RITENUTO IN FATTO
- Con il provvedimento in epigrafe, il Tribunale di Reggio Calabria ha rigettato la richiesta di riesame dell’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa nei confronti del ricorrente dal Giudice per le indagini preliminari del medesimo Tribunale il 17 agosto del 2019. Si contesta all’indagato il reato di cui all’art. 416- bis c.p., con funzioni direttive della omonima cosca della ‘ndrangheta denominata ” C.”, posta al vertice della “locale” radicata in Locri (capo 1 della imputazione provvisoria) ed, inoltre, due reati di estorsione aggravata, anche dall’art. 416-bis c.p., comma 1, uno in forma tentata ed uno in forma consumata (di cui rispettivamente ai capi 2 e 3 della imputazione provvisoria), commessi nei confronti di una stessa persona offesa, R.A., titolare di una impresa di costruzioni, cui veniva chiesto il pagamento di somme di danaro anche finalizzate ad assicurare la sicurezza dei cantieri e, dunque, con metodo e finalità mafiose.
- Ricorre per cassazione C.D., deducendo:
1) violazione di legge e vizio della motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza per i reati di estorsione.
Secondo il ricorrente, le emergenze investigative non avrebbero dimostrato la commissione di alcuna minaccia estorsiva e la motivazione del Tribunale sarebbe contraddittoria nella misura in cui avrebbe ritenuto sussistente un caso di cosiddetta “estorsione ambientale”, utilizzando circolarmente gli indizi di colpevolezza relativi al reato di cui all’art. 416-bis c.p., in ordine al quale il ricorrente risulta essere stato assolto in precedenti processi.
Quanto al tentativo di estorsione di cui al capo 2) – ma anche con riguardo alla estorsione consumata di cui al capo 3) – il ricorrente non avrebbe prestato alcun contributo concorsuale alle condotte commesse dai coindagati Z.G. e Z.B..
Si sostiene in ricorso che nelle condotte commesse dal ricorrente, in ordine al capo;
2) – definite come “scarse e insignificanti apparizioni” – non sarebbe rinvenibile alcuna minaccia, essendosi egli limitato a chiedere ad un vicino di casa della vittima (tale A.) di poterla incontrare, a rimanere silente in autovettura all’avvicinamento della persona offesa R. da parte dello Z.G. che era alla guida ed, infine, a salutare la vittima.
D’altra parte, nella richiesta estorsiva effettuata dallo Z.G. al R. non vi sarebbe stato alcun riferimento al ricorrente (fg. 12 del ricorso).
In ordine alla estorsione di cui al capo 3), l’indagato non sarebbe mai comparso nella vicenda, se non attraverso le dichiarazioni della persona offesa, secondo cui ella avrebbe avuto chiesto dal coindagato Z.B. la somma di Euro 1000 per conto del ricorrente.
In proposito, il ricorso segnala la tardività di tali dichiarazioni ed il carattere congetturale delle valutazioni del Tribunale sulla attendibilità del racconto del R..
Un ulteriore profilo di contraddizione della ordinanza impugnata è segnalato a fg. 16 del ricorso e riguarda il concorso di Z.B. nelle estorsioni, escluso con riguardo al capo 2) ed affermato con riguardo al capo 3);
2) vizio della motivazione in ordine alla sussistenza indiziaria del reato di cui all’art. 416-bis c.p..
Una volta sostenuta l’inconsistenza degli elementi investigativi quanto ai reati estorsivi, individuati dal Tribunale come prova indiretta del reato associativo, il ricorrente ritiene che sarebbero altrettanto privi di valenza dimostrativa gli ulteriori elementi indicati nell’ordinanza impugnata, costituiti dalle frequentazioni del ricorrente con esponenti della cosca nonchè dalle risultanze già valutate nell’ambito di altri procedimenti penali, nei quali il C.D. era stato assolto dal medesimo reato associativo contestatogli;
3) vizio della motivazione in ordine alla sussistenza delle esigenze cautelari, il Tribunale avendo offerto una motivazione generica e non adeguata a rappresentarne la concretezza ed attualità.
Si dà atto che nell’interesse del ricorrente sono stati depositati motivi nuovi.
Diritto
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è manifestamente infondato.
