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Cassazione penale sez. III, 16/04/2021, n.18155

Massima

In tema di stupefacenti, la fattispecie di lieve entità di cui all’art. 73, comma 5, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 e la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto ex art. 131-bis c.p. sono fattispecie strutturalmente e teleologicamente non coincidenti, atteso che, mentre ai fini della concedibilità della prima il giudice è tenuto a valutare i mezzi, le modalità e le circostanze dell’azione nonché la quantità e la qualità delle sostanze stupefacenti oggetto della condotta criminosa, ai fini del riconoscimento della causa di non punibilità devono invece essere considerate le modalità della condotta, il grado di colpevolezza da esse desumibile, l’entità del danno o del pericolo, nonché il carattere non abituale della condotta.

Supporto alla lettura

Definizione: Nel nostro ordinamento giuridico, la detenzione di sostanze stupefacenti è sanzionata dal DPR n. 309/1990, ed in particolare dall’articolo 73, per il caso di detenzione ai fini di spaccio e dall’art.75, per il caso di detenzione al fine di utilizzo personale.
All’interno della fattispecie ex art 73 dpr 309 del 90 che punisce il reato di spaccio di droga pena è ridotta in due casi: quando si tratta di droghe leggere e, nel caso dell’art 73 comma 5, quando è ravvisabile il fatto di lieve entità, comunemente conosciuto come “piccolo spaccio”.
La premessa da fare, pertanto, è che in Italia il possesso di sostanze stupefacenti, anche di quantità minime, a prescindere dall’uso personale di droga o meno, non è consentito dalla legge, quindi comunque si va incontro a sanzioni, nei casi più gravi, di natura penale, nei casi meno gravi, di natura amministrativa. La detenzione di sostanza stupefacente per uso personale non è reato, ma un illecito amministrativo. Ciononostante le conseguenze per colui il quale sia trovato in possesso di droga non sono da poco: sarà compromessa la patente di guida (saranno obbligatori esami tossicologici per valutare la persistenza della idoneità alla guida), il porto d’armi, il permesso di soggiorno, il passaporto e la carta di identità per l’espatrio.

Ambito oggettivo di applicazione

RITENUTO IN FATTO

  1. Con l’impugnata sentenza, in parziale riforma della decisione emessa dal Tribunale di Roma all’esito del giudizio abbreviato e appellata dagli imputati, la Corte di appello di Roma riduceva la pena inflitta nei confronti di O.S. e di L.C., nel resto confermando la pronuncia di primo grado, che aveva affermato la penale responsabilità dei predetti e di D.I. in relazione al delitto di cui all’art. 110 c.p., D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, per aver detenuto, in concorso tra loro, gr. 23 di marijuana, pari a complessive 47 dosi.
  2. Avverso l’indicata sentenza, il solo D.I., per il tramite del difensore di fiducia, propone ricorso per cassazione, affidato a tre motivi.

2.1. Con il primo motivo si deduce l’errata applicazione della legge penale in relazione all’art. 131-bis c.p.. Assume il ricorrente che, nella specie, la Corte territoriale avrebbe erroneamente negato i presupposti per l’applicazione della causa di non punibilità in esame, presupposti che, invece, sarebbero sussistenti, in relazione al modesto quantitativo di sostanza stupefacente e alla rudimentalità e occasionalità della condotta, come ritenuto dal Tribunale, e considerando che l’unico precedente penale a carico del D. riguarda una condanna per i reati di cui agli artt. 337 e 341-bis c.p. e art. 186-bis C.d.S., reati che sono ontologicamente non omogenei rispetto al contestato delitto D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 73, comma 5, e, quindi, non possono qualificarsi “reati della stessa indole”.

2.2. Con il secondo motivo si eccepisce il vizio di motivazione in relazione alla dosimetria della pena, inflitta in misura superiore al minimo edittale senza tener conto della minima offensività del fatto, e considerando che all’imputato sono state riconosciute le circostanze attenuanti generiche.

2.3. Con il terzo motivo si censura l’errata applicazione ed interpretazione della legge penale in riferimento all’art. 62 c.p., n. 4, avendo la Corte territoriale disatteso l’orientamento espresso dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 24990 del 2020, e considerando, nella vicenda in esame, la speciale tenuità sia del lucro, sia dell’evento pericoloso.

