il danneggiamento della vettura della stessa, sono stati espressamente ammessi dall’attuale ricorrente. Aggiunge che una ulteriore conferma della realizzazione di tali condotte è offerta dai referti medici, dalle dichiarazioni delle amiche della persona offesa, le quali hanno raccontato delle confidenze ricevute dalla stessa, nonché ancora dalle dichiarazioni della dipendente dell’albergo in cui si è verificata l’aggressione del 14 febbraio 2019, determinativa anche di lesioni personali guaribili in dieci giorni.
La Corte d’appello conclude che, così agendo, l’imputato ha procurato alla vittima maltrattamenti, sottomissioni e sofferenze particolarmente gravi, mostrando “senso di prevaricante superiorità ed inarrestabile volontà di dominio”.
4.3. Le conclusioni della sentenza impugnata sono immuni da vizi.
Innanzitutto, il ricorrente non si confronta compiutamente con il diffuso quadro di condotte maltrattanti evidenziate dalla Corte distrettuale, ma, del tutto assertivamente, tenta di ridurne il numero.
Ciò posto, i fatti ricostruiti puntualmente dai giudici di merito costituiscono sicuramente atti vessatori posti in essere per un tempo prolungato, i quali hanno comportato gravi sofferenze fisiche e morali per la vittima.
5. Manifestamente infondate sono le censure enunciate nel quarto motivo, che contestano la ritenuta sussistenza dell’elemento soggettivo necessario per la configurabilità del reato di maltrattamenti in famiglia, deducendo che la sentenza impugnata non ha evidenziato la consapevolezza e volontà dell’imputato di infliggere alla vittima abituali sofferenze fisiche o morali.
Invero, secondo il principio assolutamente consolidato in giurisprudenza, condiviso dal Collegio, nel delitto di maltrattamenti in famiglia, il dolo non richiede la sussistenza di uno specifico programma criminoso, verso il quale sia finalizzata, fin dalla loro rappresentazione iniziale, la serie di condotte tale da cagionare le abituali sofferenze fisiche o morali della vittima, essendo, invece, sufficiente la sola consapevolezza dell’autore del reato di persistere in un’attività vessatoria, già posta in essere in precedenza, idonea a ledere la personalità della vittima (così, per tutte, Sez. 1, n. 13013 del 28/01/2020, O., Rv. 279326-01, e Sez. 3, n. 1508 del 16/10/2018, dep. 2019, C., Rv. 274341-02).
E, nella specie, così come puntualmente riportato in precedenza al p. 4.2, la sentenza impugnata ha dato conto di una impressionate pluralità di atti maltrattanti, commessi in continua successione tra di loro, e tutti connotati da piena consapevolezza. Risulta quindi implicito, ma chiarissimo, come la Corte d’appello abbia evidenziato la consapevolezza dell’autore del reato in ordine a tutte le condotte compiute, e, quindi, al momento di compiere quelle successive alla prima, di persistere in un’attività vessatoria, già realizzata in precedenza, idonea a ledere la personalità della vittima.
6. Infondate sono le censure proposte con il quinto motivo, ed ulteriormente illustrate nei motivi nuovi e nella memoria, le quali contestano il diniego della circostanza attenuante della minore gravità del fatto, deducendo, in particolare, l’omessa considerazione della modesta rilevanza del danno arrecato e del contesto in cui il reato di violenza sessuale è stato commesso.
Costituisce principio assolutamente consolidato in giurisprudenza quello secondo cui in tema di violenza sessuale, ai fini della configurabilità della circostanza attenuante del fatto di minore gravità, prevista dall’art. 609-bis c.p., comma 3, deve farsi riferimento ad una valutazione globale del fatto, nella quale assumono rilievo i mezzi, le modalità esecutive, il grado di coartazione esercitato sulla vittima, le condizioni fisiche e mentali di questa” le caratteristiche psicologiche valutate in relazione all’età, così da potere ritenere che la libertà sessuale sia stata compressa in maniera non grave, così come il danno arrecato alla vittima anche in termini psichici (cfr., per tutte, Sez. 3, n. 50336 del 10/10/2019, L., Rv. 277615-01, e Sez. 3, n. 19336 del 27/03/2015, G., Rv. 263516-01).
La Corte d’appello, nel caso di specie, ha fatto corretta applicazione di tale principio, perché ha ritenuto la particolare gravità dell’episodio di violenza sessuale, siccome lo stesso deve essere collocato nel quadro di una più ampia azione lesiva di maltrattamento. Ed effettivamente si tratta di valutazione immune da vizi, in quanto riconosce la gravità del fatto perché l’offesa della libertà sessuale della vittima, culminata con un rapporto vaginale, è avvenuta anche mediante percosse e lesioni personali, ed in contesto complessivo volto a mortificare in modo articolato, fisicamente e psicologicamente, la persona offesa.
7. Diverse da quelle consentite e prive di specificità, infine, sono le censure enunciate nel sesto motivo, che contestano la mancata applicazione, con giudizio di prevalenza, delle circostanze attenuanti generiche, deducendo che erroneamente la sentenza impugnata ha escluso la resipiscenza dell’imputato nel rendere le sue ammissioni.
Occorre premettere che, secondo un principio espresso anche dalle Sezioni Unite, le statuizioni relative al giudizio di comparazione tra opposte circostanze, implicando una valutazione discrezionale tipica del giudizio di merito, sfuggono al sindacato di legittimità qualora non siano frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico e siano sorrette da sufficiente motivazione, tale dovendo ritenersi quella che, per giustificare la soluzione dell’equivalenza1 si sia limitata a ritenerla la più idonea a realizzare l’adeguatezza della pena irrogata in concreto (Sez. U, n. 10713 del 25/02/2010, Contaldo, Rv. 245931-01).
Nella specie, la sentenza impugnata non solo ha addotto a fondamento del giudizio di equivalenza, invece che di prevalenza, delle circostanze attenuanti generiche rispetto all’aggravante di cui all’art. 609-ter c.p., comma 1, n. 5-quater, il difetto di resipiscenza, ma anche, e segnatamente evidenziato, la particolare gravità delle condotte poste in essere dall’imputato.
8. Alla complessiva infondatezza delle censure segue il rigetto del ricorso e la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Dispone, a norma del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 52, che – a tutela dei diritti o della dignità degli interessati – sia apposta, a cura della cancelleria, sull’originale del provvedimento, un’annotazione volta a precludere, in caso di riproduzione della presente sentenza in qualsiasi forma, l’indicazione delle generalità e di altri dati identificativi degli interessati riportati sulla sentenza.
Così deciso in Roma, il 19 settembre 2023.
