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Cassazione penale sez. II, 19/09/2025, n. 31532

Massima

È inammissibile il ricorso per cassazione nel caso in cui manchi la correlazione tra le ragioni poste a fondamento dalla decisione impugnata e quelle argomentate nell’atto di impugnazione, atteso che quest’ultimo non può ignorare le affermazioni del provvedimento censurato.

Supporto alla lettura

RICORSO PER CASSAZIONE

Il ricorso per cassazione, nel processo penale, disciplinato dagli art. 606 e ss. c.p.c, è un mezzo di impugnazione ordinario, costituzionalmente previsto avverso i provvedimenti limitativi della libertà personale ed esperibile negli altri casi previsti dal codice di procedura penale, tramite il quale l’impugnante lamenta un errore di diritto compiuto dal giudice nell’applicazione delle norme di diritto sostanziale (c.d. error in iudicando) o di diritto processuale (c.d. error in procedendo).

Legittimata a ricorrere è la parte che vi abbia interesse e conseguentemente le parti necessarie quali l’imputato (a mezzo di difensore abilitato al patrocinio avanti le giurisdizioni superiori) e il pubblico ministero. Altresì, possono proporre ricorso anche le parti ritualmente costituite come la parte civile, civilmente responsabile, civilmente obbligato per la pena pecuniaria.

I giudici della Cassazione possono decidere soltanto nell’ambito dei motivi palesati dal ricorrente, in quanto il giudizio verte sulla fondatezza di tali motivi che devono corrispondere alle ipotesi tassativamente previste dall’art. 606 c.p.p.:

  • eccesso di potere;
  • error in iudicando;
  • error in procedendo;
  • mancata assunzione di una prova decisiva;
  • carenza o manifesta illogicità della motivazione.

Il ricorso può essere presentato da una parte o da un suo difensore, che deve essere iscritto ad un albo speciale predisposto dalla Corte stessa, (in mancanza viene nominato uno d’ufficio), quindi il Presidente della Cassazione assegna il ricorso ad una delle sei sezioni della Corte a seconda della materia e di altri criteri stabiliti dall’ordinamento giudiziario. Se rileva l’inammissibilità del ricorso, lo assegna alla VII Sezione Penale (c.d. Sezione Filtro), composta dai magistrati di Cassazione delle altre Sezioni Penali che vi si alternano a rotazione biennale. Entro 30 giorni la sezione adìta si riunisce in Camera di Consiglio e decide se effettivamente esiste la causa evidenziata dal Presidente, in mancanza rimette gli atti a quest’ultimo. Come nel procedimento civile, la Cassazione si riunisce a “Sezioni Unite” quando deve decidere una questione sulla quale esistono pronunce contrastanti della Corte di Cassazione stessa o per questioni di importanza rilevante.

Qualora non si proceda in camera di consiglio, l’art. 614 c.p.p. prevede l’ovvia fase dibattimentale. Particolarità è che la sentenza non viene emanata dopo la chiusura del dibattimento, ma subito dopo il termine dell’udienza pubblica. Tuttavia il presidente può decidere di differire la deliberazione ad un’udienza successiva se le questioni sono numerose o particolarmente importanti e complesse.

Sono quattro i tipi di sentenza che la Corte può emettere:

  • di inammissibilità;
  • di rigetto;
  • di rettificazione;
  • di annullamento (con rinvio o senza rinvio).

Come per il procedimento civile, anche nel processo penale è previsto il “ricorso per saltum“, cioè dal primo grado direttamente in Cassazione (art. 569 c.p.p.), è importante precisare che non si può ricorrere per saltum per i motivi alle lettere d) ed e) dell’art. 606 c.p.p. (prove non ammesse in giudizi di grado inferiore e per illogicità o motivazione carente nella sentenza) in quanto la Cassazione ha potere cognitivo di merito molto ristretto.

Ambito oggettivo di applicazione

RITENUTO IN FATTO

1. Il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Reggio Calabria impugna l’ordinanza in data 10/04/2025 del Tribunale di Reggio Calabria, che ha annullato il decreto in data 13/02/2025 del G.i.p. del Tribunale di Reggio Calabria, che aveva disposto il sequestro preventivo di somme di denaro nei confronti di più indagati, tra i quali (omissis), in relazione ai reati di truffa, tentativo di truffa, rubricati ai capi 136, 188 e 189.

