Massima

Ai fini della concessione di benefici penitenziari, come la liberazione condizionale, in favore dei collaboratori di giustizia (art. 16-novies D.L. n. 8/1991), il requisito del “ravvedimento” non può essere presunto sulla sola base dell’avvenuta collaborazione e dell’assenza di collegamenti criminali. Il beneficio richiede la presenza di ulteriori, specifici elementi positivi che dimostrino l’effettiva sussistenza del ravvedimento.

Supporto alla lettura

COLLABORATORI E TESTIMONI DI GIUSTIZIA

Testimoni e Collaboratori di Giustizia sono due figure, indispensabili nel contrasto alla criminalità organizzata, che vengono spesso confuse, ma differiscono sia nel contenuto soggettivo che nella normativa volta a disciplinarle. In entrambi i casi, però, vi sono delle gravi criticità e l’urgente esigenza di tutela.

Collaboratori di giustizia: persone che hanno un passato di appartenenza ad una organizzazione criminale o mafiosa. Sottoscrivono un “contratto” con lo Stato basato sulla fornitura di informazioni provenienti dall’interno dell’organizzazione criminale in cambio di benefici processuali, penali e penitenziari, della protezione e del sostegno economico per sé e per i propri familiari.

Testimoni di giustizia: cittadini incensurati. Forniscono la loro testimonianza relativamente all’accadimento di un fatto delittuoso e per tale ragione godono di una protezione da parte degli organi dello Stato appositamente creati (in molti casi si tratta di commercianti che si rifiutano di pagare il “pizzo” o di persone non più disposte a continuare a pagare interessi a tassi usurai concessi loro da membri dell’organizzazione mafiosa).

Le dichiarazioni dei collaboratori e quelle dei testimoni devono essere oggettivamente riscontrate dagli investigatori al fine di constatarne la loro veridicità. Appurato che la collaborazione o la testimonianza sono veritiere, i collaboratori e i testimoni di giustizia sono inseriti in un apposito programma di protezione, introdotto in Italia per la prima volta con la L. n. 82/1991. Una apposita Commissione ministeriale, denominata Commissione centrale, presieduta da un sottosegretario di Stato e composta da magistrati ed investigatori di comprovata esperienza nelle indagini sulla criminalità organizzata valuta e decide l’ammissione dei soggetti allo speciale programma di protezione, nonché la modifica e la revoca dello stesso.

Nel 2001, la legislazione in materia di collaboratori di giustizia è stata modificata dal Parlamento. La L. n. 45/2001 ha stabilito innanzitutto una formale e netta distinzione tra collaboratori e testimoni di giustizia nonché un diverso regime giuridico di trattamento tra le due figure; ha stabilito criteri più rigidi per la selezione delle collaborazioni; ha introdotto il limite temporale di centottanta giorni, periodo entro il quale il collaboratore deve confessare tutte le informazioni e gli elementi di cui è a conoscenza; infine, ha introdotto, per l’ammissione ai benefici penitenziari, dei limiti di pena da scontare in carcere nella misura di un quarto della pena inflitta e, in caso di condanna all’ergastolo, di dieci anni di reclusione.

Ambito oggettivo di applicazione

Svolgimento del processo

1. Con l’ordinanza in epigrafe il Tribunale di sorveglianza di Roma respingeva l’istanza del collaboratore di giustizia (omissis), volta ad ottenere, in deroga alle vigenti disposizioni, ai sensi dell’art. 16-novies D.L. n. 8 del 1991, conv. dalla L. n. 82 del 1991, la liberazione condizionale (in relazione a titolo la cui esecuzione era stata sospesa, nelle more, a norma di legge), ammettendolo contestualmente alla detenzione domiciliare.

Il Tribunale, dato atto del lineare comportamento del condannato, rispettoso delle prescrizioni nascenti dal suo status, riteneva che questi non avesse ancora raggiunto il grado di ravvedimento necessario al conseguimento del beneficio maggiore, in assenza di elementi positivi che dimostrassero il definitivo superamento delle passate scelte altamente devianti e il suo effettivo impegno anche in funzione riparativa.

2. (omissis) ricorre per cassazione, con il ministero del difensore di fiducia, denunciando – ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. -l’inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 176 cod. pen. e 16-nov/es D.L. n. 8 del 1991, conv. dalla L. n. 82 del 1991, nonché la contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione.