 

CONSIDERATO IN DIRITTO

  1. Il ricorso é fondato in relazione al terzo motivo.
  2. Il primo motivo é manifestamente infondato.

2.1. La speciale causa di non punibilità prevista dall’art. 131 bis c.p., applicabile, ai sensi del comma 1, ai soli reati per i quali é prevista una pena detentiva non superiore, nel massimo, a cinque anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta – é configurabile in presenza di una duplice condizione, essendo congiuntamente richieste la particolare tenuità dell’offesa e la non abitualità del comportamento.

Il primo dei due requisiti richiede, a sua volta, la specifica valutazione della modalità della condotta e dell’esiguità del danno o del pericolo, da valutarsi sulla base dei criteri indicati dall’art. 133 c.p., cui segue, in caso di vaglio positivo – e dunque nella sola ipotesi in cui si sia ritenuta la speciale tenuità dell’offesa -, la verifica della non abitualità del comportamento, che il legislatore esclude nel caso in cui l’autore del reato sia stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza, ovvero abbia commesso più reati della stessa indole, anche se ciascun fatto, isolatamente considerato sia di particolare tenuità, nonché nel caso in cui si tratti di reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate.

2.2. Con riferimento, in particolare, alla speciale tenuità dell’offesa, come affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte, il giudizio sulla tenuità del fatto richiede una valutazione complessa che prenda in esame tutte le peculiarità della fattispecie concreta riferite alla condotta in termini di possibile disvalore e non solo di quelle che attengono all’entità dell’aggressione del bene giuridico protetto, che comunque ricorre senza distinzione tra reati di danni e reati di pericolo (Sez. U, n. 13681 del 25/02/2016 – dep. 06/04/2016, Tushaj, Rv. 266590).

2.3. Nel caso in esame, con apprezzamento fattuale logicamente motivato la Corte di merito ha escluso la qualificabilità dell’offesa come “di particolare tenuità” in considerazione del peso complessivo dello stupefacente sequestrato, pari a circa 24 gr., da cui erano ricavabili quarantasette dosi singole: un quantitativo sì modesto, ma non del tutto marginale.

2.4. Si osserva, infine, che non vi é alcuna sovrapposizione tra la fattispecie di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5 e la causa di non punibilità delineata dall’art. 131-bis c.p., sussistendo tra le due disposizioni un rapporto di gravità decrescente, come nitidamente emerge dalle espressioni impiegate dal legislatore: “lieve entità” del fatto in un caso, “particolare tenuità” dell’offesa nell’altro, in omaggio all’impianto gradualista utilizzato dal legislatore nel modellare la risposta punitiva.

La fattispecie di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, difatti, é stata introdotta dal Legislatore al fine di “rendere la risposta repressiva in materia di stupefacenti compatibile con i principi di offensività e proporzionalità, nella consapevolezza del carattere variegato e mutante del fenomeno criminale cui si rivolge” (Sez. U, n. 51063 del 27/09/2018, Murolo, in motivazione); l’accertamento della lieve entità del fatto implica perciò “una valutazione complessiva degli elementi della fattispecie concreta, selezionati in relazione a tutti gli indici sintomatici previsti dalla disposizione” (Sez. U, n. 51063 del 27/09/2018, Murolo, Rv. 274076).

La causa di non punibilità ex art. 131-bis c.p., inserita nell’ambito delle determinazioni che il giudice assume in relazione alla pena, presuppone – oltre ad una serie di requisiti di natura soggettiva riassumibili nella non abitualità della condotta – un reato perfezionato in tutti i suoi elementi costitutivi, ma immeritevole di pena, e dunque postula che la condotta, pur connotata da offensività, sia particolarmente esigua, la quale, dunque, pur all’interno del perimetro della tipicità, si pone in un gradino più basso rispetto alla valutazione della “lieve entità” del fatto, considerata dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5.