Deduce:

1.1. Violazione di legge in relazione agli artt. 640, comma secondo, cod. pen. e agli artt. 3 e 4 del decreto legislativo n. 74/2000.

Con un primo motivo il Pubblico Ministero deduce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli artt. 240 e 640, comma 2, n. 1, c.p., nonché agli artt. 3 e 4 D.Lgs. n. 74/2000.

Il ricorrente premette che il GIP aveva disposto il sequestro preventivo, ai fini di confisca, di complessivi Euro 718.426,25, corrispondenti ad Euro 406.306,96 quale ammontare dei rimborsi fiscali indebitamente percepiti dai contribuenti e ad Euro 312.119,29 quale profitto dell’associazione criminosa di cui al capo 1, evidenziando la sussistenza di un gruppo organizzato, facente capo ad (omissis), (omissis) e (omissis), dedito all’illecita percezione di rimborsi dall’Agenzia delle Entrate, con ripartizione delle somme nella misura del 60% ai contribuenti e del 40% agli associati.

Il Tribunale del riesame ha tuttavia annullato in gran parte la misura, ritenendo la condotta sussumibile in mere dichiarazioni infedeli, sotto la soglia di punibilità ai sensi del decreto legislativo n. 74/2000.

Secondo il pubblico ministero, tale qualificazione giuridica è erronea, in quanto il fatto integra il reato di truffa aggravata ai danni dello Stato ex art. 640, comma 2, n. 1, cod. pen., che non conosce soglie di punibilità e che va ravvisato, non già nella sola presentazione delle dichiarazioni fiscali, bensì nel più ampio meccanismo fraudolento posto in essere dall’associazione.

Sostiene che tale valutazione, oltre a frammentare atomisticamente le singole posizioni dei contribuenti, non tiene conto della natura organizzata e artificiosa dell’attività delittuosa, caratterizzata dall’inserimento di dati fittizi, dall’impiego di artifizi e raggiri e dal perseguimento di un profitto indebito di rilevante entità mediante una struttura associativa stabile.

In particolare, il ricorrente richiama le numerose condotte decettive ricostruite dagli atti: creazione e utilizzo di falsi profili di operatori CAF e di sistemi di caricamento da remoto (web-based) dei modelli 730; costruzione di identità fittizie di soggetti estranei o inesistenti e inserimento di falsi familiari a carico, contratti e certificazioni; acquisizione e impiego di dati identificativi e di credenziali di accesso (PIN/SPID) ai sistemi dell’Agenzia delle Entrate e dell’INPS; accessi abusivi ai sistemi informatici pubblici; utilizzo di IBAN e carte prepagate (soprattutto PostePay) per l’accredito dei rimborsi; creazione di una rete di centri di raccolta e di compiacenti presso CAF, con successiva spartizione dei proventi; presentazione seriale di pratiche “sotto soglia” scientemente frazionate al fine di eludere i controlli.

Tali condotte, secondo il ricorrente, lungi dall’esaurirsi in mere dichiarazioni infedeli, costituiscono veri e propri artifici e raggiri, idonei ad indurre in errore l’Amministrazione finanziaria e a determinare l’erogazione di somme di denaro, integrando quindi il delitto di truffa aggravata.

Quanto alla corretta modalità di individuazione del superamento della soglia di punibilità, il pubblico ministero sostiene che non è consentito frammentare i profitti in relazione a ogni singola dichiarazione, dovendosi, invece, considerare l’unitario disegno criminoso perseguito dall’associazione e l’ammontare complessivo dei rimborsi indebitamente ottenuti, certamente superiore alla soglia di punibilità.

Da ciò trae la conseguenza che il profitto confiscabile ex art. 240 cod. pen. comprende sia le somme direttamente rimborsate ai contribuenti, sia la quota di prezzo/profitto destinata al gruppo associativo.

Secondo il ricorrente, dunque, l’ordinanza impugnata avrebbe illegittimamente escluso l’integrazione del delitto di truffa aggravata, degradando i fatti a semplici dichiarazioni infedeli sotto-soglia, con conseguente annullamento del sequestro preventivo.

Il Pubblico Ministero chiede pertanto l’annullamento della decisione e il ripristino del vincolo reale sull’intero importo di Euro 718.426,25, corrispondente ai rimborsi indebitamente ottenuti ed al profitto dell’associazione criminosa.

