RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza emessa in data 03/07/2019, depositata il 10.07.2019, la Corte di appello di Milano confermava la sentenza del Tribunale di Milano – Ufficio del Giudice per le indagini preliminari- dell’08.02.2018 (nr. 18/344) emessa a seguito di giudizio abbreviato, con la quale (omissis) veniva dichiarato colpevole del reato di cui all’art. 600ter, co.4, 602ter, co.7, c.p., in continuazione, e considerata la diminuzione per l’attenuante del risarcimento del danno e l’aumento ex art. 81 c.p., applicata la diminuente per il rito, veniva condannato alla pena di un anno e otto mesi di reclusione ed € 2.600 di multa, oltre alle spese processuali.
2. Ha proposto ricorso per cassazione il (omissis), a mezzo del difensore fiduciario cassazionista, deducendo otto motivi, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
2.1. Deduce il ricorrente, con il primo motivo, il vizio di cui all’art. 606, lett. c) ed e) c.p.p., in relazione all’art. 191 c.p.p., per omessa motivazione in relazione alla violazione dell’art. 14, co.2, L. n. 269/1998 e per travisamento della prova in riferimento all’art. 14 L. n. 269/1998.
La Corte di appello avrebbe erroneamente assimilato la disciplina relativa alla attività di contrasto prevista dall’art. 14 L. n. 269/98 con quella afferente l’utilizzabilità, anche in procedimenti diversi da quello in cui sono state disposte, delle intercettazioni telefoniche e telematiche di cui all’art. 270 c.p.p.
Tuttavia, sostiene la difesa, con l’attività di intercettazione di comunicazioni telefoniche o telematiche la polizia giudiziaria si limiterebbe a captare le conversazioni che avvengono tra soggetti terzi, senza svolgere alcun ruolo attivo di provocazione, mentre con l’attività di contrasto di cui all’art. 14 L. n. 269/98 la polizia giudiziaria è autorizzata, limitatamente ai reati indicati dalla stessa legge, a svolgere un vero e proprio ruolo di agente provocatore. Tale ultima disposizione, avendo un carattere eccezionale, potrebbe trovare applicazione solo entro i limiti e secondo le procedure determinate ex lege. Da ciò conseguirebbe, ad avviso del ricorrente, la illegittimità dell’argomentazione espressa dal giudice di secondo grado ove ha ritenuto possibile individuare nell’art. 270 c.p.p. la giustificazione dell’estensione dell’attività di contrasto di cui all’art. 14 all’illecito contestato al (omissis) ex art. 600ter, co.4, c.p., assumendo che i procedimenti generati dalle fattispecie di cui all’art. 600ter, commi 1, 2, 3 e 4, c.p. non potessero ricomprendersi nel concetto di “procedimento diverso”. Qualsiasi applicazione analogica dell’art. 14 L. n. 269/98 dovrebbe ritenersi assolutamente vietata ai sensi dell’art. 14 preleggi e.e.
2.1.1. La valutazione di legittimità dell’attività di indagine svolta, secondo la Corte di appello di Milano, dovrebbe essere compiuta ex ante, con riferimento all’ipotesi di reato configurabile al momento in cui la medesima è stata autorizzata. Non rileverebbe, pertanto, che durante l’attività di contrasto gli organi inquirenti abbiano contestato al (omissis) l’art. 600ter, co.4, c.p., essendo stata attivata l’indagine per la ricerca di uno dei reati tassativamente indicati dall’art. 14 L. n. 269/98. Tuttavia, secondo il ricorrente, il giudice del gravame non avrebbe tenuto conto delle doglianze esposte nell’atto di appello, limitandosi a ribadire quanto affermato in primo grado, senza esperire la doverosa attività di critica. Non sarebbe stata fornita motivazione in ordine alle ragioni per le quali si è ritenuto di acquisire per relationem le argomentazioni fondanti la decisione del giudice di prime cure. La motivazione mancherebbe anche relativamente alla dedotta violazione dell’art. 14 L. n. 269/98. Nessuna risposta avrebbe avuto la doglianza con la quale la difesa aveva rilevato come fosse possibile utilizzare legittimamente le risultanze delle indagini esperite ai sensi dell’art. 14 L. n. 269/98 ove fosse stata accertata la sussistenza, al momento dell’autorizzazione, di indizi gravi a carico del (omissis) riferimento ai reati indicati tassativamente dal medesimo articolo. La difesa evidenzia, inoltre, che, all’epoca dell’avvio dell’attività di contrasto, rispetto al (omissis) non sarebbero sussistiti sospetti in ordine agli illeciti di cui all’art. 14, risultando anche iscritto nel registro degli indagati solo in data 17.3.2015. La Corte di appello non avrebbe fornito alcuna motivazione relativamente alla inesistenza della condizione imprescindibile per conservare le risultanze probatorie, ossia la necessità che il soggetto interessato fosse originariamente indagato per almeno uno dei reati previsti nella L. n. 269/98. Considerato che elementi di prova a carico del (omissis) sarebbero stati acquisiti mediante un’attività, secondo il ricorrente, illegittima, in quanto eccedente i limiti di cui all’art. 14 suddetto, la Corte di appello avrebbe errato nel ritenere tali prove utilizzabili, avallando la pronuncia di primo grado.
2.1.2. La legittimità della procedura seguita nei diversi e più ampi procedimenti non potrebbe riversare automaticamente i propri effetti in quello a carico del (omissis) soggetto originariamente non indiziato e rispetto al quale non sarebbe possibile procedere ad una estensione delle risultanze probatorie raccolte per gli altri più gravi reati nei confronti di altri soggetti. Ad avviso del ricorrente, infatti, qualora attraverso l’attività di contrasto di cui all’art. 14, vengano scoperti reati diversi da quelli per il cui accertamento l’attività stessa era indirizzata, gli elementi probatori relativi a tali illeciti non potrebbero comunque essere utilizzati. Nel caso di specie lo scambio da parte del I di materiale pedopornografico non sarebbe stato scoperto nel corso di una attività di indagine finalizzata a rilevare ipotesi ex art. 600ter, co.4, c.p., bensì a seguito di una attività di agente provocatore che sarebbe divenuta illecita nel momento in cui è stata indirizzata all’accertamento di reati diversi da quelli tassativamente previsti dall’art. 14 L. n. 269/98.
2.2. Deduce il ricorrente, con il secondo motivo, il vizio di cui all’art. 606, lett. e) c.p.p., per omessa motivazione in relazione alla violazione dell’art.6 CEDU, per incitamento e induzione alla commissione del reato p. e p. dall’art. 600ter, co.4, c.p.p.
