• Home
  • >
  • Cassazione penale sez. II, 04/04/2024, n.18866

Cassazione penale sez. II, 04/04/2024, n.18866

Massima

In caso di condanna per il delitto di associazione per delinquere, può essere ordinata, in presenza di adeguato accertamento della pericolosità sociale, una misura di sicurezza personale ex art. 417, c.p., posto che il richiamo ivi previsto ai “due articoli precedenti” deve intendersi riferito agli artt. 416 e 416-bis, c.p., e non all’art. 416-ter, c.p., introdotto successivamente all’art. 417, c.p. e che, pertanto, non lo contemplava.

 

Supporto alla lettura

REATI ASSOCIATIVI

I reati associativi riguardano l’azione criminosa di un gruppo di individui ( almeno tre persone), legati da un vincolo stabile nell’ ambito di una organizzazione, con uno scopo criminale comune, specifico e predeterminato,  idonea a realizzare il programma criminale previamente concordato. Dunque, gli elementi costitutivi dei reati associativi sono:

  • il vincolo  associativo continuato e permanente
  • l’esistenza di una struttura organizzativa
  • indeterminatezza del programma criminoso.

ART. 416 C.P. – ASSOCIAZIONE PER DELINQUERE

L’art 416 cp sanziona penalmente coloro che promuovonocostituiscono oppure organizzano l’associazione per delinquere, oltre  ai soggetti che decidono di parteciparvi.

1. Quando tre o più persone si associano allo scopo di commettere più delitti, coloro che promuovono o costituiscono od organizzano l’associazione sono puniti, per ciò solo, con la reclusione da tre a sette anni.
2. Per il solo fatto di partecipare all’associazione, la pena è della reclusione da uno a cinque anni.
3. I capi soggiacciono alla stessa pena stabilita per i promotori.
4. Se gli associati scorrono in armi le campagne o le pubbliche vie, si applica la reclusione da cinque a quindici anni.
5. La pena è aumentata se il numero degli associati è di dieci o più.
6. Se l’associazione è diretta a commettere taluno dei delitti di cui agli articoli 600, 601 , 601-bis e 602, nonché all’articolo 12, comma 3-bis, del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, nonché agli articoli 22, commi 3 e 4, e 22-bis, comma 1, della legge 1 aprile 1999, n. 91,si applica la reclusione da cinque a quindici anni nei casi previsti dal primo comma e da quattro a nove anni nei casi previsti dal secondo comma.
7. Se l’associazione è diretta a commettere taluno dei delitti previsti dagli articoli 600-bis, 600-ter, 600-quater, 600-quater.1, 600-quinquies, 609-bis, quando il fatto è commesso in danno di un minore di anni diciotto, 609-quater, 609-quinquies, 609-octies, quando il fatto è commesso in danno di un minore di anni diciotto, e 609-undecies, si applica la reclusione da quattro a otto anni nei casi previsti dal primo comma e la reclusione da due a sei anni nei casi previsti dal secondo comma.

Per quanto concerne i capi dell’associazione questi soggiacciono alla stessa pena stabilita per i promotori.
L’articolo prevede pene più gravi nel caso in cui gli associati utilizzino armi nelle campagne o nelle pubbliche vie ed anche per il caso in cui il numero degli associati sia superiore a dieci.

Ulteriori circostanze aggravanti che prevedono pene più severe si applicano quando l’associazione è diretta a commettere alcuni reati come la riduzione in schiavitù, la tratta di persone, in materia di immigrazione o un reato che appartiene alla categoria dei reati sessuali.

N.B Si differenzia dall’associazione per delinquere l’istituto del concorso di persone nel reato continuato disciplinato dall’art. 110 c.p. sulla base del carattere che assume l’accordo criminoso. Nel caso del concorso di persone nel reato continuato, l’ accorso criminoso è meramente occasionale, legato in modo diretto alla realizzazione di uno o più reati ben individuati che, una volta realizzati, esauriscono l’accordo tra i correi. L’associazione, invece, è diretta alla realizzazione di un più ampio programma criminoso ed è caratterizzata dalla presenza di elementi che devono necessariamente coesistere, in particolare il vincolo associativo di natura tendenzialmente permanente e stabile, destinato a durare oltre la realizzazione dei delitti già eventualmente programmati.

  ART. 416 bis c.p. – ASSOCIAZIONI DI TIPO MAFIOSO ANCHE STRANIERE 

L’ art. 416 bis  è stato introdotto nel Codice penale con la legge Rognoni – La Torre del 1982 e sanziona penalmente il delitto di associazione mafiosa, al fine di tutelare l’ordine pubblico  concentrando l’ attenzione sul concetto di “fenomeno mafioso” e costituendo una specificazione del reato di cui all’articolo 416 c.p.

“1. Chiunque fa parte di un’associazione di tipo mafioso formata da tre o più persone, è punito con la reclusione da dieci a quindici anni.
2. Coloro che promuovono, dirigono o organizzano l’associazione sono puniti, per ciò solo, con la reclusione da dodici a diciotto anni.
3. L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sè o per altri ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sè o ad altri in occasione di consultazioni elettorali.
4. Se l’associazione è armata si applica la pena della reclusione da dodici a venti anni nei casi previsti dal primo comma e da quindici a ventisei anni nei casi previsti dal secondo comma.
5. L’associazione si considera armata quando i partecipanti hanno la disponibilità, per il conseguimento della finalità dell’associazione, di armi o materie esplodenti, anche se occultate o tenute in luogo di deposito.
6. Se le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo sono finanziate in tutto o in parte con il prezzo, il prodotto, o il profitto di delitti, le pene stabilite nei commi precedenti sono aumentate da un terzo alla metà.
7. Nei confronti del condannato è sempre obbligatoria la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prezzo, il prodotto, il profitto o che ne costituiscono l’impiego.
8. Le disposizioni del presente articolo si applicano anche alla camorra, alla ‘ndrangheta e alle altre associazioni, comunque localmente denominate, anche straniere, che valendosi della forza intimidatrice del vincolo associativo perseguono scopi corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso”

Diversamente dal reato di associazione per delinquere, il reato di associazione di tipo mafioso esige come requisito per la sua applicabilità la partecipazione dell’affiliato nell’organizzazione criminale, utilizzando in quest’ultima il c.d. metodo mafioso, ovvero la forza del vincolo associativo e la condizione di omertà delle vittime. Inoltre, la finalità delle associazioni di tipo mafioso, oltre a quella di commettere delitti (come per l’associazione per delinquere), è anche quella di acquisire in modo diretto o indiretto il controllo o la gestione di attività economiche, appalti e servizi pubblici, realizzare profitti ingiusti, impedire il libero esercizio del voto alle elezioni.

Ambito oggettivo di applicazione

Fatto
RITENUTO IN FATTO

1. Con la sentenza impugnata, la Corte di appello di Bologna, in parziale riforma della pronuncia emessa in data 20 febbraio 2021 dal Tribunale di Rimini, per quanto qui rileva, ha assolto dal reato di cui al capo L) (art. 512-bis cod. pen.) e ha dichiarato non doversi procedere per intervenuta prescrizione nei confronti di Ri.Gi., Ca.Ma., Za.St., Gi.Wa., Ro.Ma. e Au.La., per i reati, come per ciascuno contestati, di cui ai capi A) (art. 416-bis cod. pen.), E) (art. 582-585 cod. pen.), I) (art. 2-4, L. 895/1967), L) (art. 512-bis cod. pen.), N) (art. 512-bis cod. pen.), P) (art. 512-bis cod. pen.), Q) (art. 640 cod. pen.), con rideterminazione delle pene per i residui reati (Au.La.: capo B), art. 110-629 cod. pen.; capo A), art. 416-bis cod. pen.; capo D), art. Gi.Wa., capo B) – Ro.Ma.: capo G), art. 110-629 cod. pen.; capo A) capo B) capo D)• capo H), art. 110-629 cod. pen. – Ri.Gi. capo G) capo B);. capo D) – Za.St., capo B); capo D) e conferma nel resto.