1.2. Vizio di motivazione in relazione alla ritenuta non confiscabilità del denaro quale autonomo profitto dell’associazione per delinquere e violazione di legge in relazione agli artt. 240 e 416 cod. pen. (art. 606, comma 1, lett. b) ed e) cod. proc. pen. in relazione agli artt. 240 e 416 cod. pen.).

Con il secondo motivo il Pubblico Ministero deduce mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, nonché violazione di legge in relazione agli artt. 240 e 416 cod. pen., censurando l’ordinanza del Tribunale del riesame nella parte in cui ha escluso la confiscabilità del profitto dell’associazione.

Il G.I.P., valorizzando gli esiti investigativi, aveva individuato il profitto confiscabile nel complesso delle utilità affluite al sodalizio attraverso l’attuazione del programma criminoso, quantificate, in via generale, nel 40% dei rimborsi fiscali indebitamente percepiti dai contribuenti compiacenti – ovvero nell’intero importo nei casi di sostituzione fittizia – e aveva disposto il sequestro per equivalente fino alla concorrenza di tale ammontare.

Il Tribunale, richiamando arresti giurisprudenziali in tema di confisca nei reati plurisoggettivi (Cass., n. 31429/2021n. 14654/2024), ha ritenuto erroneo il criterio adottato, affermando che la confisca debba essere parametrata non al profitto unitario dell’associazione, ma alla quota effettivamente conseguita da ciascun correo, e che la percentuale del 40% non potesse fungere da regola generale.

Il pubblico ministero osserva che nell’ordinanza impugnata si afferma che il profitto confiscabile deve essere individuato unicamente nei reati-fine contestati ai singoli associati, escludendo che l’associazione potesse costituire centro autonomo di imputazione del vantaggio economico. In applicazione di tale impostazione, il Tribunale del riesame ha ritenuto arbitraria la quantificazione operata dal G.I.P. nella misura del 40% dei rimborsi fiscali indebitamente percepiti, reputando necessario un accertamento individualizzato dei benefici concretamente conseguiti da ciascun correo.

Tale ricostruzione, secondo il pubblico ministero ricorrente, si pone in contrasto con i principi espressi dalla giurisprudenza di legittimità, in particolare, con la sentenza delle Sezioni Unite n. 13783/2023, la quale ha chiarito che la confisca di somme di denaro, in quanto bene fungibile, può assumere natura diretta anche in assenza di prova puntuale della derivazione causale dal singolo reato, dovendo essere parametrata all’intero profitto dell’associazione criminosa, imputabile solidalmente a tutti i partecipi.

Secondo il pubblico ministero, l’impostazione del Tribunale confonde il profitto del singolo concorrente con quello proprio dell’associazione, che si sostanzia invece nell’insieme dei vantaggi economici derivanti dall’esecuzione del programma criminoso e che la misura genetica del sequestro aveva correttamente individuato nel criterio del 40%-60%.

A sostegno richiama l’orientamento secondo il quale, nel delitto associativo, il pretium sceleris è costituito dalle utilità complessivamente percepite dal sodalizio, indipendentemente dal riparto tra i singoli, con conseguente legittimità della confisca per equivalente parametrata al profitto unitario dell’associazione (Cass. n. 26725/2015n. 6507/2015n. 8785/2020).

Secondo il pubblico ministero, pertanto, l’ordinanza impugnata ha erroneamente escluso la configurabilità di un autonomo profitto dell’associazione per delinquere; ha erroneamente subordinato la misura alla previa identificazione del vantaggio percepito dal singolo concorrente; ha giudicato immotivata la determinazione percentuale del 40%, fondata invece su elementi investigativi acquisiti e, in particolare, sulle note della Guardia di Finanza.

Ne deriva, ad avviso del ricorrente, che il provvedimento impugnato risulta affetto da vizio di motivazione e da erronea applicazione della legge, dovendosi affermare la confiscabilità delle somme quale profitto dell’associazione, secondo un criterio di solidarietà tra i compartecipi del sodalizio criminoso.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è inammissibile.

Prima di affrontare le questioni sollevate con il ricorso, risulta utile ripercorrere i contenuti dell’ordinanza impugnata, nella quale i giudici, nell’ambito della più complessiva attività d’indagine, si occupano della specifica posizione di (omissis), con rilievi e osservazioni che, in realtà, risultano del tutto obliterate nell’atto d’impugnazione oggi in esame.

