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Cassazione penale sez. II, 17/03/2022, n.17012

Massima

Sussiste il reato di estorsione del marito che minaccia di morte la moglie intimandole di consegnargli il denaro del reddito di cittadinanza – a lui intestato ed unica fonte di sostentamento del nucleo familiare – per acquistare sostanza stupefacente

Supporto alla lettura

Il delitto di estorsione si concreta, secondo la formula dell’art. 629 c.p., nel fatto di chi mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o ad omettere qualche cosa, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno. La norma descrive la condotta (la violenza e la minaccia), una serie di eventi naturalistici (il metus indotto nel soggetto passivo e la di lui conseguente condotta di disposizione patrimoniale, il danno e il profitto ingiusto) e il nesso causale tra la minaccia o la violenza e il comportamento collaborativo, ai quali conseguono danno e profitto. La fattispecie presenta una natura plurioffensiva in quanto il comportamento criminoso incide sia sulla libertà personale, sia sul patrimonio della persona offesa, perché la violenza o la minaccia produce come effetto un atto di disposizione patrimoniale implicante un danno economico per la vittima e un profitto per l’autore del reato. L’orientamento prevalente nella giurisprudenza di legittimità e la dottrina unanime distinguono i delitti di cui agli artt. 393 e 629 c.p. essenzialmente in relazione all’elemento psicologico: nel primo, l’agente perseguirebbe un profitto nella convinzione ragionevole, anche se in ipotesi infondata, di esercitare un suo diritto giudizialmente azionabile; nell’estorsione, invece, l’agente perseguirebbe un profitto nella consapevolezza di non averne diritto.
Altro orientamento ha, al contrario, valorizzato, ai fini della distinzione, la materialità del fatto, affermando che, nel delitto di cui all’art. 393 c.p., la condotta violenta o minacciosa non è fine a sé stessa, ma risulta strettamente connessa alla finalità dell’agente di far valere il preteso diritto, rispetto al cui conseguimento si pone come elemento accidentale, per cui non può mai consistere in manifestazioni sproporzionate e gratuite di violenza.
Le Sezioni Unite ritengono che il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone e quello di estorsione si differenzino tra loro in relazione all’elemento psicologico. Nel reato di estorsione, integra la circostanza aggravante del metodo mafioso (revista dall’art. 7, comma 1, d.l. n. 152 del 1991 (ora dall’art. 416.bis.1, comma 1, c.p.), l’utilizzo di un messaggio intimidatorio anche silente, cioè privo di una esplicita richiesta, qualora l’associazione abbia raggiunto una forza intimidatrice tale da rendere superfluo l’avvertimento mafioso, sia pure implicito. Secondo la giurisprudenza, La struttura della circostanza aggravante non presuppone necessariamente l’esistenza di una associazione ex art. 416-bis c.p., né che l’agente ne faccia parte, essendo sufficiente, ai fini della sua configurazione, il ricorso a modalità della condotta che evochino la forza intimidatrice tipica dell’agire mafioso. Ne consegue che, come affermato dalla giurisprudenza di legittimità, la ratio della disposizione non è solo quella di punire con pena più grave coloro che commettono reati utilizzando metodi mafiosi o con il fine di agevolare le associazioni mafiose, ma essenzialmente quella di contrastare in maniera più decisa, stante la loro maggiore pericolosità e determinazione criminosa, l’atteggiamento di coloro che, siano essi partecipi o meno in reati associativi, si comportino da mafiosi, oppure ostentino in maniera evidente e provocatorie una condotta idonea ad esercitare sui soggetti passivi, quella particolare coartazione e quella conseguente intimidazione, propria delle organizzazioni della specie considerata.

Ambito oggettivo di applicazione

RITENUTO IN FATTO

  1. La Corte di appello Di Napoli confermava la responsabilità del R. per il reato di estorsione. Si contestava al ricorrente di avere minacciato di morte la moglie impugnando un martello e di averle scagliato contro una lampada intimandole di consegnargli il denaro del reddito di cittadinanza (a lui intestato ed unica fonte di sostentamento del nucleo familiare) per acquistare sostanza stupefacente.
  2. Avverso tale sentenza proponeva ricorso per cassazione il difensore, che deduceva: 2.1. violazione di legge e vizio di motivazione: si contestava l’assenza degli elementi costitutivi dell’estorsione ed, in particolare, della minaccia rivolta contro la persona dato che dalle prove raccolte sarebbe emerso che l’aggressione sarebbe stata rivolta unicamente nei confronti delle cose e si sarebbe risolta in una sorta di “sfogo” dovuto alla situazione di astinenza nella quale versava il ricorrente.