2. Avverso la sentenza hanno proposto ricorso per Cassazione tutti i suddetti imputati, formulando i motivi di censura di seguito sinteticamente esposti.

3. Ricorso di Au.La.

3.1. Violazione di legge in relazione all’art. 416 cod. pen. nonché contraddittorietà e illogicità della motivazione in ordine alla ribadita affermazione di responsabilità in ordine al delitto associativo, in difetto di un vincolo con connotati di stabilità e mutualità e con puntuale ripartizione dei ruoli, a fronte invece della implausibilità della posizione apicale attribuita a Ca.Ma., soggetto di scarsissimo spessore criminale.

3.2. Violazione di legge in relazione all’art. 629 cod. pen. e contraddittorietà e illogicità della motivazione, nonché mancanza di corrispondenza tra sentenza e contestazione, in ordine alla ribadita affermazione di responsabilità in ordine al delitto di estorsione di cui al capo B), dal momento che l’assegno di Gi.Wa. non solo non era stato ritirato, ma sarebbe già stato protestato per mancanza di provvista, venendo così a mancare l’ingiusto profitto e l’altrui danno. In ogni caso, Au.La. non avrebbe offerto alcun contributo causalmente rilevante.

3.3. Violazione di legge in relazione all’art. 629 cod. pen. nonché contraddittorietà e illogicità della motivazione in ordine alla ribadita affermazione di responsabilità in ordine al delitto di estorsione di cui al capo D), poiché i giudici di merito avrebbero offerto una lettura distorta del compendio intercettivo e il reato non avrebbe superato lo stadio del tentativo. In ogni caso, anche in questo reato, Au.La. non avrebbe offerto alcun contributo concreto.

3.4. Violazione di legge in relazione agli art. 99 e 103 cod. pen. nonché contraddittorietà o illogicità della motivazione in ordine alla ritenuta recidiva, derivante da travisamento degli effettivi precedenti penali, e all’applicazione della misura di sicurezza della libertà vigilata, che sarebbe potuta conseguire solo a una condanna ex art. 416-bis cod. pen.

3.5. Sono stati depositati motivi nuovi, in relazione alla violazione degli art. 99 e 157 cod. pen., rimarcando il mancato riconoscimento dell’intervenuta prescrizione del reato associativo, già applicata ad altri correi, ed invece negata al ricorrente, poiché la recidiva non esplicherebbe i propri effetti, anche indiretti, in quanto in concreto minusvalente o comunque equivalente rispetto alle attenuanti.

4. Ricorso di Ca.Ma.

4.1. Violazione di legge in relazione all’art. 133 cod. pen. in relazione trattamento sanzionatorio, dal momento che la Corte di appello, dopo aver escluso la recidiva, non avrebbe tenuto conto delle circostanze generiche già riconosciute in primo grado, limitandosi a determinare la pena nel minimo edittale.

4.2. Violazione di legge e carenza della motivazione in relazione alla omessa valutazione dei motivi di appello svolti in relazione ai capi B) e D).

4.3. Violazione di legge in relazione all’art. 629 cod. pen. e vizi della motivazione riguardo alla ribadita affermazione di responsabilità in ordine ai reati di cui ai capi B) e D), non essendosi erroneamente ravvisato, per quanto attiene al primo reato, la centralità di quanto riferito da Pr.An. in ordine alla consegna del titolo a Ta.Fr., nonché della testimonianza di Ge.Fa. in merito alla posizione di Ca.Ma., e, per quanto attiene al reato in danno del medesimo Pr.An., la già maturata prescrizione, dovendosi qualificare il reato come semplice tentativo.

4.4. Travisamento della prova in ordine alle intercettazioni n. 7791 e 8242, malamente interpretate.

5. Ricorso di De.Et.

5.1. Mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche, nonostante la condizione di indigenza e di disagio dell’imputato, nonché il suo comportamento collaborativo e confessorio, espressione di resipiscenza.

5.2. Violazione di legge in relazione all’art. 133 cod. pen., avuto riguardo al rigore punitivo immotivatamente severo.

6. Ricorso di Gi.Wa.

6.1. Violazione di legge in relazione all’art. 629 cod. pen. e manifesta contraddittorietà della motivazione in relazione alla ribadita affermazione di responsabilità in ordine al capo B). Pr.An. avrebbe violato gli accordi intercorsi tra le parti che prevedevano che egli avrebbe potuto incassare gli assegni postdatati, firmati da Gi.Wa. e da Au.La., consegnatigli solo previa conferma della loro copertura. Nell’incontro tenutosi per trovare una soluzione alla sua improvvida messa all’incasso di uno dei titoli sottoscritti da Au.La. (e non, come erroneamente ritenuto, l’assegno emesso da Gi.Wa. per l’importo di euro 5.000), nonostante i toni accesi, non ci sarebbe stata alcuna violenza o minaccia. Peraltro, essendo l’effetto in questione già stato “bancato”, il suo “ritiro” sarebbe risultato impossibile, anche ai sensi dell’art. 49, secondo comma, cod. pen. e, in ogni caso, in difetto di conseguimento di un ingiusto profitto con altrui danno, il reato non sarebbe andato oltre la soglia del tentativo. Per addivenire alla conferma dell’ipotesi accusatoria, i giudici di merito avrebbero valutato in maniera confusa e superficiale l’intero compendio istruttorio, fraintendendo il reale contenuto delle intercettazioni, valutando inopinatamente credibile la narrazione di Pr.An., ravvisando un’inesistenza forza intimidatrice dell’associazione e non contestualizzando i rapporti all’effettivo modus vivendi degli imputati (per i quali, ad esempio, “due-tre scoppoloni dietro la schiena” non possono costituire una condotta di percosse, ma semplici pacche sulle spalle di virile incoraggiamento). Né potrebbe costituire sufficiente riscontro la condanna di Ta.Fr., all’esito di giudizio abbreviato, in difetto delle emergenze a discarico formatesi in dibattimento. La decisione sarebbe irrimediabilmente segnata anche dall’errore commesso in primo grado nell’individuazione dell’assegno, oggetto materiale della richiesta estorsiva.

7. Ricorso di Ri.Gi.

7.1. Violazione degli art. 178, lett. c), e 179 cod. proc. pen., in relazione alla omessa notifica all’imputato, “in stato di custodia cautelare domiciliare per altra causa” (condizione nota alla Corte territoriale), del decreto di citazione a giudizio di appello.

7.2. Violazione dell’art. 416 cod. pen. e mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione in relazione alla ribadita affermazione di responsabilità in ordine al delitto di cui al capo A), dal momento che i giudici di appello avrebbero ripercorso la motivazione di primo grado senza alcun vaglio critico e senza avere riguardo per le osservazioni delle difesa, dirette a contestare la valutazione del materiale intercettivo e la totale mancanza degli elementi costitutivi dell’associazione per delinquere, in difetto di un vincolo di qualche stabilità, di compiti dei presunti sodali, al contrario completamente disorganizzati, e di affectio societatis.