Questa Corte, del resto, ha già affermato il principio, che il Collegio condivise, secondo cui, in tema di stupefacenti, la fattispecie di lieve entità di cui al D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, comma 5 e la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto ex art. 131-bis c.p., sono fattispecie strutturalmente e teleologicamente non coincidenti, atteso che, mentre ai fini della concedibilità della prima il giudice é tenuto a valutare i mezzi, le modalità e le circostanze dell’azione nonché la quantità e la qualità delle sostanze stupefacenti oggetto della condotta criminosa, ai fini del riconoscimento della causa di non punibilità devono essere considerate le modalità della condotta, il grado di colpevolezza da esse desumibile e l’entità del danno o del pericolo ed altresì il carattere non abituale della condotta (Sez. 4, n. 48758 del 15/07/2016, dep. 17/11/2016, Giustolisi, Rv. 268258).

  1. Il secondo motivo é inammissibile.

3.1. Va osservato che la graduazione della pena rientra nella discrezionalità del giudice di merito, che la esercita in aderenza ai principi enunciati negli artt. 132 e 133 c.p.; non. é perciò consentita la censura che, nel giudizio di cassazione, miri ad una nuova valutazione della congruità della pena la cui determinazione non sia frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico e sia sorretta da sufficiente motivazione. Peraltro, l’impegno motivazionale da parte del giudice é direttamente proporzionale all’entità della pena inflitta: quanto più il giudice intenda discostarsi dal minimo edittale, tanto più ha il dovere di dare ragione del corretto esercizio del proprio potere discrezionale, indicando specificamente, fra i criteri oggettivi e soggettivi enunciati dall’art. 133 c.p., quelli ritenuti rilevanti ai fini di tale giudizio. (Sez. 6, n. 35346 del 12/06/2008 – dep. 15/09/2008, Bonarrigo e altri, Rv. 241189). Di conseguenza, nell’ipotesi in cui la determinazione della pena non si discosti eccessivamente dai minimi edittali, il giudice ottempera all’obbligo motivazionale di cui all’art. 125 c.p.p., comma 3, anche ove adoperi espressioni come “pena congrua”, “pena equa”, “congruo aumento”, ovvero si richiami alla gravità del reato o alla personalità del reo (Sez. 3, n. 33773 del 29/05/2007 – dep. 03/09/2007, Ruggieri, Rv. 237402).

3.2. Nel caso di specie, la pena base é stata individuata nella misura mediana all’interno della forbice edittale della fattispecie di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, e ciò, come chiarito dai giudici di merito, in ragione della concreta offensività del fatto, ossia alla detenzione di un quantitativo non minimo, pari a 47 dosi medie singole, da parte di tre soggetti in una forma pur rudimentalmente organizzata.

Si tratta di una motivazione non manifestamente illogica e, quindi, non sindacabile in questa sede di legittimità.

  1. Il terzo motivo é fondato.

Invero, la Corte territoriale, senza esaminare il merito della questione, si é appellata a quell’orientamento espresso dalla giurisprudenza di legittimità, che ritiene astrattamente incompatibile la circostanza attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 4, con la fattispecie di reato prevista dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5: orientamento superato dalla recente sentenza dalle Sezioni Unite di questa Corte (SU n. 24990 del 30/01/2020, dep. 02/09/2020, Dabo, Rv. 279499-01), la quale ha affermato l’opposto principio, in forza del quale l’attenuante in parola é applicabile, indipendentemente dalla natura giuridica del bene oggetto di tutela, ad ogni tipo di delitto commesso per un motivo di lucro, ivi compresi i delitti in materia di stupefacenti, tra cui la fattispecie D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 73, comma 5.

Se, dunque, non é vi alcuna incompatibilità logica tra il riconoscimento della circostanza ex art. 62 c.p., n. 4 e la fattispecie prevista dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, la sussistenza, nel singolo caso concreto, dei presupposti integranti l’indicata attenuante é , evidentemente, una questione di fatto, la cui valutazione spetta al giudice di merito.

  1. Ne deriva che la sentenza impugnata deve essere annullata limitatamente all’applicabilità della circostanza ex art. 62 c.p., n. 4, con rinvio ad altra Sezione della Corte di appello di Roma per nuovo esame sul punto.

 

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata limitatamente all’applicabilità della circostanza attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 4 e rinvia per nuovo giudizio sul punto ad altra Sezione della Corte di appello di Roma. Dichiara inammissibile nel resto il ricorso.

Così deciso in Roma, il 17 dicembre 2020.

 

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