2.2 Violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla qualificazione giuridica del fatto: il ricorrente avrebbe agito esclusivamente per entrare in possesso del denaro proveniente dal reddito di cittadinanza a lui intestato, pertanto il fatto avrebbe dovuto essere definito come esercizio arbitrario delle proprie ragioni.

CONSIDERATO IN DIRITTO

  1. Il primo motivo di ricorso è inammissibile: si risolve nella proposta di una lettura alternativa delle emergenze processuali, e non individua fratture logiche manifeste e decisive del percorso motivazionale.

Il collegio in materia di vizio di motivazione ribadisce che il sindacato del giudice di legittimità sulla motivazione del provvedimento impugnato deve essere volto a verificare che quest’ultima: a) sia “effettiva”, ovvero realmente idonea a rappresentare le ragioni che il giudicante ha posto a base della decisione adottata; b) non sia “manifestamente illogica”, perché sorretta, nei suoi punti essenziali, da argomentazioni non viziate da evidenti errori nell’applicazione delle regole della logica; c) non sia internamente “contraddittoria”, ovvero esente da insormontabili incongruenze tra le sue diverse parti o da inconciliabilità logiche tra le affermazioni in essa contenute; d) non risulti logicamente “incompatibile” con “altri atti del processo” (indicati in termini specifici ed esaustivi dal ricorrente nei motivi posti a sostegno del ricorso) in misura tale da risultarne vanificata o radicalmente inficiata sotto il profilo logico (Sez. 1, n. 41738 del 19/10/2011, Longo, Rv. 251516); segnatamente: non sono deducibili censure attinenti a vizi della motivazione diversi dalla sua mancanza, dalla sua manifesta illogicità, dalla sua contraddittorietà (intrinseca o con atto probatorio ignorato quando esistente, o affermato quando mancante), su aspetti essenziali ad imporre diversa conclusione del processo; per cui sono inammissibili tutte le doglianze che “attaccano” la persuasività, l’inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualità, la stessa illogicità quando non manifesta, così come quelle che sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti dell’attendibilità, della credibilità, dello spessore della valenza probatoria del singolo elemento (Sez. 6 n. 13809 del 17/03/2015,0., Rv. 262965).

Nel caso in esame, contrariamente a quanto dedotto, dal compendio motivazionale integrato composto dalle due sentenze di merito emergeva che il tentativo di aggressione rivolto contro la persona offesa – e non solo contro le cose – era stato osservato dagli operanti intervenuti, circostanza che rende particolarmente solido il quadro probatorio a carico ricorrente (pag. 4 della sentenza impugnata).

La motivazione offerta dalla Corte territoriale è priva di vizi logici manifesti e decisivi e si presenta coerente sia con le indicazioni ermeneutiche offerte dalla Corte di legittimità, che con le emergenze processuali: si sottrae pertanto ad ogni censura in questa sede.

  1. Il secondo motivo di ricorso è infondato.

Il collegio rileva che, sebbene la carta che consentiva l’accesso al reddito di cittadinanza fosse intestata al ricorrente, il suo impossessamento non si risolve nella apprensione di un bene “proprio”, tenuto conto del fatto che il reddito di cittadinanza è un sussidio che soccorre l’intero nucleo familiare, come si evince dal fatto che viene elargito sulla base di certificazioni relative alla posizione reddituale di tutti i componenti della famiglia.

Si ritiene cioè che, quando il reddito è stato concesso sulla base della valutazione della posizione di un intero nucleo familiare, la apprensione illegittima della carta che

consente l’accesso allo stesso riguarda somme destinate a tutti i componenti della famiglia e non solo all’intestatario del reddito; il che, nel caso di specie, consente di ritenere integrata l’estorsione, dato che la violenza esercitata dal R. era diretta ad apprendere somme destinate al sostentamento non solo suo, ma dell’intera famiglia. La Corte di appello, in coerenza con tale interpretazione, rilevava che destinataria dell’assegno era la famiglia anagrafica dell’intestatario comprensiva dei coniugi separati o divorziati residenti nella stessa abitazione e dei figli sotto i ventisei anni non conviventi a carico dei genitori e riteneva, pertanto, integrata l’estorsione (pag. 7 della sentenza impugnata).

  1. Ai sensi dell’art. 616 c.p.p., con il provvedimento che rigetta il ricorso la parte che lo ha proposto deve essere condannata al pagamento delle spese del procedimento.

PQM

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 17 marzo 2022.

Depositato in Cancelleria il 2 maggio 2022

 

Allegati

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