La Corte di appello di Milano avrebbe errato nel ritenere provata una premessa assolutamente indimostrata, ossia che il (omissis) fosse un abituale utilizzatore di materiale pedopornografico, superando l’eccezione difensiva circa l’incitamento e l’induzione alla commissione di reati ex art. 600 ter, co.4, c.p., limitandosi a formulare un enunciato assertivo privo di sostegno evidenziale, con conseguente travisamento della prova, avendo assunto come esistente una condotta non provata. Il ricorrente censura la mancanza di motivazione relativamente all’accertamento ed alla valutazione della condotta tenuta dall’agente provocatore al fine di vagliarne la positiva conformità ai principi fondamentali espressi dalla Corte Edu e, nello specifico, l’attuazione della procedura but-for test of causation. Quest’ultima impone di verificare: a) se vi fossero o meno sospetti circa una pregressa attività criminosa del ricorrente; b) se siano stati gli agenti a prendere l’iniziativa e a contattare il ricorrente; c) se abbiano rinnovato l’offerta dopo il primo rifiuto o se abbiano insistito. La Corte Edu ritiene agente provocatore colui il quale esercita una influenza causale sui soggetti con i quali entra in contatto, tanto da determinarli alla commissione di un reato che, altrimenti, non avrebbero commesso. Nel caso di specie, sostiene il ricorrente, la condotta di istigazione dell’agente sarebbe resa evidente dal fatto che lo stesso avrebbe per primo contattato il (omissis), considerato anche il contenuto delle conversazioni chat dalle quali emergerebbe l’efficienza causale dell’attività dell’agente. La condotta del provocatore non dovrebbe assumere una rilevanza causale nel fatto commesso dal provocato, suscitando un intento delittuoso prima inesistente, il che si sarebbe invece verificato nella fattispecie oggetto di esame.
La sentenza sarebbe pertanto viziata in quanto non sarebbe stata valutata la conformità all’art. 6 CEDU della attività posta in essere dall’agente provocatore, né sarebbe stato effettuato il but-for test of causation, ritenendo inesistenti evidenze probatorie (contatto; conversazioni chat) le quali avrebbero dimostrato come la condotta della Polizia postale ex art. 14 L. n. 269/98 si sarebbe tradotta in un illegittimo incitamento ed induzione alla commissione di reati pedopornog rafici.
2.3. Deduce il ricorrente, con il terzo motivo, il vizio di cui all’art. 606, lett. c) c.p.p., in relazione all’art. 438, co.5, c.p.p. e in riferimento al combinato disposto degli artt. 178, lett. c) e 180 c.p.p.
La difesa sostiene la nullità del giudizio abbreviato per difetto dell’integrazione probatoria richiesta dall’imputato ed alla quale l’avvio del processo speciale era stato subordinato. Erronee sarebbero le argomentazioni sul punto espresse dalla Corte di appello secondo la quale, trattandosi di una nullità relativa, l’imputato avrebbe dovuto presentare opposizione alla modifica del quesito diretto al perito operata dal giudice di primo grado, il che non risulterebbe dal verbale di udienza del 28.4.2017. La nullità sarebbe stata pertanto sanata ex art. 182 c.p.p. ù
Sostiene il ricorrente che, all’udienza del 28.4.2017, ed a quella successiva dell’8.2.2018, avrebbe rilevato che il quesito non conteneva l’integrazione probatoria richiesta quale condizione necessaria, ex art. 438, co.5, c.p.p., ed avrebbe insistito affinché si procedesse all’accertamento degli indirizzi IP del Comune di Meda, e delle linee dell’ente, considerato che tale indagine (come evidenziato dal CTP Dott. Nicotera) avrebbe consentito di verificare quale indirizzo IP interno avesse fatto la navigazione.
La modifica del quesito a seguito delle osservazioni del perito circa la impossibilità di effettuare l’integrazione, con la conseguente mancata acquisizione degli elementi richiesti dalla difesa dell’imputato, avrebbe determinato la nullità del giudizio abbreviato, trattandosi di nullità di ordine generale. Erroneo sarebbe anche quanto affermato dalla Corte di appello circa il fatto che il teste (omissis)
avrebbe comunque fornito l’indirizzo IP richiesto. In realtà, tale teste avrebbe individuato il numero IP corrispondente alla linea utilizzata dal Comune di Meda e non l’effettivo indirizzo IP da cui si asserisce siano state perfezionate le cessioni di materiale pedopornografico oggetto di contestazione. Quanto affermato dal giudice di secondo grado contraddirebbe inoltre l’impossibilità di acquisizione manifestata dal perito e determinante la modifica del quesito allo stesso sottoposto.
Ad avviso del ricorrente il giudice avrebbe ammesso l’integrazione probatoria solo al fine di dare ingresso alla prova contraria richiesta dal P.M. la quale, secondo quanto previsto dall’art. 438 c.p.p., è invece subordinata alla esistenza di una prova promossa dalla difesa, la quale sarebbe invece mancata nel caso de quo. La Corte di appello avrebbe trascurato che il quesito disposto in primo grado dal Gip non solo mancasse della integrazione istruttoria richiesta dal (omissis) ma introducesse una diversa richiesta, preclusa dall’art. 438, co.5, c.p.p.
Conseguentemente il giudizio sarebbe gravato da nullità assoluta ai sensi del combinato disposto degli artt. 178, lett. c) e 180 c.p.p., in ragione della illegittima decisione del giudice di primo grado (avallata in sede di gravame) di ammettere soltanto il supplemento istruttorio reputato sufficiente.
2.4. Deduce il ricorrente, con il quarto motivo, il vizio di cui all’art. 606, lett. b) ed e) c.p.p. in relazione all’art. 600septies c.p. per illegittima disposizione della confisca e distruzione di quanto oggetto di sequestro.
La Corte di appello avrebbe trascurato che l’art. 600septies c.p. impone che sia accertato che i beni sottoposti a confisca costituiscano il prodotto, il profitto o il prezzo del reato. Nel caso in esame nessun supporto informatico sequestrato al (omissis) avrebbe rilevato la presenza di materiale pedopornografico, sicché non sarebbe nemmeno possibile ipotizzare che gli strumenti confiscati fossero serviti a perfezionare il delitto di cessione. La Corte di appello avrebbe invece dato per provato ciò che doveva essere dimostrato, ossia che attraverso gli strumenti oggetto del provvedimento di sequestro fosse stato perfezionato il delitto addebitato al (omissis).
2.5. Deduce il ricorrente, con il quinto motivo, il vizio di cui all’art. 606, lett. c) c.p.p. in relazione all’art. 350 c.p.p. ed al combinato disposto degli artt. 63 e 64 c.p..
La difesa censura la sentenza nella parte in cui il giudice di secondo grado ha ritenuto utilizzabili, ai sensi dell’art. 350, co.7, c.p.p., le dichiarazioni rese spontaneamente dall’imputato, nell’ambito del giudizio abbreviato, non potendosi invece richiamare l’inutilizzabilità disposta dalla norma limitatamente alla fase dibattimentale. La Corte territoriale non si sarebbe confrontata con le doglianze manifestate in sede di gravame, avendo la difesa ribadito che le dichiarazioni avrebbero dovuto essere assunte in modo garantito, anche in assenza di una previsione espressa, riconoscendosi la prevalenza della disciplina prevista dall’art. 63, co.2, c.p.p. su quella contenuta nell’art. 350, co.7, c.p.p. Quest’ultimo articolo consente alla P.G. di assumere dalla persona indagata, anche in assenza del difensore, notizie o indicazioni utili alla prosecuzione delle indagini, ma a condizione che siffatta assunzione avvenga sul luogo e nell’imminenza del fatto, il che non sarebbe avvenuto nel caso di specie. Conseguentemente all’interessato avrebbero dovuto essere comunicati gli avvertimenti di rito di cui all’art. 64 c.p.p. e la dichiarazione assunta in difetto di questi dovrebbe ritenersi inutilizzabile, avendo l’art. 63, co.5, c.p.p. portata generale, ed estensibile anche alle dichiarazioni raccolte di iniziativa dalla P.G.
