RITENUTO IN FATTO
- La CORTE DI APPELLO di CATANZARO, con sentenza in data 27/11/2019- dep. 17/12/2019, confermava la sentenza con la quale il GUP del TRIBUNALE di CATANZARO in data 20/10/2017, all’esito di giudizio celebrato nelle forme del rito abbreviato, aveva condannato D.A. a pena di giustizia per il reato di tentativo di estorsione continuato, commesso a (OMISSIS), in danno di B.G..
La condotta a lui contestata era consistita nell’avere, in concorso con altre persone non identificate, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, compiuto atti idonei diretti in modo non equivoco a procurare a sé un ingiusto profitto in danno di B., quale legale rappresentante della B. impianti s.n.c., con minacce per lo più implicite di mali futuri – in particolare, aveva riferito di conoscere clan camorristici del casertano -, affinché si rivolgesse a ditte fornitrici indicate dall’imputato per l’acquisto dei materiali necessari a eseguire l’appalto per la ristrutturazione di un edificio scolastico.
- D. propone ricorso per cassazione, per il tramite del difensore, e deduce i seguenti motivi:
– come primo, manifesta illogicità della motivazione quanto alla sussistenza del delitto di estorsione tentata e dei suoi elementi costitutivi. Ad avviso del ricorrente, sarebbe contraddittorio sostenere, come ha fatto la CORTE territoriale, da un lato l’insussistenza di elementi per ricondurre l’atteggiamento intimidatorio tenuto nei confronti di B. a metodologia mafiosa, dall’altro il carattere implicito della minaccia da lui rivolta alla persona offesa, perché non si coglie quale sarebbe stato l’elemento dal quale desumere la minaccia. Aggiunge che B. era stato arrestato nel 2009 nel corso di una indagine per associazione di tipo mafioso, ed era titolare di una ditta indicata dalla Prefettura di NAPOLI quale soggetta a infiltrazioni mafiose. La CORTE di CATANZARO non avrebbe spiegato – se non in termini avulsi dalla contestazione – come mai l’imputato, che non aveva adoperato un metodo mafioso, fosse in grado di intimidire un soggetto che al contrario gravitava in ambiti mafiosi. La paventata minaccia si sarebbe concretizzata allorché il ricorrente, proponendosi come fornitore del materiale necessario ai lavori della ditta B., avrebbe fatto riferimento a sue conoscenze in ambienti criminali del napoletano o a detenuti da mantenere: ciò tuttavia non avrebbe prospettato quel danno ingiusto nel che si configura l’estorsione. D. mirava a nulla più della realizzazione di un profitto per la propria azienda, tenendo conto peraltro che la sentenza di primo grado aveva precisato che era stata la persona offesa a contattare per prima la presunta vittima;
– come secondo, violazione di legge ai sensi dell’art. 192 c.p.p. con riferimento alla attendibilità della persona offesa, rinvenendosi contraddizioni fra la lettura della informativa di reato e del contenuto delle intercettazioni telefoniche,da un lato, e le dichiarazioni di B. dall’altro;
– come terzo, mancanza assoluta di motivazione. Benché il ricorrente sia stato identificato come intermediario di una organizzazione di tipo mafioso,
imponendo alcune ditte alla persona offesa, il giudizio ha escluso per D. l’aggravante mafiosa; M. – titolare di una delle ditte per le quali l’imputato si era interessato – aveva dichiarato soltanto di avere appreso
da quest’ultimo che B. stava lavorando in zona “e se era possibile ottenere un trattamento di favore”; il padre del ricorrente, D.G., aveva affermato che la persona offesa era un soggetto assillante, e per questo era necessario applicare tariffe più elevate, per non correre il rischio di non essere pagati. Questo vuol dire che B. aveva parlato con l’imputato al solo scopo di lucrare un prezzo più favorevole nelle forniture: ma di ciò non vi sarebbe riscontro nelle sentenze di primo e di secondo grado.
Il PROCURATORE GENERALE di questa S.C. chiede con conclusioni scritte il rigetto del ricorso.
Diritto
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è inammissibile.
- Poiché tutti i motivi proposti puntano a una rivalutazione in fatto della vicenda, va ricordato in premessa il condivisibile orientamento di questa S.C. (cf. per tutte Sez. 2 sentenza n. 7986 del 18/11/2016 dep. 20/02/2017 Rv. 269217 imputati La Gumina e altro), secondo cui “con riguardo ai limiti del sindacato di legittimità sulla motivazione dei provvedimenti oggetto di ricorso per cassazione, delineati dall’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), come vigente a seguito delle modifiche introdotte dalla L. n. 46 del 2006, che (…) la predetta novella non ha comportato la possibilità, per il giudice della legittimità, di effettuare un’indagine sul discorso giustificativo della decisione, finalizzata a sovrapporre la propria valutazione a quella già effettuata dai giudici di merito, dovendo il giudice della legittimità limitarsi a verificare l’adeguatezza delle considerazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per giustificare il suo convincimento”.
In coerenza con tali consolidati principi, e ferma restando la disamina analitica dei motivi proposti, l’infondatezza di gran parte di essi ha come filo conduttore la sollecitazione a rivisitare il fatto, in presenza di una doppia conforme pronuncia di condanna e della mera reiterazione di analoghi motivi proposti in appello, cui la CORTE territoriale ha fornito una risposta congrua e motivata – risposta peraltro da ricollegare a quanto illustrato dal GUP, e richiamato dal Collegio di appello -, senza che il ricorso contenga ulteriori repliche sostanzialmente innovative.