1.1. Punto di partenza dell’analisi relativa ai motivi che ineriscono alla sussistenza degli indizi di colpevolezza, è il rilievo che il Tribunale, con dovizia di argomentazioni e nel pieno esercizio dei suoi poteri di giudice del merito, ha attribuito piena attendibilità alle dichiarazioni della persona offesa R.A., vittima delle richieste estorsive ascritte all’indagato e ad altri correi.
L’attendibilità della vittima non è neanche messa in discussione in ricorso, se non segnalando la tardività di alcune dichiarazioni relative alla vicenda di cui al capo 3), che attiene alla richiesta al R. di 1000 Euro da parte dei coindagato Z.B..
Tale aspetto di presunta criticità del narrato della persona offesa, è stato ampiamente superato dal Tribunale, con giudizio di fatto non rivedibile in questa sede in quanto privo di vizi logici, essendosi evidenziata la mole di riscontri esterni al racconto della vittima (costituiti da altre dichiarazioni del di lei cugino R.L. e da intercettazioni) ed anche, attraverso attenta disamina, il percorso di difficile collaborazione del R.A., solo gradualmente risoltosi a svelare agli inquirenti tutte le richieste estorsive subite e solo dopo ennesime intimidazioni ricevute, come il ritrovamento di bossoli di cartucce.
1.2. Sulla base delle dichiarazioni del R. – una volta asseveratane l’attendibilità – è emersa la circostanza, neanche direttamente posta in dubbio in ricorso, che i coindagati del ricorrente ( Z.G. per il capo 2 e Z.B. per il capo 3) avessero posto in essere richieste estorsive alla persona offesa.
Nella vicenda relativa alla tentata estorsione di cui al capo 2), non è contestato il fatto che tale richiesta dello Z.G., alla quale la vittima si era opposta, avesse avuto riguardo alla cosiddetta “messa a posto” di un cantiere che il R. aveva aperto per effettuare un lavoro edile, attraverso il versamento di 18.000 mila Euro in tre rate.
1.3. Ciò premesso, il Tribunale, con giudizio di merito privo di vizi, ha individuato una serie di comportamenti posti in essere dallo Z.G. che sono stati ritenuti prodromici al perfezionamento della richiesta estorsiva finale, chiara ed esplicita, di “messa a posto” (o di “aggiustamento”, che è la stessa cosa).
Nell’ambito di tali comportamenti di avvicinamento della persona offesa, si era inserita la condotta del ricorrente, nei segmenti indicati nello stesso ricorso (fg. 12), tra i quali spicca l’inseguimento dell’auto della vittima da parte dello Z. e del C., a bordo della loro autovettura guidata dal primo e le frasi dette dallo Z. in quella circostanza, alludendo al fatto che il R. si stesse “comportando male”, mentre il ricorrente, silente in auto, guardava la persona offesa con un fare da ella percepito come minaccioso (ed in questo senso riferito anche al cugino R.L. in un dialogo captato).
Una volta che il Tribunale ha ritenuto – e qui si tratta di giudizio eminentemente di merito – che le varie condotte dello Z.G. fossero state tutte finalizzate ad avvicinare la persona offesa per rivolgerle una esplicita richiesta estorsiva di “messa a posto dei cantieri”, vale a dire di pagamento di somme di danaro per assicurarne la “sicurezza”, le deduzioni difensive, volte a segnalare l’assenza di minaccia nei comportamenti specifici del ricorrente, perdono di significato dimostrativo, avendo egli presenziato ad alcune delle occasioni nelle quali lo Z.G. aveva già messo in opera le condotte finalizzate al raggiungimento dell’obbiettivo illecito, condiviso con il C. e per il quale occorreva creare una occasione di dialogo de visu con l’imprenditore.
D’altra parte, il ricorso non adombra alcun profilo che attiene alla sussistenza dell’elemento soggettivo in capo al ricorrente – difficilmente sostenibile per quanto a breve si dirà sul reato associativo del pari contestato, che individua la caratura mafiosa del ricorrente ben nota alla vittima – ma soltanto l’assenza dell’elemento oggettivo della minaccia nelle sue precipue condotte, perdendo di vista la valutazione d’insieme del contesto nel quale tali condotte sono state inserite dal Tribunale, in pendant con quelle commesse dallo Z.G., culminate nei termini detti.