Operato un ampio excursus esegetico in ordine al contenuto della legislazione derogatoria in favore dei collaboratori di giustizia, il ricorrente sostiene che il Tribunale avrebbe ignorato l’ampiezza e l’importanza delle condotte di collaborazione con la giustizia, già in sé assai sintomatiche della netta cesura rispetto al contesto criminale di pregressa appartenenza. Il mutamento irrevocabile dello stile di vita del condannato sarebbe confermato dal puntuale adempimento degli obblighi connessi al suo status e dall’adesione convinta al trattamento rieducativo nel corso della fruizione di pregresse misure alternative, testimoniato dal costante riconoscimento della liberazione anticipata. Sarebbero, questi, parametri ineludibili, cui si sarebbe dovuta ancorare, con esito favorevole, la prognosi di cessata pericolosità, di intervenuto ravvedimento e di ordinato reinserimento nel tessuto sociale per il tramite dell’auspicata ammissione alla liberazione condizionale.

Motivi della decisione

1. Il ricorso non è fondato.

2. La giurisprudenza di legittimità ha ripetutamente affermato (Sez. 1, n. 51880 del 02/10/2018, Vrenna; Sez. 1, n. 48891 del 30/10/2013, Marino, Rv. 257671; Sez. 1, n. 1115 del 27/10/2009, dep. 2010, Brusca, Rv. 245945; Sez. 1, n. 34283 del 12/07/2005, Pepe, Rv. 232219; Sez. 1, n. 48505 del 18/11/2004, Furioso, Rv. 230137) che, ai fini della concessione dei benefici penitenziari in favore dei collaboratori di giustizia, il requisito del “ravvedimento”, previsto dall’art. 16-nov/es, comma 3, D.L. n. 8 del 1991, conv. dalla legge n. 82 del 1991, non può essere oggetto di una sorta di presunzione, formulabile sulla sola base dell’avvenuta collaborazione e dell’assenza di persistenti collegamenti del condannato con la criminalità organizzata, ma richiede la presenza di ulteriori, specifici elementi, di qualsivoglia natura, che valgano a dimostrarne in positivo, sia pure in termini di mera, ragionevole probabilità, l’effettiva sussistenza.

Né può dubitarsi che tale ravvedimento vada in concreto rapportato alla natura e consistenza del beneficio richiesto, valendo anche per i collaboratori il criterio di sperimentazione progressiva dei benefici penal-penitenziari (su di esso v. Sez. 1, n. 23343 del 23/03/2017, Arzu, Rv. 270016; Sez. 1, n. 20551 del 04/02/2011, D’Ambrosio, Rv. 250231; Sez. 1, n. 31999 del 06/07/2006, Valfrè, Rv. 234889), il quale, pur non costituendo una regola assoluta e codificata, è suggerito dall’esperienza e risponde ad un razionale apprezzamento delle esigenze rieducative e di prevenzione cui è ispirato il significato stesso del trattamento instaurato in corso di espiazione; e ciò vale particolarmente quando i reati commessi siano sintomatici di una non irrilevante capacità a delinquere, manifestata in contesti delinquenziali di elevato livello (Sez. 1, n. 5689 del 18/11/1998, dep. 1999, Foti, Rv. 212794).

Pur dopo la maturazione dei requisiti di legge, in sede di ammissione del collaboratore di giustizia al beneficio penitenziario il giudice di sorveglianza conserva la sua autonomia valutativa, del cui esercizio deve dar conto con motivazione adeguata, conforme alla normativa speciale di riferimento ed esente da aporie logiche.

3. La motivazione dell’ordinanza impugnata risponde nella specie ai canoni, perché, ispirandosi ad una prudenza effettivamente giustificata dalla gravità dei reati e dall’entità delle condanne, essa riflette ineccepibilmente la necessità di saggiare, mediante la sperimentazione ulteriore di misure gradate, l’effettività del ravvedimento, nel grado proporzionato alla misura di risocializzazione più ampia concessa dall’ordinamento in sede di esecuzione penale, dopo aver individuato precisi ambiti di ulteriore approfondimento del percorso di revisione critica.

4. Seguono la reiezione del ricorso e la condanna del ricorrente, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese

processuali.

Così deciso in Roma l’11 giugno 2025.

Depositato in Cancelleria il 22 settembre 2025.

Allegati

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