7.3. Violazione dell’art. 629 cod. pen. e mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione in relazione alla ribadita affermazione di responsabilità in ordine al delitto di cui al capo B), tenuto conto della erronea valutazione, nonostante specifiche censure nell’atto di gravame, delle dichiarazioni della persona offesa Pr.An., le cui contraddizioni (a partire dal suo ruolo nel pestaggio di Ca.Si., che lo collocherebbe in una posizione assai diversa da quella di vittima in stato di soggezione) e la cui radicale inattendibilità sarebbero state trascurate dai giudici di merito.

7.4. Violazione dell’art. 629 cod. pen. e mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione in relazione alla ribadita affermazione di responsabilità in ordine ai delitti di cui ai capi D) e G), in merito alla mancata verifica di attendibilità delle due persone offese De.Pa. e Na.Al. I giudici felsinei trascurerebbero, infatti, che la richiesta di Ro.Ma. a Na.Al. aveva per oggetto esclusivamente il saldo di prestazioni lavorative espletate in suo favore (tant’è che ci sarà poi un accredito sulla PostePay di Ri.Gi., modalità incompatibile, data la sua tracciabilità, con una richiesta estorsiva) e che lo stesso Na.Al. non potrebbe logicamente essere considerato attendibile quanto al delitto di cui al capo G), commesso ai suoi danni, e inattendibile quanto invece al capo D).

7.5. Violazione dell’art. 629 cod. pen. e mancanza, contraddittorietà o manifesta riguardo alla ribadita affermazione di responsabilità in ordine al delitto di cui al capo G), anche per quel che concerne la sistematica elusione dei motivi di doglianza vòlti ad evidenziare l’incertezza del presunto riconoscimento di Ro.Ma. da parte di Es.Pa. (a fronte, peraltro, del mancato riconoscimento da parte delle persone offese De.Fr. e De.Ma.

7.6. Violazione degli art. 62-bis cod. pen. e 597 cod. proc. pen. nonché mancanza, contraddittorietà o manifesta in merito alla mancata concessione delle attenuanti generiche e alla mancata esclusione della recidiva (di cui hanno invece beneficiato i coimputati Ca.Ma. e Za.St.), pur in assenza, tra i precedenti, di reati associativi o aggravati ex art. 416-bis. 1 cod. pen.

7.7. Il difensore di Ri.Gi. ha depositato memoria di replica alle conclusioni del Procuratore generale, con riferimento al primo, al quinto e al sesto motivo di gravame.

8. Ricorso di Ro.Ma.

8.1. Violazione dell’art. 416 cod. pen. e mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione in relazione alla ribadita affermazione di responsabilità in ordine al delitto di cui al capo A) (motivo formulato in termini di testuale sovrapponibilità al motivo di ricorso presentato da Ri.Gi. di cui al precedente paragrafo 7.2).

8.2. Violazione dell’art. 629 cod. pen. e mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione in relazione alla ribadita affermazione di responsabilità in ordine al delitto di cui al capo B) (motivo formulato in termini di testuale sovrapponibilità al motivo di ricorso presentato da Ri.Gi. di cui al precedente paragrafo 7.3).

8.3. Violazione dell’art. 629 cod. pen. e mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione in relazione alla ribadita affermazione di responsabilità in ordine ai delitti di cui ai capi D) e G) (motivo formulato in termini di testuale sovrapponibilità al motivo di ricorso presentato da Ri.Gi. di cui al precedente paragrafo 7.4).

8.4. Violazione dell’art. 629 cod. pen. e mancanza, contraddittorietà o manifesta riguardo alla ribadita affermazione di responsabilità in ordine al delitto di cui al capo G) (motivo formulato in termini di testuale sovrapponibilità al motivo di ricorso presentato da Ri.Gi. di cui al precedente paragrafo 7.5).

8.5. Violazione dell’art. 393 cod. pen. e mancanza, contraddittorietà o manifesta in relazione alla mancata riqualificazione dei delitti di cui ai capi B), D), G) ed H) come esercizio arbitrario delle proprie ragioni, dal momento che Ro.Ma. si sarebbe limitato a intercedere, per conto di Ca.Ma. (capo B) e di Na.Al. (capo D), senza un interesse personale, ma solo per vedere onorate le obbligazioni contratte dai debitori dei suoi mandanti, che, quanto al capo G), si sarebbe limitato a richiedere a Na.Al. il pagamento del proprio lavoro e, quanto al capo H), avrebbe semplicemente accompagnato Di.Mi. a sollecitare il versamento di quanto dovuto alla sua compagna per prestazioni lavorative presso il ristorante (Omissis).

8.6. (Rubricato come Settimo motivo nell’atto di impugnazione) Violazione degli art. 62-bis cod. pen. e 597 cod. proc. pen. nonché mancanza, contraddittorietà o manifesta in merito alla mancata concessione delle attenuanti generiche e alla mancata esclusione della recidiva (motivo formulato in termini di pressoché testuale sovrapponibilità al motivo di ricorso presentato da Ri.Gi. di cui al precedente paragrafo 7.6, salvo il richiamo alle attestazioni dello stesso Pubblico Ministero d’udienza in merito al corretto comportamento processuale di Ro.Ma. e al contributo da lui offerto durante l’interrogatorio di garanzia).

9. Ricorso di Za.St.

9.1. Violazione di legge in relazione all’art. 416 cod. pen. nonché contraddittorietà e illogicità della motivazione in ordine alla ribadita affermazione di responsabilità in ordine al delitto associativo (motivo formulato in termini di testuale sovrapponibilità al motivo di ricorso presentato da Au.La. di cui al precedente paragrafo 3.1).

9.2. Violazione di legge in relazione all’art. 629 cod. pen, e contraddittorietà e illogicità della motivazione, nonché mancanza di corrispondenza tra sentenza e contestazione, in ordine alla ribadita affermazione di responsabilità in ordine al delitto di estorsione di cui al capo B) (motivo formulato in termini di testuale sovrapponibilità al motivo di ricorso presentato da Au.La. di cui al precedente paragrafo 3.2).

9.3. Violazione di legge in relazione all’art. 629 cod. pen. nonché contraddittorietà e illogicità della motivazione in ordine alla ribadita affermazione di responsabilità in ordine al delitto di tentata estorsione di cui al capo D) (motivo formulato in termini di pressoché testuale sovrapponibilità al motivo di ricorso presentato da Au.La. di cui al precedente paragrafo 3.3, salvo sottolineare ulteriormente come la persona offesa abbia riconosciuto Za.St. nel gruppo, escludendo una sua fattiva partecipazione alle minacce o addirittura all’aggressione fisica).

10. All’odierna udienza pubblica, le parti presenti hanno concluso come da epigrafe.

Diritto
CONSIDERATO IN DIRITTO

Il ricorso di Ca.Ma. è fondato limitatamente alla doglianza relativa alla mancata considerazione delle già concesse attenuanti generiche ed è inammissibile nel resto.

I ricorsi di Au.La., De.Et., Gi.Wa., Ri.Gi., Ro.Ma. e Za.St. sono inammissibili.