Il Tribunale ha osservato che il procedimento penale che vede coinvolto (omissis) trae origine da un’articolata indagine condotta dalla Guardia di Finanza di Reggio Calabria, teso a disvelare un meccanismo illecito imperniato sull’inserimento, nelle dichiarazioni fiscali, di dati non veritieri relativamente a crediti, spese e detrazioni, così da ottenere indebiti rimborsi IRPEF.

Secondo la prospettazione accusatoria, l’attività illecita era coordinata da (omissis), (omissis) e (omissis), con la collaborazione di ulteriori soggetti operanti come “procacciatori” di contribuenti compiacenti.

Tra i soggetti coinvolti veniva individuato (omissis), nei cui confronti, a seguito di perquisizioni e sequestri, emergevano evidenze documentali e informatiche riconducibili alla presentazione di dichiarazioni fiscali mendaci. Sul suo conto si rinvenivano, tra l’altro, messaggi WhatsApp con (omissis), dai quali risultava la consapevolezza circa la falsità delle operazioni poste in essere (“(omissis) mi devi dire i miei dati, che l’anno scorso non li hai dati, perché li devo rettificare”; “(omissis), poi li hanno dati, solo che hanno preso poco”).

Il G.I.P., valorizzando gli esiti delle indagini, aveva disposto nei confronti di (omissis) il sequestro di somme ritenute costituire il profitto del reato di truffa aggravata ai danni dello Stato, nonché prezzo e profitto dell’associazione criminosa contestata ai coindagati.

In particolare, a carico del (omissis) venivano evidenziati plurimi episodi di presentazione di dichiarazioni fiscali recanti dati non veritieri, accompagnati da elementi indiziari quali scambi di messaggi con il coindagato (omissis), nei quali si faceva riferimento all’inserimento di dati relativi a familiari e spese mediche non documentate. Dagli accertamenti emergeva che (omissis) aveva presentato dichiarazioni infedeli con riferimento agli anni d’imposta 2017, 2018 e 2019, dalle quali erano derivati indebiti rimborsi IRPEF oscillanti tra Euro 3.100 ed Euro 3.900 per singola annualità; mentre per gli anni 2020, 2021 e 2022 erano state ugualmente riscontrate dichiarazioni non veritiere, prive perdi effetti in termini di rimborso.

Il G.I.P., dunque, disponeva il sequestro di somme pari al 60% dei rimborsi effettivamente conseguiti, calcolati in Euro 406.306,96, a titolo di profitto del reato di truffa aggravata, nonché il sequestro del restante 40%, pari a Euro 312.119,29, quale compenso imputabile agli associati a titolo di prezzo del reato e profitto dell’associazione criminosa, oltre al sequestro diretto di Euro 4.747,45 rinvenuti su un conto corrente intestato al (omissis).

1.2. Così ripercorse le evidenze investigative, il Tribunale ha escluso che a carico di (omissis) potesse configurarsi il reato di truffa aggravata, difettando i necessari artifici e raggiri volti a indurre in errore l’amministrazione.

A tale proposito i giudici del riesame hanno evidenziato come la condotta realizzata dall’indagato si fosse esaurita nell’inserimento di dati mendaci nelle dichiarazioni fiscali, senza ulteriori comportamenti fraudolenti o di sviamento dei controlli.

I giudici hanno anche escluso la configurabilità di una frode fiscale ai sensi dell’art. 2 D.Lgs. 74/2000, giacché non risultavano vantaggi ulteriori rispetto all’imposta evasa, e visto che, comunque, le soglie di punibilità previste dalla legge (30.000 Euro per ciascun periodo d’imposta) non erano state superate.

La qualificazione giuridica della condotta è stata pertanto ricondotta all’ipotesi di dichiarazione infedele ex art. 4 D.Lgs. 74/2000, che punisce l’indicazione di elementi passivi fittizi o l’omessa indicazione di redditi nei limiti quantitativi di legge.

I giudici del riesame hanno altresì escluso la partecipazione di (omissis) all’associazione per delinquere, mancando elementi concreti da cui dedurre il suo inserimento stabile e consapevole nel sodalizio, essendo emersi soltanto rapporti episodici, limitati al perseguimento di interessi personali.