1.4. L’incondizionata attendibilità attribuita dal Tribunale al racconto della vittima, consente di ritenere il ricorrente compromesso anche nella richiesta di 1000 Euro effettuata dal coindagato Z.B. al medesimo R. (capo 3), indipendentemente dalla causale della richiesta, siccome, infine, ricondotta dall’ordinanza impugnata sempre alla stessa matrice estorsiva e che lo Z. aveva veicolato spendendo espressamente il nome del ricorrente e per suo conto.
1.5. Ne consegue, in punto di diritto, la sicura riferibilità delle condotte commesse dal ricorrente al paradigma del reato di estorsione con oggettivo metodo mafioso, secondo la pacifica giurisprudenza di legittimità, secondo la quale, in tema di estorsione cd. “ambientale”, integra la circostanza aggravante del metodo mafioso di cui al D.L. 13 maggio 1991, n. 152, art. 7, conv. nella L. 12 luglio 1991, n. 203 (ora art. 416-bis c.p., comma 1), la condotta di chi, pur senza fare uso di una esplicita minaccia, pretenda dalla persona offesa il pagamento di somme di denaro per assicurarle protezione, in un territorio notoriamente soggetto all’influsso di consorterie mafiose, senza che sia necessario che la vittima conosca l’estorsore e la sua appartenenza ad un clan determinato. (Nella specie, la Corte ha ritenuto sussistere la circostanza aggravante nella richiesta ad un commerciante di denaro a fronte di protezione, dopo che il negozio era stato danneggiato varie volte, in un quartiere ad alta densità mafiosa). (Sez. 2, Sentenza n. 21707 del 17/04/2019, Barone, Rv. 276115). Massime precedenti Conformi: N. 32 del 2017 Rv. 268759, N. 22976 del 2017 Rv. 270175 Massime precedenti Vedi: N. 21562 del 2015 Rv. 263706, N. 53652 del 2014 Rv. 261632, N. 19245 del 2017 Rv. 269938, N. 20187 del 2015 Rv. 263570.
Con particolare riferimento alla cosiddetta “messa a posto”, Sez. 1, Sentenza n. 33245 del 09/05/2013, Lo Nardo, Rv. 256990.
La dimensione “allargata” – e, dunque, in quel contesto, mafiosa – della richiesta estorsiva dello Z.G., era stata evidenziata alla vittima, non a caso, attraverso il riferimento del coindagato al fatto che egli non fosse “solo”, ma “vi erano pure quegli altri”, peraltro ben sapendo il R., proprio in forza del legame tra Z.G. ed il ricorrente, direttamente evidenziatosi ai suoi occhi, che tale allusione fosse riferibile anche al C., del quale alla persona offesa era noto lo spessore criminale, in quanto riveniente da vicende giudiziarie di rilevanza mafiosa che avevano riguardato personalmente l’indagato e che avevano individuato l’esistenza, non contestata in ricorso, di una omonima cosca di ‘ndrangheta (formata da molti suoi congiunti di sangue) proprio nel territorio nel quale il R. svolgeva la sua attività imprenditoriale.
Nel che, deve apprezzarsi non la presunta, illogica circolarità del ragionamento del Tribunale, come si sostiene in ricorso, ma la vicendevole ed intrecciata valenza indiziaria degli elementi investigativi a carico del ricorrente, valevoli, in fin dei conti, sia per la dimostrazione della partecipazione ai reati estorsivi, che per la dimostrazione della sua intraneità al sodalizio criminale organizzato, secondo la contestazione di cui al capo n. 1) della imputazione provvisoria, non a caso ascritta anche allo Z.G., il latore della richiesta estorsiva sub capo 2).
Tanto supera ed assorbe ogni diversa argomentazione difensiva.
2.1. Quanto si è fin qui precisato, consente di ritenere inconsistente anche il secondo motivo di ricorso, poichè viene a cadere l’assunto difensivo volto ad escludere la rilevanza della commissione dei reati-fine per la prova del reato associativo.
Asseverandosi in questa sede ed in ragione di quanto detto la ricostruzione di merito operata dal Tribunale con riguardo alle vicende estorsive, è vero l’opposto; sicchè, del tutto correttamente, l’ordinanza impugnata ha richiamato il pacifico insegnamento di legittimità – non contestato dal ricorrente in punto di diritto e valevole a maggior ragione in fase cautelare – secondo il quale, in tema di associazione per delinquere (nella specie di stampo mafioso), è consentito al giudice, pur nell’autonomia del reato-mezzo rispetto ai reati-fine, dedurre la prova dell’esistenza del sodalizio criminoso dalla commissione dei delitti rientranti nel programma comune e dalle loro modalità esecutive, posto che attraverso di essi si manifesta in concreto l’operatività dell’associazione medesima (Sez. U, n. 10 del 28/03/2001, Cinalli; Sez. 2, n. 19435 del 31/03/2016, Ficara, Rv. 266670).