1. De.Et. è stato assolto dal delitto di cui all’art. 512-bis cod. pen. a lui ascritto. All’esito della pronuncia interamente liberatoria, in assenza di ulteriori imputazioni, risulta macroscopicamente sprovvista di interesse la pedissequa riproposizione dei due motivi di gravame già dichiarati assorbiti, inerenti non l’affermazione di responsabilità, ma unicamente il regime circostanziale e il trattamento sanzionatorio.

2. La difesa di Ri.Gi. deduce preliminarmente che l’imputato non avrebbe mai eletto domicilio presso lo studio del precedente difensore (rimarcando, durante la discussione, come lo stesso ricorrente avrebbe revocato il mandato al suddetto legale, con dichiarazione recepita a verbale all’udienza del 11 settembre 2020, contestualmente dichiarando il proprio domicilio presso la propria abitazione).

In primo luogo, il verbale citato dal difensore, che ne ha sollecitato la lettura – a cui questa Corte ha pieno accesso, quale giudice del fatto processuale – riporta soltanto, dopo l’intestazione prestampata (quanto alla posizione del ricorrente: ” Ri.Gi., in det. dom. pac. già presente, presente, difeso di fiducia dall’avv. Antonio Palazzo del Foro di Matera presente. Il Tribunale a norma dell’articolo 97 comma 4 c.p.p., designa come sostituto del difensore non comparso, l’avvocato Caltavuturo, immediatamente reperibile, presente in aula”), l’aggiunta manoscritta “in via preliminare, l’imputato Ri.Gi. dichiara di nominare quale proprio difensore di fiducia l’avv. Antonio Palazzo del Foro di Nola con revoca di ogni altra nomina”. Contrariamente a quanto affermato dal ricorrente, non risulta dunque ex actis alcuna dichiarazione di domicilio. È, peraltro, del tutto priva di pregio la tesi difensiva per la quale il venir meno del precedente rapporto defensionale caducherebbe la distinta indicazione sul luogo in cui si desidera ricevere le comunicazioni del processo: secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, viceversa, l’elezione di domicilio presso il difensore, ai sensi dell’art. 161 cod. proc. pen., perdura fino a quando non viene espressamente e ritualmente revocata, restando irrilevante la sola sostituzione del professionista, poiché la nomina del legale e l’elezione di domicilio sono atti diversi, aventi differenti finalità (cfr., da ultimo, Sez. 5, n. 55242 del 15/10/2018, T., Rv. 274169).

La contestazione dell’esistenza – espressamente richiamata negli atti di causa – della precedente elezione di domicilio, già logicamente contraddetta dall’allegazione difensiva del suo presunto superamento a seguito del cambio di legale, si presenta poi come insuperabilmente aspecifica, in difetto di una precisa enunciazione della censura e, nel caso, anche di una compiuta ricostruzione della attività notificatoria di cui si assume la nullità, tanto da non consentire al Collegio di cogliere l’effettiva portata censoria della doglianza.

Ciò premesso, e fermo restando che appare indubitabile la piena conoscenza in capo alla Corte territoriale della sottoposizione dell’imputato agli arresti domiciliari per altra causa, circostanza evidenziata già nell’intestazione dell’atto di appello, occorre rilevare come, se è vero che le notificazioni all’imputato detenuto in luogo diverso da un istituto penitenziario vanno sempre eseguite, ai sensi dell’art. 156, comma 3, cod. proc. pen., mediante il procedimento notificatorio di cui all’art. 157 cod. proc. pen., tuttavia le notificazioni effettuate presso il domicilio eletto e non nel luogo di detenzione, danno luogo a nullità a regime intermedio (Sez. U., Sentenza n. 12778 del 27/02/2020, S., Rv. 278869-02). Nel caso di specie, la nullità di cui trattasi non è stata dedotta immediatamente e neppure durante la discussione di secondo grado: all’udienza del 28 marzo 2020, l’avvocato Antonio Palazzo ha concluso semplicemente riportandosi, per l’imputato Ri.Gi., “ai motivi di appello”. Alla mancata deduzione entro i termini stabiliti a pena di decadenza per eccepire la nullità consegue, dunque, la sanatoria prevista dall’art. 182, comma 2, cod. proc. pen.

Il motivo è dunque in parte generico e manifestamente infondato nel resto.

3. Tutti i motivi attinenti alla ribadita affermazione di responsabilità per i delitti contestati si presentano, per larghissima parte, come meramente reiterativi, riproponendo doglianze già congruamente disattese dalla Corte di appello e insuperabilmente generici, laddove non si confrontano minimamente con il poderoso apparato argomentativo della sentenza di secondo grado, limitandosi a sollecitare – non senza evocare in larga misura doglianze in fatto – un nuovo apprezzamento del materiale probatorio, impossibile in questa sede di legittimità. Si chiede, in buona sostanza, di sovrapporre la valutazione della Corte di legittimità a quella dei Giudici di merito, ciò che è impossibile, poiché esula dai poteri della Suprema Corte ogni possibilità di “rilettura” degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (Sez. U., n. 47289 del 24/09/2003, Petrella, Rv. 226074. Più di recente, Sez. 2, n. 9106 del 12/02/2021, Caradonna, Rv. 280747), ha precisato che, in tema di motivi di ricorso per Cassazione, non sono deducibili censure attinenti a vizi della motivazione diversi dalla sua mancanza, dalla sua manifesta illogicità, dalla sua contraddittorietà – intrinseca o con atto probatorio ignorato quando esistente, o affermato quando mancante -, su aspetti essenziali a imporre diversa conclusione del processo, cosicché sono inammissibili tutte le doglianze che “attaccano” la persuasività, l’inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualità, la stessa illogicità quando non manifesta, così come quelle che sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti dell’attendibilità, della credibilità, dello spessore della valenza probatoria del singolo elemento).

Possono essere dunque esaminate congiuntamente, pur senza sacrificio di un esame specifico delle peculiarità di ciascuna, le doglianze relative a lacune motivazionali ed erronea applicazione delle norme sulla valutazione delle prove avanzate dai ricorrenti in ordine all’affermazione di responsabilità per i delitti di cui ai capi A), B), D), G) ed H).

4. Quanto al delitto associativo di cui al capo A), la Corte di appello (pag. 4-6 e 50-58) ha, in primo luogo, condiviso la ricostruzione operata in primo grado a partire dall’avvio e dallo svolgimento delle indagini preliminari (un cospicuo compendio captativo, oltre alle prove dichiarative e documentali), in relazione all’esistenza di una stabile organizzazione per delinquere, capeggiata da Ca.Ma. e di cui facevamo parte il figlio di quest’ultimo, Ca.Si., e Ta.Fr. (giudicato separatamente il primo, non ricorrente l’altro), Ri.Gi., Za.St., Au.La., Ro.Ma. e Gi.Wa. Il programma delinquenziale aveva ad oggetto una serie indeterminata di truffe, estorsioni e rapine ai danni, soprattutto degli imprenditori locali, e di reati strumentali, quali la detenzione di armi o il trasferimento fraudolento di beni. L’associazione poteva contare su una sufficientemente chiara ripartizione dei ruoli, con Ri.Gi., Ro.Ma. e Za.St. deputati all’esecuzione delle condotte violente o intimidatorie e con Au.La. e Gi.Wa., più presentabili, incaricati dei contatti con il milieu imprenditoriale romagnolo e dell’individuazione delle possibili vittime. Il gruppo poteva contare anche su risorse materiali a disposizione delle attività criminali, a partire dagli uffici della He. Srl, gestita da Gi.Wa.