“È indimostrato – si legge nell’ordinanza impugnata alla pagina 8 – che (omissis) avesse cognizione del meccanismo criminoso plurisoggettivo che si muoveva dietro (omissis) (unico membro del sodalizio cui si è rapportato), non essendo tale consapevolezza enucleabile dagli scarni messaggi sopra riportati, tratti dallo smartphone del (omissis) medesimo: in altri termini, se è sostenibile che (omissis) abbia fruito della consulenza illecita di (omissis) per la redazione e l’inoltro di dichiarazioni infedeli che fruttavano in suo favore indebiti rimborsi, mettendo in contatto con (omissis) anche altri soggetti a lui vicini, non risulta da alcun elemento investigativo che (omissis) fosse a conoscenza del legame criminale tra (omissis) e (omissis) o (omissis), ovvero con gli altri indagati indicati nell’imputazione di cui al capo 1, né tantomeno degli stratagemmi illeciti che (omissis) e (omissis) talora utilizzavano per l’invio telematico delle dichiarazioni. È indimostrato allora che l’instante ((omissis) n.d.e.) avesse inteso supportare il sodalizio perseguito, condividendone il programma criminale, piuttosto che limitarsi a lucrare annualmente modesti introiti illeciti tramite l’espediente della dichiarazione infedele”.

Il Tribunale, pur escludendo la partecipazione di (omissis) al sodalizio criminoso, ha comunque rimarcato come fosse errata l’applicazione del principio solidaristico nei reati plurisoggettivi, in quanto le Sezioni Unite avevano chiarito che “in caso di concorso di persone nel reato, esclusa ogni forma di solidarietà passiva, la confisca deve essere disposta nei confronti di ciascun concorrente limitatamente a quanto dal medesimo conseguito, il cui accertamento costituisce oggetto di prova nel contraddittorio fra le parti e, solo in caso di mancata individuazione della quota di arricchimento del singolo concorrente, è legittima la ripartizione in parti uguali. (In motivazione, la Corte ha affermato che il medesimo principio opera in caso di sequestro finalizzato alla confisca, per il quale l’obbligo motivazionale del giudice va modulato in relazione allo sviluppo della fase procedimentale e agli elementi acquisiti)” (Sez. U, n. 13783 del 26/09/2024, dep. 2025, Massini, Rv. 287756-01).

2. Il Tribunale, dunque, è chiaro nell’escludere la partecipazione di (omissis) dall’associazione per delinquere e, in conseguenza di ciò rileva come le sue condotte si siano risolte nell’inoltro di dichiarazioni infedeli e il suo profitto sia coinciso con l’importo dell’evasione.

Tale determinazione del Tribunale viene del tutto trascurata dal pubblico ministero ricorrente, il quale: a) non indica elementi concreti – patologicamente trascurati dal Tribunale, al punto da configurare una violazione di legge nella specie del vizio di omessa motivazione – la cui valutazione avrebbe dovuto condurre a ritenere la partecipazione di (omissis) al sodalizio criminoso; b) sostiene la sussistenza di una truffa aggravata facendo riferimento a condotte riconducibili alla nozione di artifici e/o raggiri realizzati dal sodalizio, di cui è stata esclusa la partecipazione di (omissis), senza indicare condotte attribuibili a quest’ultimo; c) sostiene che la soglia di punibilità doveva ritenersi superata dovendosi assommare il profitto complessivamente conseguito dall’associazione, di cui, per è stata esclusa la partecipazione di (omissis); d) sostiene un principio di solidarietà passiva nei reati plurisoggettivi oramai superata all’indomani della sentenza delle Sezioni Unite n. 13783 del 26/09/2024 (dep. 2025, Massini, Rv. 287756-01).

Tanto conduce all’inammissibilità del ricorso, in quanto – di fatto – non si confronta con le ragioni argomentate del provvedimento impugnato, con particolare riferimento alla ritenuta estraneità di (omissis) al sodalizio criminoso.

A fronte di tale evenienza, infatti, va ribadito che “è inammissibile il ricorso per cassazione nel caso in cui manchi la correlazione tra le ragioni poste a fondamento dalla decisione impugnata e quelle argomentate nell’atto di impugnazione, atteso che questo non può ignorare le affermazioni del provvedimento censurato” (Sez. 4, n. 19364 del 14/03/2024, Delle Fazio, Rv. 286468-01).

Segue la declaratoria d’inammissibilità del ricorso.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso.

Così è deciso in Roma il 10 settembre 2025.

Depositata in Cancelleria il 19 settembre 2025.

Allegati

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