Sostiene la difesa che la Corte di appello non si sarebbe confrontata anche con l’obiezione in ordine all’impossibilità di ritenere spontanee le dichiarazioni rese dal (omissis). L’imputato, infatti, non avrebbe neppure sottoscritto il verbale. Il requisito della spontaneità costituisce un presupposto necessario ai fini dell’applicazione dell’art. 350, co.7, c.p.p. ed il giudice avrebbe dovuto accertare, anche d’ufficio, sulla base di tutti gli elementi a sua disposizione, la effettiva natura spontanea delle propalazioni, dando atto di tale valutazione con adeguata e congrua motivazione. Laddove difetti suddetto requisito, la conseguenza non potrebbe essere che quella della inutilizzabilità, essendo state le dichiarazioni “sollecitate” dalla PG.
2.6. Deduce il ricorrente, con il sesto motivo, il vizio di cui all’art. 606, lett. b), c) ed e) c.p.p., in relazione agli art. 546, lett. e) c.p.p., 600ter, commi 4 e 7, c.p., e per omessa motivazione in relazione al sesto motivo dell’appello.
La Corte di appello avrebbe errato nell’affermare che “le immagini riversate nel fascicolo di indagine non necessitano di ulteriore commento, la minore età dei soggetti rappresentati è palese e la nudità degli stessi o le pose ammiccanti appaiono in palese evidenza“. Il giudice di secondo grado si sarebbe infatti sottratto dall’obbligo di motivazione di cui all’art. 546 c.p.p., violando inoltre, l’art. 600ter, co.4, c.p. La difesa sostiene che relativamente alle foto delle quali è addebitata la cessione non sarebbe stata provata la minore età delle persone ritratte, realizzando una illegittima inversione dell’onere probatorio in capo all’imputato.
La Corte territoriale, e prima il giudice di primo grado, avrebbe travisato gli elementi di prova a sua disposizione, non tenendo conto del fatto che gli organi di polizia avessero rilevato l’evidenza di sole tre foto a contenuto pedopornografico. Ciononostante i giudici di merito sono pervenuti ad avallare il contenuto dell’imputazione con individuazione di nove immagini a contenuto incriminante, ritenendo che la nozione di pornografia minorile ricomprende “qualunque rappresentazione degli organi sessuali di un minore di diciotto anni, con ciò intendendo non solo gli organi genitali ma anche gli organi sessuali secondari“. La Corte di appello non si sarebbe confrontata con le obiezioni manifestate nell’atto di gravame, limitandosi a ritenere dimostrato ciò che, ad avviso del ricorrente, non lo era, affermando che le nove foto contestate dall’accusa al (omissis) sarebbero da ritenersi di natura pedopornografica per via della rappresentazione (anche) di “organi sessuali secondari”.
Tale interpretazione non si concilierebbe con la definizione di pornografia minorile di cui all’art. 600ter, co.7 c.p. (aggiunto dall’art. 4, co.1, lett. h, della L. 1 ottobre 2012, n. 172 per la ratifica della Convenzione di Lanzarote) nonché con il diritto dell’UE (Direttiva n. 2011/92/UE) ove si definisce pedopornografia “la rappresentazione degli organi sessuali di un minore per scopi prevalentemente sessuali“.
Non costituirebbero materiale pedopornografico anche le uniche tre immagini in cui risultano esposti gli organi genitali di tre ragazze:
-in una delle foto, il volto coperto non consentirebbe di inferire la minore età del soggetto rappresentato;
-nella seconda foto la ragazza ritratta sarebbe una modella maggiorenne (nata nel 1990) e presente in diversi siti per lo più a carattere pornografico. L’esperimento di indagini sul punto avrebbe consentito di rilevarne la maggiore età;
-rispetto alla terza foto non sarebbe stata fornita alcuna prova della minore età del soggetto raffigurato.
Ne conseguirebbe l’esclusione dell’aggravante di cui all’art. 602ter, co.7, c.p.
2.7. Deduce il ricorrente, con il settimo motivo, il vizio di cui all’art. 606, lett. c) c.p.p. in relazione all’art. 350 c.p.p. e del combinato disposto degli artt. 63 e 64 c.p.p.
La difesa ripropone letteralmente le censure sollevate nel precedente quinto motivo dell’atto di impugnazione, al quale si rinvia.
2.8. Deduce il ricorrente, con l’ottavo ed ultimo motivo, il vizio di cui all’art. 606, lett. e) c.p.p., per omessa motivazione in relazione al quarto motivo dell’atto di appello e travisamento della prova in ordine alla identificazione dell’indirizzo IP Messenger, con conseguente illegittima individuazione del soggetto attivo del reato contestato di cui all’art. 600ter, co.4, c.p.
Si censura l’affermazione contenuta in sentenza circa l’identità tra l’utente yggip@hotmail.it – operante attraverso mail – e l’utente yggip@hotmail.it – operante attraverso MSN. Mancherebbero evidenze probatorie circa l’individuazione dell’indirizzo IP (Messenger), posto che lo scambio del materiale incriminato era avvenuto mediante la piattaforma MSN. La Corte di appello avrebbe confuso gli indirizzi IP di accesso alla casella di posta elettronica con quelli di accesso a Messenger. Questi ultimi avrebbero potuto consentire di identificare la collocazione geografica e la linea internet da cui sono state effettuale le asserite cessioni, con la possibilità di risalire al soggetto attivo del reato, previa identificazione del computer utilizzato e quindi, successivamente, dell’effettivo operatore. La Corte territoriale avrebbe erroneamente ritenuto esistente una prova (quella della identificazione dell’indirizzo IP Messenger) in realtà inesistente, dando per dimostrato che la comunicazione “registrata” dalla Polizia postale sia intercorsa tra l’agente sotto copertura ed il (omissis). A fondamento di tale asserzione il giudice del gravame avrebbe fatto riferimento alle dichiarazioni spontanee rese dall’imputato, in occasioni delle quali lo stesso aveva riconosciuto il possesso dell’indirizzo mail yggip@hotmail.it, trascurando tuttavia di indicare quali siano stati i controlli sugli indirizzi IP di accesso alla casella di posta elettronica che hanno permesso una sicura riconducibilità all’imputato e limitandosi ad affermare che i collegamenti siano stati originati o dall’utenza telefonica del (omissis) o da quella del Comune di Meda, presso il quale lo stesso era impiegato.
Tale punto della decisione è ritenuto dal ricorrente decisivo in quanto fondante il superamento dell’obiezione della difesa secondo cui le attività attraverso posta elettronica e quelle attraverso chat Messenger verrebbero poste in essere mediante modalità di accesso distinte, sicché non sarebbe sufficiente individuare la paternità della mail per ritenere provato che l’indirizzo Messenger sia riconducibile allo stesso soggetto.
Anche qualora fosse provata tale identità, ciò non dimostrerebbe la riconducibilità al (omissis), ben potendo una persona diversa dall’imputato, in possesso delle credenziali di accesso agli account, procedere in luogo dell’effettivo titolare.
A supporto della ipotesi che soggetti terzi, abusivamente, avessero, in luogo dell’imputato, fatto accesso all’account mail ygipp@hotmail.it convergerebbe il dato secondo cui un operatore da IP 94.81.83.178, corrispondente alla Polizia Locale di Meda (e non a quello del Comune, ossia 83.211.210.146), avrebbe utilizzato l’account in questione, utilizzando una linea telefonica dalla quale l’odierno imputato non avrebbe potuto operare, come sarebbe provato dalle dichiarazioni del teste (omissis).