L’esistenza di un accordo criminoso tendenzialmente permanente, almeno nel medio periodo, la dotazione dei mezzi necessari per la realizzazione di una serie indeterminata di delitti e la piena consapevolezza dei partecipanti emergono con chiarezza dalla piattaforma istruttoria. I colloqui intercettati non sono riconducibili a meri accordi per la commissione di specifici reati, emergendo anzi la continuativa disponibilità di uomini e risorse materiali (ivi comprese società cartiere, anche con sede all’estero). Lo scambio di informazioni all’interno della compagine associativa risulta costante, anche quando le specifiche azioni criminose erano materialmente perpetrate solo da alcuni dei sodali. L’associazione per delinquere disponeva di una comoda base logistica, di plurimi mezzi di trasporto, di ampie risorse finanziarie, di modo che neppure può dubitarsi dell’esistenza di un’adeguata struttura organizzativa, dispiegata su un vasto territorio. Sono dunque già state argomentatamente respinte le deduzioni di Ro.Ma. e di Au.La. in merito all’insussistenza dei requisiti essenziali del fatto tipico, coerentemente con l’insegnamento di questa Corte regolatrice (cfr., ex pluribus, Sez. 2, n. 22906 del 08/03/2023, Bronzellino, Rv. 284724).

4.1. Ro.Ma., in un rapporto di inequivoca subordinazione con Ca.Ma., aveva la funzione di esecutore materiale delle condotte più muscolari, a partire dalle minacce iniziali fino al recupero crediti, anche sfruttando la propria origine partenopea per millantare una sua appartenenza al clan camorristico degli (Omissis). I giudici di appello citano, quale affermazione paradigmatica, l’intercettazione nella quale il suddetto imputato ribadisce di avere alzato le mani contro De.Pa. “per fare guadagnare tutti”, così dando prova della piena coscienza e volontà di partecipare attivamente alla realizzazione della pianificazione delinquenziale del sodalizio, con profitti non destinati ai singoli autori.

4.2. Sempre nella medesima posizione sottordinata (sia pure connotata anche in termini di fraterna amicizia con Ca.Ma.), Au.La., titolare di Monos Tech Srl, sondava l’ambiente imprenditoriale per rintracciare i migliori soggetti a cui danni pianificare estorsioni (come nel caso di Pr.An. e De.Pa.) e fungeva altresì da prestanome di società ancillari rispetto all’esecuzione del programma criminale (ad esempio la società Consorzio Am.).

4.3. Anche Za.St. risulta del tutto addentro le dinamiche gestionali dell’associazione, rimettendosi all’intervento di composizione da parte dei vertici per appianare alcuni contrasti insorti con Ro.Ma., condividendo con i còrrei l’iniziativa di costituire nuove cartiere, con l’ausilio di un commercialista di P, e in genere le strategie di investimento, anche rinunciando a incassare direttamente profitti già disponibili.

4.4. La Corte di appello ha dichiarato l’estinzione del reato per prescrizione, per quanto attiene alla posizione di Ri.Gi. Il ricorso di quest’ultimo si duole della “conferma sostanziale” della pronuncia di condanna, senza allegare elementi idonei a scardinare l’impianto accusatorio per quanto riguarda l’esistenza e la funzionalità del sodalizio (limitandosi per lo più a richiamare precedenti giurisprudenziali inconferenti rispetto alla ricostruzione di fatto) o, per quanto attiene alla propria specifica posizione, la sussistenza dell’elemento soggettivo (altrettanto genericamente contestata, in assenza di riferimento ai cospicui elementi a carico – a partire dai dialoghi intercettati – che evidenziano la sua cosciente partecipazione alle dinamiche associative).

4.6. Sono dunque non consentiti e comunque generici e manifestamente infondati i motivi di ricorso di Au.La., Ri.Gi., Ro.Ma. e Za.St. riassunti, rispettivamente, nei paragrafi 3.1, 7.2, 8.1 e 9.1 del Ritenuto in fatto.

5. Quanto all’estorsione di cui al capo B) ai danni di Pr.An., la doppia conforme motivazione dei giudici di merito è concorde nell’affermare la responsabilità degli imputati sulla base, in particolare, delle dichiarazioni della persona offesa, delle intercettazioni, di quanto riferito dall’operante maresciallo Te., della documentazione acquisita e della sentenza irrevocabile di condanna del concorrente Ta.Fr. (cfr. sentenza di appello, pag. 6-9 e 58-66).

5.1. La Corte di appello conferma la credibilità di Pr.An. e l’attendibilità della sua narrazione (e anche di quella di Ge.Fa., non logicamente incompatibile con la prima, adeguatamente contestualizzate entrambe), priva di enfasi calunniatoria (e anzi caratterizzata da neutralità espositiva e, soprattutto, riscontrata dalle dichiarazioni di Pr.Gi., Pe.An.e Bu.Cl., dalle intercettazioni e dalla documentazione bancaria sequestrata, oltre che dalla citata sentenza di condanna nei confronti di Ta.Fr.). Il Collegio non ha motivo per non dare continuità alla consolidata giurisprudenza di legittimità secondo cui la valutazione della attendibilità della persona offesa dal reato rappresenta una questione di fatto che ha una propria chiave di lettura nel compendio motivazionale fornito dal giudice e non può essere rivalutata in sede di legittimità, salvo che il giudice non sia incorso in manifeste contraddizioni (ex plurimis, Sez. 6, n. 27322 del 14/04/2.008, De Ritis, Rv. 240524; Sez. 3, n. 8382 del 22/01/2008, Finazzo, Rv. 239342; Sez. 6, n. 443 del 04/11/2004, dep. 2005, Zamberlan, Rv. 230899; Sez. 3, n. 3348 del 13/11/2003, dep. 2004, Pacca, Rv. 227493; Sez. 3, n. 22848 del 27/03/2003, Assenza, Rv. 225232). Le lievi divergenze riscontrabili, come congruamente chiarito, attengono a profili marginali della vicenda, in particolare relativi alla esatta collocazione temporale delle singole condotte, alla (momentanea) consegna a Ta.Fr. e all’esatta identificazione dell’assegno su cui si erano incentrate le pressanti richieste degli imputati (elemento, quest’ultimo, non connotato da radicale eterogeneità e comunque inidoneo a produrre un vulnus rilevante ai sensi dell’art. 521 cod. proc. pen., dal momento che la violazione del principio di corrispondenza tra l’imputazione e la sentenza è ravvisabile solo quando la modifica del fatto e della sua qualificazione giuridica pregiudichi in concreto le possibilità di difesa dell’imputato; cfr., da ultimo, Sez. 3, n. 7146 del 04/02/2021, Ogbeifun, Rv. 281477).