2.2. A ciò si aggiunga che l’ordinanza impugnata ha valorizzato ulteriori elementi dimostrativi della intraneità del ricorrente alla omonima cosca di ‘ndrangheta, sottolineando le frequentazioni del C. con altri esponenti del sodalizio, la rilevanza di dati tratti dai suoi precedenti penali ed anche dai processi conclusi in senso a lui favorevole – non tutti, se si ha riguardo al precedente per agevolazione della latitanza di un killer della cosca, indicato a fg. 23 del provvedimento impugnato – il fatto che un coindagato nel presente procedimento lo chiamasse “principale” e fungesse da suo autista e, infine, la preoccupazione per le microspie manifestate nelle conversazioni intercettate in questo procedimento.
Nella valorizzazione di tali elementi – posta la loro sinergia, siccome evidenziata dal Tribunale ed idonea a superare ogni diversa obiezione del ricorrente – non si rinvengono errori di diritto, dal momento che, in tema di associazione di tipo mafioso, la mera frequentazione di soggetti affiliati al sodalizio criminale per motivi di parentela, amicizia o rapporti d’affari ovvero la presenza di occasionali o sporadici contatti in occasione di eventi pubblici e in contesti territoriali ristretti non costituiscono elementi di per sè sintomatici dell’appartenenza all’associazione, ma possono essere utilizzati come riscontri da valutare ai sensi dell’art. 192 c.p.p., comma 3, quando risultino qualificati da abituale o significativa reiterazione e connotati dal necessario carattere individualizzante (Sez. 2, Sentenza n. 6272 del 19/01/2017, Corigliano, Rv. 269294 Massime precedenti Conformi: N. 24469 del 2009 Rv. 244382, N. 9185 del 2012 Rv. 252281).
Ed, inoltre, è legittima la valutazione, con autonomo giudizio, di circostanze di fatto raccolte nel corso di altro procedimento penale, in quanto la preclusione di un nuovo giudizio impedisce soltanto l’esercizio dell’azione penale in ordine al reato che è stato oggetto del giudicato, mentre non riguarda la rinnovata valutazione di dette circostanze, una volta stabilito che le stesse possano essere rilevanti per l’accertamento di reati diversi da quelli già giudicati (Sez. 2, n. 41003 del 20/09/2013, Bianco, Rv. 257239 Massime precedenti Conformi: N. 2110 del 1995 Rv. 203765, N. 45153 del 2008 Rv. 242210, Sez. 1, n. 1495 del 02/12/1998, dep. Archinà, Rv. 212271. Le ultime due attengono, più in particolare, al giudicato assolutorio, mentre la diversità degli odierni fatti ex art. 416-bis c.p., rispetto a quelli coperti da assoluzione è rinvenibile sotto il profilo del tempus commissi delicti).
- Con riguardo all’ultimo motivo di ricorso, che inerisce al profilo delle esigenze cautelari, se ne deve rilevare la genericità, al cospetto della doppia presunzione di legge prevista dall’art. 275 c.p.p., comma 3, quanto al reato di cui all’art. 416-bis c.p., in relazione alla sussistenza delle esigenze cautelari ed alla adeguatezza della massima misura custodiale.
Il Tribunale ha ribadito la presenza di tutte le esigenze cautelari ed il ricorrente non ha adombrato alcunchè di specifico volto a superare le presunzioni legali. Tutte le considerazioni che precedono assorbono ogni altra considerazione difensiva, anche in relazione al contenuto dei motivi nuovi, la cui inammissibilità deriva da quella del ricorso principale, ex art. 585 c.p.p., comma 4. Alla declaratoria di inammissibilità consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila alla Cassa delle Ammende, commisurata all’effettivo grado di colpa dello stesso ricorrente nella determinazione della causa di inammissibilità.
PQM
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila a favore della Cassa delle Ammende. Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1-ter.
Così deciso in Roma, udienza in camera di consiglio, il 24 giugno 2020.
Depositato in Cancelleria il 17 luglio 2020