Il ricorrente censura anche l’ulteriore argomentazione a sostegno della decisione della Corte di appello e fondata sul ruolo ricoperto dal Celano nel Comune, il quale avrebbe consentito allo stesso libero accesso al Comando della Polizia Locale, ripetendo che il dato contrario sarebbe evincibile dalle dichiarazioni del teste (omissis), nonché da quelle del teste (omissis). Nessuna prova sarebbe stata acquisita circa la possibilità per l’imputato di utilizzare l’indirizzo IP della Polizia Locale accedendo da remoto (il teste (omissis) avrebbe dichiarato che accedendo da remoto alla rete attraverso il firewall l’utente avrebbe navigato con l’IP del Comune e non con quello della Polizia Locale).
Si censura anche quanto affermato dalla Corte territoriale circa le competenze informatiche del (omissis) deducibili dal ruolo rivestito nel Comune, dal suo essere web master della sezione locale dell’Associazione Nazionale Carabinieri e di altri siti di attività commerciali e professionali. La Corte avrebbe formulato un’asserzione di attribuzione di competenze senza alcuna motivazione e trascurando di fornire elementi oggettivi probanti tali conoscenze.
CONSIDERATO IN DIRITTO
3. Il ricorso è parzialmente fondato, limitatamente al quarto motivo. Nel resto deve, invece, essere rigettato.
4. Il primo motivo del ricorso è infondato.
Ad avviso della difesa i giudici di merito avrebbero applicato analogicamente l’art. 14 L. n. 269/98 anche a fattispecie criminose non indicate dal medesimo articolo e legittimanti l’attività di captazione.
Deve invece condividersi la posizione assunta in primo ed in secondo grado dai giudici di merito, in quando in linea con la giurisprudenza di legittimità.
Ed invero – premessa l’erroneità della impostazione dei giudici di merito circa la estensibilità dei risultati probatori acquisiti al procedimento de quo in forza dell’art 270 c.p.p., atteso che, come già affermato da questa stessa Sezione (Cass., Sez. 3, sentenza 8 maggio-21 ottobre 2003, n. 39706, Pg in proc. B.LI), la pretesa di assimilare la disciplina speciale delle attività di contrasto previste e rigorosamente disciplinate dall’articolo 14 legge 269/98, con la normativa processuale relativa all’utilizzabilità, anche in procedimenti diversi da quello in cui sono state disposte, delle intercettazioni telefoniche e telematiche, risulta essere destituita di fondamento, in quanto “si tratta di attività investigative del tutto diverse, aventi diverse caratteristiche e ben diverse potenzialità di incisione su beni costituzionalmente tutelati, ed assoggettate pertanto a diversi presupposti” -, in ogni caso il legittimo esercizio dell’attività di contrasto per scoprire uno dei reati tassativamente indicati nell’art. 14 può consentire l’acquisizione di mezzi di prova anche se essi riguardino illeciti diversi e meno gravi di quelli ipotizzati inizialmente, ciò in quanto la conformità alla legge dell’attività di contrasto, anche sotto copertura, deve essere valutata ex ante, in relazione al momento in cui essa è autorizzata, e non con riguardo all’esito dell’investigazione. Ne consegue che qualora nel corso dell’attività di contrasto la Polizia Giudiziaria accerti reati distinti e meno gravi, essa, in ossequio all’art. 55 c.p.p., ed al principio dell’obbligatorietà dell’azione penate di cui all’art. 112 Cost., non può sottrarsi al suo compito istituzionale di svolgere indagini ed assicurare le fonti di prova anche in relazione a quelli, sebbene diversi dagli illeciti per cui l’attività era stata specificamente autorizzata. Tale soluzione non costituisce un’applicazione analogica della disciplina prevista dall’art. 14 anche a reati diversi da quelli ivi tassativamente previsti, rilevando la concreta configurabilità di uno di essi soltanto al momento dell’autorizzazione, e non anche all’esito dell’investigazione (Cass., Sez. III, 25 settembre 2008, n. 40036; Cass., Sez. III, 19 ottobre 2005, n. 41957). In tema di reati contro la libertà sessuale dei minori, infatti, secondo il pacifico orientamento giurisprudenziale di questa Corte di legittimità, gli elementi di prova acquisiti in conseguenza dell’attività di contrasto di agenti sotto copertura regolarmente autorizzata al fine di accertare una delle fattispecie delittuose contemplate dall’art. 14, comma primo, L. n. 269 del 1998 sono legittimamente utilizzabili quand’anche, successivamente, la condanna sia intervenuta in ordine ad altra fattispecie delittuosa che, “ab origine”, non avrebbe consentito la predetta attività. (Sez. 3, n. 16665 del 06/12/2007 – dep. 22/04/2008, Gulli, Rv. 239912).
4.1. Alla luce di quanto sopra esposto, si ritiene esente dai vizi lamentati la sentenza impugnata. La Corte di appello ha correttamente dichiarato la legittimità dell’attività di contrasto di cui all’art. 14 L. n. 269/98. Gli agenti provocatori erano stati precedentemente e legittimamente autorizzati con riferimento al reato di diffusione di materiale pedopornografico, pervenendo solo successivamente ala imputazione per sola cessione. L’accertamento di un reato diverso da quello giustificante ab origine l’autorizzazione all’attività di contrasto non può determinare la inutilizzabilità del materiale acquisito, essendo la legittimità della stessa condizionata ad una valutazione ex ante circa la configurabilità nel caso concreto di un reato incluso in quelli tassativamente indicati dal legislatore.
4.2. Correttamente, inoltre, la Corte di appello ha ritenuto utilizzabile il materiale probatorio raccolto nel procedimento a carico del (omissis). La successiva separazione delle posizioni interessate dall’indagine non può ricondurre la fattispecie nel concetto di “procedimento diverso” di cui all’art. 270 c.p.p., proprio tenuto conto della non estensibilità analogica di tale disciplina alla disciplina dettata dall’art. 14, legge n. 269 del 1998, come la stessa difesa ha sostenuto, insorgendo contro detta pretesa estensione per come intesa dai giudici di merito. In ogni caso, si osserva, quand’anche si ritenesse di dover seguire, sotto tale limitato profilo, la doglianza difensiva, l’esito non sarebbe comunque, diverso, alla luce della chiara esegesi del sintagma “procedimento diverso”, autorevolmente operata dalle Sezioni Unite di questa Corte con la recentissima sentenza n. 51/2020, rie. Cavallo ed altro (ud. 28.11.2019 – dep. 2.01.2020), in cui si è in particolare chiarito(§ 11.3) che “non rientrano nella sfera del divieto di cui all’art. 270, c.p.p. di utilizzazione dei risultati di intercettazioni in procedimenti diversi da quelli per i quali le stesse siano state autorizzate solo i reati, accertati in virtù dei risultati di intercettazioni, connessi ex art. 12 c.p.p. a quelli in relazione a quelli in relazione ai quali l’autorizzazione era stata ab origine disposta: quando hanno ad oggetto reati connessi, i procedimenti non sono “diversi” a norma dell’art. 270, c.p.p.”. Nel caso di specie, dunque, nessun problema di utilizzabilità si sarebbe posto quand’anche si fosse ritenuta applicabile la esegesi della nozione di “procedimento diverso” alla disciplina dettata dall’art. 14, legge n. 269 del 1998: essendo le indagini strettamente connesse e collegate sotto il profilo oggettivo, probatorio e finalistico, al reato alla cui definizione il mezzo di ricerca della prova è stato predisposto, i risultati dell’attività di indagine ben avrebbero potuto essere utilizzati.