5.2. La condotta appare inequivocamente connotata da modalità violente e prevaricatrici (gli “scoppoloni”, tutt’altro che camerateschi, sulla schiena: “gli ha detto… pam pam! “Tu domani mi porti tredicimila euro intanto!”; “Ro.Ma., in dialetto napoletano, aveva detto “uccido a tutti, sparo a tutti”) e non c’è dubbio – avuto riguardo alla ricostruzione della vicenda operata dai giudici di merito, impermeabile allo scrutinio di legittimità – che la fattispecie sia stata consumata, quando, a seguito delle intimidazioni, Pr.An. ha richiesto al proprio istituto di credito il cosiddetto “richiamo” dell’assegno già versato (ovvero ha revocato il mandato all’incasso già conferito con la distinta di versamento, senza potersi ipotizzare un mero differimento dell’operazione), precedentemente ricevuto come corrispettivo di altro titolo del medesimo importo. Il direttore della banca Bu.Cl., infatti, ha confermato che le stringenti indicazioni del correntista, recatosi per due giorni consecutivi presso la filiale per accelerare la definizione della pratica già avviata via fax dalla moglie, erano state l’unica causa del mancato versamento; sulla vicenda bancaria, per quanto qui rileva, non incidono il successivo sequestro del titolo da parte degli operanti (intervenuto solo il 28 agosto 2012, a fronte di fatti commessi sino al precedente mese di marzo), né la calunniosa denuncia di smarrimento, meglio descritta al capo D), presentata dall’emittente Gi.Wa. al solo scopo di bloccare il pagamento in data 17 maggio 2012. Il successivo protesto dell’assegno, peraltro, risulta poi meramente affermato, in termini del tutto generici e privi di qualsiasi riferimento a specifiche emergenze processuali trascurate dai giudici di merito, soltanto nel ricorso di Au.La. e, anche ammessane per comodità di ragionamento la storicità, non infirmerebbe le suddette conclusioni in tema di diretta dipendenza causale del mancato incasso, in epoca assai precedente, dalle direttive impartite dai coniugi Pr. all’istituto di credito. In punto di diritto, il Collegio non ha motivo di discostarsi dall’orientamento di legittimità, secondo cui nell’estorsione l’elemento dell’ingiusto profitto con altrui danno consegue direttamente alla violazione dell’autonomia negoziale della persona offesa, a cui è impedito di perseguire i propri interessi economici nel modo e nelle forme ritenuti più confacenti e opportuni (Sez. 2, n. 12434 del 19/02/2020, Di Grazia, Rv. 278998; Sez. 5, n. 9429 del 13/10/2016, dep. 2017, Mancuso, Rv. 269364; Sez. 6, n. 48461 del 28/11/2013, Fontana, Rv. 258168). L’ingiusto profitto, d’altronde, si identifica in qualsiasi utilità, anche di natura non patrimoniale, che costituisca un vantaggio per il soggetto attivo del reato (cfr. Sez. 2, n. 32083 del 12/05/2023, De Luca, Rv. 285002, che, presupponendo la necessaria connotazione patrimoniale dell’altrui danno, vi comprende anche la forzata desistenza dal tempestivo esercizio di un’azione giudiziaria finalizzata a tutelare un diritto o un interesse, posto che il patrimonio va inteso come un insieme non di beni materiali, ma di rapporti giuridici attivi e passivi aventi contenuto economico, unificati dalla legge in ragione dell’appartenenza al medesimo soggetto. In termini, anche Sez. 2, n. 43769 del 12/07/2013, Ventimiglia, Rv. 257303, che ha ritenuto integrare il delitto di estorsione la minaccia o la violenza finalizzate ad ottenere la rinuncia alla tutela di un proprio diritto in una controversia di lavoro, e Sez. 2, n. 34900 del 10/07/2008, Quarti, Rv. 241817. Peraltro, le Sezioni Unite, a mente dell’informazione provvisoria n. 6/2024, hanno autorevolmente confermato che, nella nozione di danno di cui all’art. 629 cod. pen., rientra anche la perdita dell’aspettativa di conseguire un vantaggio economico). Nel caso di specie, il delitto risulta dunque interamente consumato al momento in cui la persona offesa ha rinunciato, essendovi costretto, a incassare l’assegno, pur senza restituirlo e lasciandolo depositato presso la filiale, poiché già da allora si è verificata la conseguenza negativa sul suo assetto economico, anche in termini di perdita di chances future di arricchimento o di consolidamento di propri interessi, ipotizzabili, anche in caso di mancata copertura dell’effetto, in una successiva ed eventuale sequela giudiziaria.

È poi escluso, come adeguatamente chiarito nella sentenza impugnata, che i concorrenti avessero agito nella convinzione, pur errata, di esercitare un preteso diritto, dal momento che la pretesa estorsiva non riguardava affatto il pagamento di un debito, ma solo l’illecito obiettivo di non ottemperare agli accordi presi in occasione di un prestito ricevuto da Pr.An., cedendo a quest’ultimo quale corrispettivo alcuni assegni postdatati, uno dei quali – quello per cui si procede – stava successivamente per essere incassato.

5.3. Ciascuno degli imputati ha offerto il suo apporto alla commissione del reato, come evidenziato chiaramente dalle emergenze processuali: Ro.Ma. ha comunicato a Ri.Gi. che erano entrambi stati incaricati di un “servizio” da parte di Ca.Ma. Quest’ultimo aveva chiamato il figlio perché intervenisse di persona anche lui, dal momento che sul posto era già arrivato Gi.Wa. che “aveva fatto un “macello””, insieme ad altri soggetti armati da lui fatti appositamente venire dal quartiere r di S. Anche Ri.Gi. e Za.St., insieme a Ta.Fr., si erano poi recati presso la banca di Pr.An., con il medesimo obiettivo di “sollecitare” ulteriormente quest’ultimo.

5.4. Sono dunque non consentiti e comunque generici e manifestamente infondati i motivi di ricorso di Au.La., Ca.Ma., Gi.Wa., Ri.Gi., Ro.Ma. e Za.St., riassunti, rispettivamente, nei paragrafi 3.2, 4.2 e 4.3 (per quanto relativo al delitto de quo), 6.1, 7.3, 8.2, 8.5 (per quanto relativo al delitto de quo) e 9.2 del Ritenuto in fatto.

6. Analogamente, l’estorsione tentata di cui al capo D) in danno di De.Pa. risulta più che sufficientemente provata, in virtù di varie testimonianze, in particolare quelle rese dall’operante e dalla persona offesa, dell’attività di osservazione e controllo da parte di militari dell’Arma e dai nitidi contenuti delle captazioni (pag. 9-13 e 66-70).

6.1. Richiamando le considerazioni in iure già svolte al precedente paragrafo 5.1 (e sottolineando del pari come, anche in materia di intercettazioni telefoniche, costituisce questione di fatto, rimessa all’esclusiva competenza del giudice di merito, l’interpretazione e la valutazione del contenuto delle conversazioni, il cui apprezzamento non può essere sindacato in sede di legittimità se non nei limiti della manifesta illogicità ed irragionevolezza della motivazione con cui esse sono recepite. Cfr., da ultimo, Sez. 3, n. 44938 del 05/10/2021, Gregoli, Rv. 282337), la sentenza impugnata offre un’adeguata motivazione, che dà ampiamente conto dei criteri adottati e dei risultati acquisiti, della ritenuta attendibilità della testimonianza di De.Pa., che costituisce quindi, già di per sé, una vera e propria fonte di prova, anche a prescindere dalle definitive conferme tratte dalle intercettazioni e dai servizi sul posto degli investigatori, nonché dalle dichiarazioni degli operanti e di Ma.Gi. Secondo la persona offesa, che ha descritto i fatti in modo coerente e circostanziato, si erano presentate fuori dal suo ufficio, senza preavviso, quattro persone che gli avevano intimato, senza indicare l’importo o la causale, di consegnare loro del denaro (Ro.Ma. gli disse: “devi darci dei soldi, devi pagare, se non paghi ti ammazzo (…) se non paghi ti taglio la testa”). Poco dopo, recatosi presso il Centro Gros di R per un chiarimento, era stato malmenato violentemente e minacciato ancora una volta. Peraltro, per concordare un appuntamento De.Pa. usò il cellulare di Ri.Gi.