- Con riferimento al primo motivo, esso – come si è detto – censura una presunta incoerenza della motivazione, dalla quale non si evincerebbe in che cosa sarebbe consistita la minaccia implicita una volta esclusa l’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7, e posto che nemmeno dalle intercettazioni sarebbe possibile desumere l’esistenza di quella tipologia di minaccia implicita.
Sulla configurabilità della minaccia nel delitto di estorsione, è consolidato e condiviso l’orientamento di questa S.C., secondo cui (Sez. 2 sentenza n. 39336 del 07/10/2010 dep. 09/11/2010 Rv. 248870 – 01 imputato Cito) “integra il reato di estorsione non già l’esercizio di una generica pressione alla persuasione
o la formulazione di proposte esose o ingiustificate ma il ricorso a modalità tali da forzare la controparte a scelte in qualche modo obbligate, facendo sì che non le venga lasciata alcuna ragionevole alternativa tra il soggiacere alle altrui pretese o il subire, altrimenti, un pregiudizio diretto e immediato”. Occorre cioè (cf. Sez. 2 sentenza n. 13043 del 07/11/2000 dep. 14/12/2000 Rv. 217508 – 01 imputato Sala) non già “l’esercizio di una generica pressione alla persuasione o la formulazione di proposte esose o ingiustificate”, bensì “che l’agente si avvalga di modalità tali da forzare la controparte a scelte in qualche modo obbligate, facendo sì che non le venga lasciata alcuna ragionevole alternativa tra il soggiacere alle altrui pretese o il subire, altrimenti, un pregiudizio diretto e immediato”.
- Elemento qualificante è pertanto la concreta idoneità delle minacce a “coartare la libera determinazione della volontà, costringendo un soggetto a fare
o ad omettere qualcosa. (…) la nota giuridicamente pregnante di questo delitto consiste nel mettere la persona violentata o minacciata in condizioni di tale soggezione e dipendenza da non consentirle, senza un apprezzabile sacrificio della sua autonomia decisionale, alternative meno drastiche di quelle alle quali la stessa si considera costretta. (…) In questo senso, anche lo strumentale uso di mezzi leciti e di azioni astrattamente consentite perché in funzione dell’esercizio di un diritto, può avere un significato ricattatorio e genericamente estorsivo, quando lo scopo mediato che si vuole raggiungere sia quello di vessare l’altrui volontà. Non e’, perciò, tra l’altro, costitutiva della struttura oggettiva dell’estorsione la prospettazione di un male ingiusto (potendo la minaccia astrattamente tendere a realizzare un diritto riconosciuto e tutelato dall’ordinamento giuridico); ma quello che è assolutamente fondamentale e imprescindibile è che il soggetto in relazione all’intimidazione subita, non abbia spazi di apprezzabile scelta (…)”.
Nel caso concreto la CORTE territoriale ha con motivazione coerente ravvisato la configurabilità della minaccia nella evocazione di mali ingiusti attraverso il riferimento agli “amici” dell’imputato, che erano “molto amareggiati” per il comportamento da lui tenuto nei loro confronti: tali “amici” “sanno anche dove hai casa qui a (OMISSIS)”.
Come ha sottolineato il P.G. nella sue argomentate conclusioni, l’esclusione dell’aggravante mafiosa non ha ricadute in termini di non logicità della motivazione, nel momento in cui la minaccia implicita è stata ravvisata altrove, in condotte che rinviano al potenziale intervento di amicizie comunque pericolose, fra cui soggetti detenuti: in tale evocazione si è concretizzata la prospettazione alla persona offesa dei mali ingiusti.
La CORTE territoriale ha fornito anche una corretta lettura degli esiti delle telefonate intercettate, poiché ha spiegato che le imprecisioni contenute nella sentenza di primo grado su chi, fra imputato e persona offesa, avesse chiamato l’altro per primo, non hanno inciso sulla sostanza delle parole che l’uno aveva usato nei confronti dell’altro. Ha inoltre replicato alla circostanza dell’avvenuto arresto di B. nel 2009 nell’ambito di una indagine per criminalità mafiosa, ricordando che costui non ha precedenti penali né carichi pendenti, sì che deve ritenersi che quella remota vicenda giudiziaria non abbia avuto seguito, e per questo non incida sulla sua credibilità. Il primo motivo è pertanto manifestamente infondato.
- Manifestamente infondato è pure il secondo motivo, poiché formulato in termini del tutto generici: esso censura la presunta incoerenza fra le dichiarazioni della persona offesa e la lettura dell’informativa e delle intercettazioni, senza precisare quali sarebbero gli elementi di contraddizione, e limitandosi a ribadire la non attendibilità di B..
Manifestamente infondato è infine il terzo motivo, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 3, trattandosi di rilievo in fatto non sollevato nei motivi di appello.
Alla inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., valutati i profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità emergenti dal ricorso (Corte Cost. 13 giugno 2000, n. 186), al versamento della somma, che si ritiene equa, di Euro tremila a favore della Cassa delle Ammende.
PQM
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso in Roma, il 28 ottobre 2021.
Depositato in Cancelleria il 23 dicembre 2021