5. Anche il secondo motivo di ricorso è inammissibile.
Appare opportuno un inquadramento giuridico della questione, seppur sinteticamente. Le c.d. undercover operations, sebbene consentano l’accertamento di reati connotati da particolare disvalore, comportano il rischio che tale legittima finalità si traduca, in concreto, in una vera e propria istigazione a delinquere. Sul punto si è espressa anche la Corte di Strasburgo (Corte EDU, 9.6.1998, Teixeira de Castro c. Portogallo; Corte EDU, 21.2.2008, Pyrgiotakis c. Grecia; Corte EDU 1.7.2008, Malininas c. Lituania), la quale ha dato un forte impulso allo sviluppo della distinzione tra agente sotto copertura e agente provocatore: mentre il primo si limita all’osservazione e alla raccolta di elementi probatori in ordine all’avvenuta realizzazione di determinate fattispecie criminose, il secondo esercita invece un’influenza causale sui soggetti “provocati”, tanto da determinarli alla commissione di un reato che, altrimenti, essi non avrebbero commesso. Laddove era stata accertata un’attività provocatoria dell’agente, c.d. entrapment, la Corte di Strasburgo ha dichiarato la violazione dell’art. 6 CEDU, e dunque del diritto ad un equo processo, con conseguente inutilizzabilità delle prove ottenute attraverso la provocazione. Al fine di verificare se l’attività di indagine si sia tradotta in una influenza determinante, instillando nel “provocato” un proposito criminoso prima inesistente, ovvero abbia costituito una mera opportunità per commettere un reato che il soggetto interessato avrebbe comunque commesso, la Corte EDU ha elaborato quello che viene definito il but-for test of causation. Esso si fonda su un esame di alcuni elementi quali: la precedente sussistenza o meno di sospetti circa una pregressa attività criminosa del soggetto; l’iniziativa dell’agente nel contatto; l’eventuale rinnovo dell’offerta dopo il primo rifiuto, e dunque l’insistenza nonché ulteriori dati che, afferendo ai reati connessi al traffico di stupefacenti, non sono utili ai fini dell’odierna decisione. La giurisprudenza di legittimità è conforme all’orientamento espresso dalla Corte EDU, venendo affermata la responsabilità penale dell’agente infiltrato, con la conseguente inutilizzabilità delle prove acquisite, nelle ipotesi in cui le operazioni sotto copertura siano consistite nell’incitamento o nell’induzione alla commissione di un reato da parte del soggetto indagato. (Cass., Sez. III, 9 maggio 2013, n. 37805). Non contrastante con il diritto di ogni persona ad un fair trai/ ex art. 6 CEDU, è stata invece ritenuta l’azione dell’agente provocatore il quale si sia limitato a disvelare un’intenzione criminale esistente, ma allo stato latente, fornendo solo l’occasione per concretizzare la stessa, e, quindi, senza determinarla in modo essenziale (Cass., Sez. III, 7 febbraio 2014, n.20238). In altri termini, l’attività posta in essere dall’imputato deve essere valutata tenendo conto della rilevanza causale che la condotta provocante ha assunto nel fatto illecito commesso dal provocato, considerando se in quest’ultimo sia stato o meno suscitato un intento delittuoso prima inesistente. Occorre, dunque, verificare se in concreto l’azione delittuosa sia voluta e realizzata in base ad impulsi e modalità autonomamente riconducibili al soggetto che materialmente l’ha posta in essere, ovvero se sia stata provocata dall’istigazione dell’imputato (Cass., Sez. IV, 21 settembre 2016, n. 47056).
5.1. Nel caso in esame si ritiene possa escludersi l’efficienza causale determinante dell’agente nella commissione del delitto di cui all’art. 600quater c.p.
Dal testo della sentenza è possibile trarre informazioni circa l’andamento dell’attività investigativa, le quali consentono di escludere la determinazione o l’istigazione all’illecito del (omissis). Sebbene il primo contatto tramite email sia avvenuto per iniziativa dell’agente, si constata come, precedentemente a tale momento, il (omissis) avesse commentato delle immagini pubblicate sul profilo utilizzato dalla Polizia Postale sul sito russo IMGRSC.RU, e successivamente fosse stato proprio l’imputato a proporre il passaggio alla chat MSN, ove è avvenuto lo scambio di materiale illecito. Secondo quanto riportato, inoltre, nella sentenza di primo grado, proprio in chat il (omissis) ha manifestato le sue preferenze sessuali, dichiarando anche di avere due figlie di 14 e 17 anni rispetto alle quali non nasconde le proprie pulsioni sessuali, anche mediante l’invio all’agente di un video girato via webcam nel quale dichiara di stare leccando ed annusando gli slip di una delle figlie. Tali elementi, posti a fondamento della sentenza di condanna, consentono di affermare che l’attività dell’agente abbia costituito una mera occasione per la commissione del reato, potendosi invece escludere che mediante le conversazioni in chat sia stata instillata una intentio criminis prima inesistente.
Un ulteriore dato corroborante l’esclusione dell’efficacia causale della condotta dell’agente, rispetto al delitto di cui all’art. 600quater c.p., si rinviene nel fatto che
lo stesso (omissis) ha dichiarato in chat di star scaricando da un proprio spazio
internet delle “immagini interessanti“. Nessuna provocazione illecita potrebbe dunque rinvenirsi nel caso de quo, essendo stato lo scambio di materiale pedopornografico meramente occasionato e non determinato dall’attività investigativa dell’agente.
6. Può quindi procedersi nell’esame del terzo motivo, parimenti inammissibile.
Il verbale dell’udienza del 16.2.2017, riporta che “La difesa del (omissis) avanza istanza di abbreviato condizionato alla acquisizione dell’indirizzo IP del Comune di Meda … “.
Solo all’udienza del 28.4.2018 veniva avanzata richiesta di una integrazione del quesito sottoposto al perito, avente ad oggetto l’effettivo indirizzo IP dal quale si sarebbero perfezionate le cessioni di materiale pedopornografico. A seguito di tale istanza il giudice procedeva a modificare il quesito così formulandolo: “Con quale IP e con quale Log In sono stati effettuati gli accessi in relazione ai quali vi è stata condivisione di materiale pedopornografico … “. Solo su tale accertamento il perito manifestava i propri dubbi in ordine alla certezza del risultato dell’indagine, affermando il carattere ipotetico degli eventuali risultati. Il giudice pertanto modificava nuovamente il quesito, senza alcuna eccezione da parte dell’imputato. All’udienza di discussione dell’S.2.2018 la difesa eccepiva la nullità della perizia “nella parte in cui non ha ad oggetto l’accertamento relativo agli indirizzi IP del Comune di Meda …“. Il giudice rigettava l’eccezione, ritenendo che il dato probatorio al quale era stato condizionato il rito alternativo fosse stato acquisito mediante prova dichiarativa (teste (omissis), sicché non riteneva necessario un (ulteriore) quesito peritale per il suo accertamento.
Come si evince chiaramente dal testo della sentenza di primo grado, infatti, il teste (omissis) aveva spiegato che all’epoca dei fatti (2013) vi era un unico IP per il Comune di Meda, indicando lo stesso, ossia 83.211.210.146.