In sede di individuazione fotografica, Ma.Gi. aveva riconosciuto Ro.Ma., Ri.Gi. e Za.St. (oltre a Ta.Fr.), restando dunque non revocabile in dubbio per tutti costoro, anche qualora rimasti silenziosi, un apprezzabile contributo integrante appieno concorso punibile, per lo stimolo e la rafforzata sicurezza nell’autore del reato (cfr. Sez. 5, n. 43569 del 21/06/2019, P., Rv. 276990; Sez. 6, n. 1986 del 06/12/2016, dep. 2017, Salamone, Rv. 268972). Dell’incontro fissato con la persona offesa, Ro.Ma. aveva informato Ca.Ma., che non potendo essere presente, lo autorizzò a spendere il suo nome; dal mandato criminale non può in alcun modo farsi derivare l’errata convinzione in capo a Ro.Ma. di stare agendo per riscuotere un credito legalmente dovuto. Anche Au.La., non fisicamente presente alla commissione dei fatti, era stato non solo tenuto aggiornato in merito alla pianificazione del delitto, ma aveva contribuito ad individuarlo come possibile bersaglio e a comunicare ai sodali gli indirizzi di casa e di lavoro della vittima.

6.2. Sono dunque non consentiti e comunque generici e manifestamente infondati i motivi di ricorso di Au.La., Ca.Ma., Ri.Gi., Ro.Ma. e Za.St., riassunti, rispettivamente, nei paragrafi 3.3, 4.2 e 4.3 (per quanto relativi al delitto de quo), 4.4, 7.4 (per quanto relativo al delitto de quo), 8.3 (per quanto relativo al delitto de quo), 8.5 (per quanto relativo al delitto de quo) e 9.3 del Ritenuto in fatto.

7. Richiamando ancora quanto già sinora considerato in ordine alla impermeabilità della ricostruzione della vicenda e, preliminarmente, del contenuto dei dialoghi captati e della attendibilità dei vari dichiaranti, anche per quel che concerne l’estorsione in danno di Na.Al. di cui al capo G (pag. 13-15 e 71-73).

Anche in questo caso, con la consueta rassicurante completezza della piattaforma probatoria, sono agli atti plurime conversazioni intercettate durante le quali Ri.Gi. e Ro.Ma., coordinandosi nell’intera azione delittuosa, avevano reiteratamente richiesto, con toni senza dubbio minacciosi, somme di denaro alla persona. Il 9 marzo 2012 i due imputati sii fecero così consegnare una busta contenete euro 2.000 in contanti (dunque meno dei 3.000 da ultimo concordati, per cui fu subito sollecitata un’ulteriore dazione). Le pretese estorsive ripresero poi qualche mese più tardi, riuscendo a farsi accreditare su una carta PostePay altri euro 1.500. La tracciabilità del pagamento non incide sulla tenuta logica della motivazione, potendo solo attestare la spregiudicatezza degli autori. Con argomentazioni lineari e convincenti, respingendo l’invocata riqualificazione dei fatti ai sensi dell’art. 393 cod. pen., i giudici di appello hanno già chiarito come il preteso svolgimento di attività lavorative non fosse che la modalità verbale con cui, in maniera fintamente bonaria ma in realtà con chiaro riferimento ad attività illecite (e quindi con minaccia sottintesa ma perfettamente percepita), erano avanzate le richieste di denaro.

Sono dunque non consentiti e comunque generici e manifestamente infondati i motivi di ricorso di Ri.Gi. e Ro.Ma., riassunti, rispettivamente, nei paragrafi 7.4 (per quanto relativo al delitto de quo), 7.5 (il cui contenuto, in realtà, nonostante la diversa intestazione, ha per oggetto il delitto di cui al successivo capo H), ascritto al solo Ro.Ma.), 8.3 (per quanto relativo al delitto de quo), 8.4 e 8.5 (per quanto relativo al delitto de quo) del Ritenuto in fatto.

8. Analogamente, era congruamente illustrato anche il percorso giustificativo dell’affermazione di responsabilità per l’estorsione ai danni di De.Fr. e De.Ma. di cui al capo H), commessa da Ro.Ma. in concorso con Di.Mi., giudicato separatamente (pag. 15-16 e 73-77). La sentenza irrevocabile emessa nei confronti di quest’ultimo, unitamente alle solide risultanze processuali (intercettazioni; dichiarazioni delle persone offese e di un loro dipendente, che ha anche individuato in effigie gli imputati; interrogatorio dell’imputato). I due còrrei si presentarono al ristorante (Omissis) di R, in orario di apertura, qualificandosi come rappresentanti sindacali di tale Io.Si., chiedendo differenze retributive per euro 300, nonostante la donna non avesse mai lavorato lì (se non per complessive dodici ore, più di due anni prima).

In un momento successivo, parlando con Ri.Gi., lo stesso Ro.Ma. aveva confessato di non potersi recare presso il suddetto ritirante, confessando un’estorsione commessavi tempo addietro (il dato investigativo aveva poi consentito ai Carabinieri di ricostruire compiutamente l’intera vicenda). I titolari erano stati destinatari di frasi, proferite con tono agitato, con forte accento napoletano e dal contenuto inequivocabilmente minaccioso. Il teste Es.Pa., che già conosceva di vista il ricorrente, lo aveva poi formalmente identificato, riconoscendolo anche in udienza. Il fatto non poteva essere qualificato come ragion fattasi, in assenza di qualsivoglia prova di un effettivo mandato da parte della lavoratrice; la conclusione è conforme alla giurisprudenza di legittimità, per cui il concorso del terzo nel reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone presuppone che il terzo offra il proprio contributo alla pretesa del creditore, e non di altri, e comunque senza perseguire alcuna diversa e ulteriore finalità (cfr. Sez. U., n. 29541 del 16/07/2020, Filando, Rv. 280027).

Sono dunque non consentiti e comunque generici e manifestamente infondati i profili di censura riassunti nel paragrafo 8.5 (per quanto relativo al delitto de quo) del Ritenuto in fatto.

9. Risultano parimenti prive di effettiva consistenza anche le doglianze attinenti al trattamento sanzionatorio.

9.1. La sussistenza della contestata recidiva è stata compiutamente motivata per Au.La., specificando, sulla base del cospicuo curriculum criminale (associazione per delinquere per fatti commessi sino al 2004, truffa, bancarotte fraudolente), la “perdurante inclinazione a commettere reati che ha certamente influito sulla reiterazione dei delitti di cui all’imputazione: la reiterazione del reato è espressione di maggiore pericolosità del prevenuto, in quanto le modalità della condotta sono sintomatiche di notevole spregiudicatezza, di disinvoltura nel commettere delitti e di una maggiore capacità a delinquere che Au.La. ha maturato grazie alle pregresse attività criminose e che ne palesano l’indifferenza rispetto all’efficacia special-preventiva e riabilitativa della condanna penale” (pag. 91).