6.2 Il giudizio abbreviato non potrebbe dunque essere dichiarato nullo, in quanto risulta essere stato in concreto acquisito il dato probatorio originariamente richiesto e condizionante il rito alternativo (verbale udienza 16.2.2017). Non potrebbe essere invece riconosciuto alcun rilievo alla diversa formulazione della condizione, operata successivamente alla richiesta del rito alternativo ed al momento della formulazione del quesito peritale (verbale udienza 28.4.2018). La difesa dell’imputato aveva ab origine richiesto semplicemente la identificazione dell’IP del Comune di Meda, ma non anche quella degli IP dai quali sarebbe avvenuta la cessione del materiale incriminato, elemento probatorio evidentemente diverso, rispetto al quale il giudice non aveva potuto esprimersi nel decidere in ordine all’accoglimento o meno della richiesta del rito abbreviato. In ogni caso, si tiene a precisare, che, in linea con l’orientamento giurisprudenziale sopra richiamato, la difesa avrebbe dovuto eccepire la nullità del giudizio prima della conclusione della fase di assunzione della prova e, dunque, nel momento in cui il giudice di merito ha proceduto alla seconda modifica del quesito peritale.
L’eventuale nullità è pertanto sanata per inattività, trovando applicazione la costante giurisprudenza di questa Corte secondo cui integra nel giudizio abbreviato una nullità d’ordine generale l’omessa acquisizione della prova, effettivamente esistente ed acquisibile, cui sia stata condizionata la richiesta del rito poi ammesso su tale presupposto, nullità da ritenersi sanata ove la fase dell’assunzione delle prove sia stata dichiarata chiusa senza che la difesa nulla abbia eccepito (tra le tante: Sez. 2, n. 23605 del 12/03/2010 – dep. 18/06/2010, Doronzo e altro, Rv. 247291; Sez. 2, n. 50194 del 26/10/2018 – dep. 07/11/2018, Pedrotti, Rv. 274718).
7. Anche il quinto motivo di ricorso, così come il settimo che ne ripropone letteralmente il contenuto, è inammissibile.
Secondo un costante orientamento giurisprudenziale, sono utilizzabili a fini di prova le dichiarazioni spontanee rese dalla persona sottoposta alle indagini alla polizia giudiziaria, ai sensi l’art. 350, co.7, c.p.p., afferendo l’inutilizzabilità esclusivamente il dibattimento (Cass., Sez. V, 15 marzo 2018, n.32015; Cass. Sez. V, 12 giugno 2014, n. 44829: con tale sentenza è stato superato l’orientamento contrario rappresentato dalla pronuncia della Sez. III, 7 giugno 2012 n. 36596, osservando come la soluzione prospettata dalla citata pronuncia non sia condivisibile, alla luce del chiaro disposto dell’art. 350, co.7, c.p.p.). Il requisito della spontaneità costituisce il presupposto necessario della disposizione citata, rendendo legittima l’utilizzazione delle dichiarazioni nel rito abbreviato. Diversa è la soluzione qualora debbano trovare applicazione i commi quinto e sesto dell’art. 350, commi 5 e 6, c.p.p., ossia in ipotesi di dichiarazioni e.ci. “sollecitate” dalla P.G., sul luogo e nell’immediatezza del fatto, nei confronti della persona indagata, le quali sono affette da inutilizzabilità assoluta, anche pro reo.
7.1. Il ricorrente sostiene che anche le dichiarazioni, rese spontaneamente, alla P.G. avrebbero dovuto essere assunte con le garanzie previste dall’art. 64 c.p.p., avendo la regola espressa dall’art. 63, co.2, c.p.p. portata generale.
Quest’ultimo articolo, costituente espressione del principio nemo tenetur se detegere, presuppone che nei confronti del dichiarante sussistano già elementi indiziari di reità. Tale norma richiede, inoltre, un altro presupposto, desumibile dal primo comma, ossia che le dichiarazioni siano rese nel corso di un “esame” (atto processuale in cui un soggetto è convocato dall’autorità procedente – A.G. o P.G. – per essere escussa sui fatti per cui si procede, con l’obbligo di comparire, di rispondere e di dire la verità). Ciò consente di comprendere la ragione per la quale la giurisprudenza (Cass. Sez. III, 14 marzo 2018, n. 29641) ha escluso l’operatività della norma nelle ipotesi in cui sia l’indagato a rendere spontaneamente dichiarazioni indizianti alla P.G., concernendo l’art. 63 c.p.p. l’esame (sommarie informazioni) di persone non imputate e non sottoposte ad indagini. Analogamente è esclusa l’applicazione dell’art. 64 c.p.p., concernente l’interrogatorio, ulteriore atto processuale (Cass., Sez. VI, 27 giugno 2008, n. 34151). Diversamente da quanto previsto dall’art. 64 c.p.p., l’art. 350, co. 7, c.p.p. non presuppone alcun formale avvertimento, di talché le dichiarazioni rese spontaneamente dall’indagato alla polizia giudiziaria, e dunque non sollecitate da quest’ultima, sono utilizzabili in sede di giudizio abbreviato anche in mancanza dell’avvertimento di cui all’art. 64, co. 2, lett. c), c.p.p .. , il quale è testualmente previsto solo per l’interrogatorio e non, invece, anche per le dichiarazioni spontanee ex art. 350, co.7, c.p.p. (Cass., Sez. III, 3 novembre 2009, n. 48508).
7.2. In sintesi, dunque, l’utilizzo delle dichiarazioni rese ex art. 350, co. 7, c.p.p. è limitato alla cognizione cautelare ed a quella sulla responsabilità che si svolge nei riti a prova contratta, purché non si tratti di dichiarazioni “sollecitate”, acquisite senza garanzie “sul luogo e nell’immediatezza del fatto”. Queste ultime, anche se pro reo, sono utilizzabili solo ed esclusivamente per l’immediata prosecuzione delle indagini ai sensi dell’art. 350, co. 5, c.p.p. (Cass. Sez. II, 12 gennaio 2017, n. 3930). Ai fini dell’utilizzabilità di suddette dichiarazioni è pertanto necessario che emerga con sufficiente chiarezza che l’indagato le abbia rese liberamente e consapevolmente, senza aver subito alcuna coercizione o sollecitazione. Spetta al giudice accertare, anche d’ufficio, sulla base di tutti gli elementi disponibili, l’effettiva natura spontanea, dandone atto con motivazione congrua ed adeguata (Cass., Sez. II, 13 marzo 2018, n. 14320).
7.3. Alla luce delle considerazioni di cui sopra, il motivo deve essere dichiarato inammissibile.
Erronea deve ritenersi la tesi sostenuta dal ricorrente circa la possibilità per la P.G. di procedere, senza le garanzie legali, solo all’assunzione, sul luogo e nella immediatezza del fatto, di informazioni utili alla prosecuzione delle indagini. La confusione dei piani è evidente. In questa ultima ipotesi, infatti, le dichiarazioni vengono sollecitate e non rese spontaneamente, operando per esse una inutilizzabilità assoluta, ergo estesa anche al giudizio abbreviato. Diversamente il comma settimo dell’art. 350 c.p.p. fa riferimento alle dichiarazioni spontanee, rispetto alle quali la giurisprudenza, tenuto conto del dato testuale delle disposizioni, esclude l’operatività dell’art. 63 e 64 c.p.p., con possibile utilizzabilità ai fini della prova nell’ambito del rito speciale a prova contratta, fatta eccezione, dunque, per il solo dibattimento (v., in senso conforme: Sez. 3, n. 29641 del 14/03/2018 – dep. 02/07 /2018, Ermo, Rv. 273209). Sono pertanto utilizzabili nella fase procedimentale, e dunque nell’incidente cautelare e negli eventuali riti a prova contratta, le dichiarazioni spontanee rese dalla persona sottoposta alle indagini alla polizia giudiziaria ai sensi dell’art. 350, comma 7, cod. proc. pen., purché emerga con chiarezza che l’indagato ha scelto di renderle liberamente, ossia senza alcuna coercizione o sollecitazione (da ultimo: Sez. 3, n. 20466 del 03/04/2019 -dep. 13/05/2019, S, Rv. 275752).
7.4. In ordine alla censura circa la non spontaneità di quanto dichiarato dal (omissis) in sede di perquisizione, essa si presenta aspecifica e non suscettibile di essere esaminata in questa sede. La sentenza impugnata, infatti, qualifica le dichiarazioni del (omissis) come spontanee, e nel ricorso per cassazione non è contestata, se non limitatamente al difetto di sottoscrizione del verbale di P.G., tale qualificazione, né questa Corte ha il potere di riesaminare gli elementi di prova alla base della stessa. La difesa non deduce nessun concreto elemento a sostegno della tesi secondo cui potrebbe trattarsi di dichiarazioni non spontanee ma sollecitate da domande poste dagli inquirenti, con conseguente manifesta erroneità della sentenza impugnata.
Ne consegue che tale prospettazione non può che configurarsi in termini meramente congetturali, limitandosi l’argomentazione del ricorrente a richiamare il rifiuto del (omissis) di firmare il verbale di P.G.
Né, del resto, rileva la mancata sottoscrizione del verbale da parte del ricorrente, allora indagato. Come infatti già affermato da questa Corte a proposito del verbale di arresto, lo stesso è valido anche se l’indagato non lo ha sottoscritto, atteso che alcun dubbio può sussistere in ordine alla sua partecipazione all’atto, nel mentre la qualità di arrestato consegue all’effettiva privazione della libertà personale e non alla redazione del menzionato verbale (Sez. 4, n. 15857 del 26/02/2009 – dep. 15/04/2009, Zangaro, Rv. 243962). Analogamente è a dirsi quanto al verbale di perquisizione di cui si discute, non sottoscritto dall’allora indagato, atteso che alcun dubbio può sussistere in ordine alla sua partecipazione all’atto.
8. Inammissibile è anche il sesto motivo del ricorso.
La nozione di “pornografia minorile” dettata dal comma settimo dell’art. 600-ter c.p. è costruita attraverso il richiamo di precisi elementi descrittivi, quali le attività sessuali esplicite, reali o simulate, rappresentazioni di organi sessuali riferite a soggetti infradiciottenni. Tale comma è stato introdotto con la L. n.172/2012 con la quale è stata ratificata la Convenzione di Lanzarote, riprendendone testualmente il contenuto dell’art. 20, co.2, ove si legge che “per pornografia minorile si intende ogni rappresentazione, con qualunque mezzo, di un minore degli anni diciotto coinvolto in attività sessuali esplicite, reali o simulate, o qualunque rappresentazione degli organi sessuali di un minore di anni diciotto per scopi sessuali“.
L’apprezzamento della sussistenza o meno della natura pedopornografica di una determinata immagine, fatta salva la possibile incertezza sulla età del soggetto effigiato, può essere compiuto, senza bisogno di particolari indagini, sulla base del semplice esame di essa, dovendosi ritenere che, in applicazione di una plausibile massima di esperienza, già la visione della immagine possa consentire la materiale individuazione, nell’oggetto esaminato, di quelle caratteristiche che ne consentono la riconducibilità ai predetti elementi descrittivi della fattispecie (Cass., Sez. III, 21 luglio 2016, n. 24113). Prima di tale definizione, la giurisprudenza aveva ricondotto alla nozione di materiale pedopornografico ogni rappresentazione con qualsiasi mezzo di un minore degli anni diciotto implicato o coinvolto in una condotta sessualmente esplicita, quale può essere la semplice esibizione lasciva di genitali o della zona pubica (Cass. Pen., Sez. III, 4 marzo 2010, n. 10981) senza richiedere, quindi, il compimento di atti sessuali, essendo sufficiente anche solo un’immagine di corpi nudi con zone genitali in mostra, idonea ad eccitare le pulsioni erotiche del fruitore (Cass. Pen., Sez. III, 3 marzo 2010, n. 21392), risultando così assolutamente di rilievo la valutazione della natura erotica delle pose e dei movimenti del minore (Cass. Pen., Sez. III, 22 aprile 2004, n. 2546).
8.1. Le doglianze del ricorrente si focalizzano sulla possibilità o meno di limitare la nozione di “materiale pedopornografico” alla rappresentazione di organi genitali del minore. Tale prospettazione interpretativa non solo non trova riscontro nel dato testuale della disposizione sopra richiamata (facente riferimento genericamente agli “organi sessuali”), ma si pone anche in contraddizione con la giurisprudenza formatesi in materia di violenza ex art. 609bis ss. c.p., ove è stato affermato che possono costituire un’indebita intrusione fisica nella sfera sessuale non solo le azioni aventi ad oggetto le zone genitali della vittima, ma anche quelle delle zone ritenute “erogene” – ossia in grado di stimolare l’istinto sessuale – dalla scienza medica, psicologica ed antropologico-sociologica.
Il Collegio ritiene debba escludersi la limitabilità della rilevanza penale delle sole rappresentazioni di organi genitali di soggetti infradiciottenni, con conseguente inclusione anche di organi sessuali “secondari”, quali il seno ed i glutei. Ciò anche tenuto conto dell’ottica di protezione assunta anche in sede sovranazionale, e nello specifico della Direttiva Europea 2011/93/UE, in materia di prevenzione e contrasto all’abuso e allo sfruttamento sessuale dei minori e della pornografia minorile (che ha sostituito la precedente decisione-quadro 2004/68/GAI), la quale ha imposto agli Stati membri di ampliare l’ambito di tutela in materia, in particolare con riguardo all’utilizzo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione da parte dei minori e degli autori di reato. Ciò corrisponde, del resto, all’ambito della tutela penale garantito dall’art. 600-ter, u.co., c.p. che, nel definire la “pornografia minorile” intende per tale, per quanto qui di interesse “qualunque rappresentazione degli organi sessuali di un minore di anni diciotto per scopi sessuali”. La circostanza, infatti, che il legislatore nazionale, nel recepire la Convenzione di Lanzarote con la I. n. 172 del 2012, non abbia inteso limitare la tutela alla rappresentazione dei soli organi genitali dell’infradiciottenne, ma l’abbia estesa agli organi “sessuali” in generale, consente quindi ritenere sussistente il reato in esame, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa, anche nel caso di rappresentazione di organi sessuali “secondari”, quali il seno ed i glutei.
8.2. Quanto sopra consente di dichiarare inammissibili le censure sintetizzate nel sesto motivo di ricorso circa la sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 602ter c.p., nonché di ritenere prive di pregio le doglianze afferenti le sole tre immagini nelle quali i soggetti esibiscono gli organi genitali, non potendo la responsabilità penale essere limitata solo ad esse, ma dovendo essa essere estesa a tutte le 9 immagini condivise dal (omissis). Rispetto alle rimanenti 6, nessuna argomentazione difensiva è stata peraltro articolata nell’atto di ricorso.