Manifestamente infondato, pertanto, e prima ancora totalmente aspecifico, il profilo di censura di cui al paragrafo 3.4 del Ritenuto in fatto.

Da ciò, restano travolti, ex art. 585, comma 4, cod. proc. pen., anche i motivi aggiunti in tema di prescrizione, peraltro di dubbia pertinenza alle doglianze principali e comunque anch’essi manifestamente infondati (Sez. U., n. 20808 del 25/10/2018, dep. 2019, Schettino, 275319, hanno infatti chiarito che, tanto sul piano normativo che su quello logico, il fatto stesso di aver operato il giudizio di bilanciamento presuppone il riconoscimento della recidiva, la quale esplica di conseguenza i propri effetti indiretti sul computo del termine prescrizionale, pur quando resta eliso l’effetto tipico e primario di aggravamento della pena; l’art. 157, terzo comma, cod. pen., invero, esclude espressamente che possa tenersi in considerazione il giudizio di cui all’art. 69 cod. pen. ai fini della determinazione della pena massima del reato, fattore di riferimento per il computo del termine dì prescrizione).

9.2. Sulla base dei numerosi e gravissimi precedenti penali (tentato omicidio, rapine aggravate, sequestro di persona, violazioni alla normativa sulle armi), giudicati espressione di una non interrotta escalation criminale, sono stati argomentatamente disattesi i motivi di gravame inerenti alla più intensa risposta punitiva connessa al riconoscimento della recidiva per Ro.Ma. Congruamente motivati risultano altresì, all’esito della rideterminazione del trattamento sanzionatorio per l’estinzione per prescrizione di quattro contestazioni, la dosimetria della pena (prossima ai minimi edittali per il reato più grave) e la diminuzione inferiore al massimo consentito per le attenuanti generiche concesse dal Tribunale (pag. 87-88).

9.3. Non essendo mai stata contestata, né tantomeno ritenuta, la recidiva per Ri.Gi., lo specifico profilo di censura, mera riproposizione grafica di motivi di impugnazione di altro ricorrente, non è sorretta dal minimo interesse.

Manifestamente infondate risultano infine le doglianze in tema di circostanze generiche e entità della pena, a fronte della congrua motivazione dei giudici bolognesi, che rammentano la già avvenuta applicazione dell’art. 62-bis cod. pen. sin dal primo grado, individuando poi la pena base per il reato più grave nel minimo edittale, ulteriormente diminuito per l’intero terzo di legge con successivo aumento, correttamente definito “modestissimo”, a titolo di continuazione (pag. 89).

10. La Corte di appello chiarisce, implicitamente ma chiaramente, la sussistenza della pericolosità sociale di Au.La., anche ai fini dell’applicazione della misura di sicurezza della libertà vigilata, sottolineandone, anche a proposito della recidiva, la perdurante inclinazione a commettere reati e le modalità di condotta denotanti spregiudicatezza nel delitto, ciò che palesa l’indifferenza all’efficacia special-preventiva e riabilitativa della pena.

Quanto alla dedotta violazione di legge, il Collegio condivide e intende dare seguito all’orientamento di legittimità per cui, poiché il reato di cui all’art. 416-ter cod. pen, (che oggi precede l’art. 417 cod. pen.), è stato introdotto – dall’art. 11-ter”, decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356 – successivamente a tale disposizione (risalente, nella versione attuale, alla modifica del testo originario ex art. 5, legge 23 dicembre 1982, n. 936), il richiamo ivi previsto ai “due articoli precedenti” deve intendersi riferito agli art. 416 (peraltro già oggetto della prima versione codicistica) e 416-bis cod. pen. In caso di condanna per il reato di associazione per delinquere, pertanto, ben può essere ordinata una misura di sicurezza, in presenza di un adeguato accertamento della pericolosità sociale (Sez. 2, n. 20323 del 29/04/2021, Corrado, Rv. 281288, in motivazione). Non risulta oggetto di doglianza, d’altronde, la specifica scelta della misura.

Manifestamente infondato, pertanto, anche il profilo di censura di cui al paragrafo 3.4 del Ritenuto in fatto.

11. Infine, in effetti, la Corte di appello ha escluso la ricorrenza della recidiva contestata a Ca.Ma., ma ha poi individuato la medesima pena base per il più grave reato di cui al capo B) già fissata dal Tribunale, sulla base del giudizio di equivalenza tra la suddetta recidiva e le circostanze attenuanti generiche, concesse e non più ricomprese nella catena devolutiva. È necessario, dunque, tenere conto della riduzione necessariamente prevista dall’art. 62-bis cod. pen.

Occorre, quindi, valutare se la riduzione della pena possa essere determinata direttamente dalla Corte di Cassazione ovvero se sia necessario annullare con rinvio alla Corte d’appello per questo specifico incombente. La esplicita formulazione dell’art. 620, lett. I), cod. proc. pen. – che ha ampliato, con finalità di semplificare la definizione del processo penale, la facoltà di intervento della Corte di Cassazione in punto di determinazione della pena sulla base degli elementi di fatto che emergono dal giudizio di merito – consente di procedere direttamente in questa sede. Data la concorde visione dei giudici dei due gradi di merito e il riferimento costituito dalle posizioni dei coimputati a cui sono state riconosciute le circostanze attenuanti generiche in regime di prevalenza, sempre nella loro massima estensione ex art. 65 cod. pen., appare plausibile ripetere anche nel caso di specie la medesima dosimetria.

Il Collegio ritiene dunque, senza che sia necessaria un’ulteriore valutazione di merito, di poter determinare la diminuzione ex art. 62-bis cod. pen. della pena base per il delitto di estorsione di cui al capo B) in tre anni e quattro mesi di reclusione ed euro 800 di multa (giusta la diminuzione di uri terzo rispetto alla pena per il reato non circostanziato di cinque anni di reclusione ed euro 1.200 di multa), aumentata degli ulteriori tre mesi di reclusione ed euro 150 di multa secondo quanto disposto dalla Corte bolognese per la continuazione con il delitto sub D).

12. In conclusione, la sentenza impugnata va annullata senza rinvio, limitatamente al trattamento sanzionatorio di Ca.Ma., e, per l’effetto, la pena deve essere rideterminata in anni tre e mesi sette di reclusione ed euro 950 di multa.

Il ricorso di Ca.Ma. deve essere dichiarato inammissibile nel resto.

Parimenti inammissibili vanno dichiarati i ricorsi di Au.La., De.Et., Gi.Wa., Ri.Gi., Ro.Ma. e Za.St. Tali ricorrenti, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., devono essere condannati al pagamento delle spese processuali e, a titolo di sanzione pecuniaria, di una somma in favore della Cassa delle ammende, da liquidarsi equitativamente, valutati i profili di colpa emergenti dall’impugnazione (Corte Cost., 13 giugno 2000, n. 186), nella misura indicata in dispositivo.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di Ca.Ma. limitatamente al trattamento sanzionatorio che ridetermina in anni tre, mesi sette di reclusione ed euro 950,00 di multa.

Dichiara inammissibile nel resto il ricorso.

Dichiara inammissibili i ricorsi di Au.La., De.Et., Gi.Wa., Ri.Gi., Ro.Ma. e Za.St., che condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.

Così deciso il 4 aprile 2024.

Depositato in Cancelleria il 14 maggio 2024.

Allegati

    [pmb_print_buttons]

    Accedi