9. Inammissibile è anche l’ottavo motivo del ricorso.
La difesa dell’imputato si limita ad una diversa ricostruzione della fattispecie sotto il profilo fattuale, senza tuttavia confrontarsi con il fondamento motivazionale della decisione dei giudici di merito, sottoponendo sostanzialmente a questa Suprema Corte una rilettura del compendio probatorio alla base delle argomentazioni giustificanti la sentenza di condanna. Si rammenta che il difetto di motivazione, ai sensi dell’art. 606 lett. e) c.p.p., è valutabile in questa sede solo ove consista in una mancanza ovvero manifesta illogicità della motivazione stessa, e purché il vizio risulti dal testo del provvedimento impugnato. Non può costituire vizio motivazionale, comportante controllo di legittimità, la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più favorevole, valutazione delle risultanze processuali. Esula dai poteri della Corte di Cassazione quello di operare una nuova lettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice del merito, potendo e dovendo invece la Corte accertare se quest’ultimo abbia dato adeguatamente conto, attraverso l’iter argomentativo seguito, delle ragioni che lo hanno condotto ad emettere la decisione (Cass., Sez. Un., 30 aprile 1997, n. 6402; Cass., Sez. VII, 23 ottobre 2019, n. 48114). Il controllo di legittimità concerne il rapporto tra motivazione e decisione, non già il rapporto tra prova e decisione, sicché il ricorso mediante il quale si lamenti il vizio di motivazione, perché sia valutato ammissibile, deve rivolgere le censure nei confronti della motivazione posta a fondamento della decisione, non già rispetto alla valutazione probatoria sottesa. Quest’ultima, in quanto riservata al giudice di merito, è estranea al perimetro cognitivo e valutativo della Corte di Cassazione.
9.1. Nel caso di specie, in ogni caso, la motivazione della sentenza impugnata si presenta esente da vizi. La Corte di appello ha evidenziato che “i controlli sugli indirizzi IP di accesso alla casella di posta elettronica utilizzata hanno permesso una sicura riconducibilità di quest’ultima all’imputato, poiché i collegamenti sono stati originati o dall’utenza telefonica del (omissis) o da quella del Comune di Meda, presso cui lo stesso è impiegato. Vi sono le dichiarazioni spontanee di sostanziale ammissione … circa la riconducibilità al (omissis) del nome utente/indirizzo e-mail sottoposto a indagini“. Il ricorrente afferma che il giudice di secondo grado avrebbe confuso gli indirizzi IP di accesso alla casella di posta elettronica con quelli di accesso a Messenger. Sul punto, la difesa risulta non essersi confrontata con il contenuto motivazionale della sentenza di primo grado, ove si legge che il “contenuto degli scambi email consente di ritenere provato che l’utente yggip@hotmail.it che ha interloquito via email è lo stesso che ha poi chattato su MSN; e questo è tanto più certo, perché l’operatore aveva due distinti indirizzi come email e per utilizzare MSN, che (omissis) ha potuto conoscere solo in virtù dell’avvenuto scambio” (pag. 3). Tale dato probatorio consente di confermare ulteriormente la non censurabilità sul piano logico-giuridico della motivazione della decisione oggetto dell’odierno ricorso.
10. È fondato, invece, il quarto motivo del ricorso.
Il ricorrente censura la legittimità della confisca relativamente ai supporti e agli strumenti informatici di sua proprietà, in quanto, non essendo stato trovato negli stessi materiale pedopornografico, mancherebbe la prova del fatto che essi fossero serviti per la consumazione del delitto contestato.
Sul punto si tiene a rammentare che la L. n. 175/2012 ha modificato la disposizione di cui all’art. 600septies c.p., espungendo il richiamo all’art. 240 c.p. e stabilendo che ” … è sempre ordinata, salvi i diritti della persona offesa del reato alle restituzioni o al risarcimento dei danni, la confisca dei beni che costituiscono il prodotto, il profitto o il prezzo del reato … “.
Per effetto della nuova formulazione, ed in deroga alla regola generale prevista dall’art. 240 c.p., permane la obbligatorietà della confisca delle cose che costituiscono il profitto o il prodotto del reato. Deve invece ritenersi facoltativa la confisca avente ad oggetto le cose che servirono o furono destinate a commettere l’illecito.
Ne consegue che, al momento in cui è adottato il provvedimento ablatorio, per i beni strumentali alla commissione del fatto criminoso non vi siano disposizioni che vadano nel senso della confisca obbligatoria (come sarebbe stato possibile affermare in base al testo previgente dell’art. 600septies c.p.), ma nulla esclude che tali res possano essere ugualmente confiscate sulla base dei principi generali contenuti nell’art. 240 c.p. in tema di confisca facoltativa.
10.1. Occorre pertanto verificare l’eventuale insussistenza delle condizioni legittimanti quest’ultima, ossia: la prognosi di pericolosità sociale derivante dal mantenimento del possesso della cosa da parte del reo e la strumentalità del bene alla commissione del reato. Il giudice è tenuto a dare conto, con puntuale motivazione, della particolare e diretta correlazione tra la cosa e il reato in base alla quale viene espresso il giudizio di pericolosità derivante dal mantenimento della cosa medesima nella disponibilità del reo. Tale giudizio, peraltro, può essere formulato anche con rapporto alle caratteristiche della personalità del reo e alle modalità di commissione del crimine (Cass., Sez. IV, 5 aprile 2005, n. 21703).
10.2. Nel caso in esame il giudice di merito, sia in primo che in secondo grado, non ha fornito una idonea motivazione circa l’esistenza dei summenzionati presupposti di legittimità, né la giustificazione del provvedimento ablatorio potrebbe essere desunta implicitamente dal contenuto complessivo della sentenza. Sembra invece doversi affermare il contrario, tenuto conto della positiva valutazione operata ai sensi dell’art. 164, co.1, c.p., in forza del quale “La sospensione condizionale della pena è ammessa soltanto se, avuto riguardo alle circostanze indicate nell’articolo 133, il giudice presume che il colpevole si asterrà dal commettere ulteriori reati”. Si legge infatti nella sentenza di primo grado, confermata sul punto dalla Corte di appello, che “nella ragionevole previsione che Celano – fino ad ora incensurato- si asterrà dalla commissione di ulteriori reati, si ritiene opportuno concedergli il beneficio della sospensione condizionale della pena” (pag.7). Ne consegue, pertanto, l’illegittimità della disposta confisca facoltativa, non potendosi diversamente conciliare la prognosi positiva operata dal giudice di merito in ordine alla futura condotta di vita del (omissis) (alla luce degli elementi indicati dall’art. 133 c. p.) e la contestuale disposizione della confisca facoltativa dei beni utilizzati dallo stesso per la commissione dell’illecito.
11. L’impugnata sentenza dev’essere, conclusivamente, annullata quanto alla disposta confisca del computer. Nel resto, il ricorso dev’essere rigettato.
12. Segue ex lege l’oscuramento dei dati, attesa la tipologia di reato contestato.
P.Q.M.
La Corte annulla la sentenza impugnata senza rinvio, limitatamente alla confisca del computer, che elimina. Rigetta, nel resto, il ricorso.
Così deciso in Roma, nella sede della S.C. di Cassazione, in data 8 gennaio 2020.
