Fatto
RITENUTO IN FATTO
1. Con la sentenza in epigrafe la Corte di assise di appello di Bologna, in parziale riforma della sentenza del G.U.P. del Tribunale di Ferrara del 12/07/2016, emessa a seguito di giudizio abbreviato, ha ridotto ad anni nove e mesi quattro la pena inflitta a P.G. per il reato di cui all’art. 575 c.p., (omicidio della moglie Tassinari Carmen con concessione delle circostanze attenuanti generiche con giudizio di prevalenza sulla contestata aggravante di cui all’art. 577 c.p. – in (OMISSIS)).
Dalle risultanze istruttorie è emerso che T.C. è morta dissanguata per la profonda coltellata infertale dal marito a mezzo di un coltellaccio da cucina, della lunghezza complessiva di 40 cm. e della lunghezza della lama di cm. 24. La lesione interessava il peritoneo, un’ansa intestinale, il retroperitoneo ed il rene. La lesione provocava uno shock emorragico dovuto alla lacerazione dell’aorta addominale e della vena cava inferiore, produttiva di massiva emorragia acuta. Emergevano altre due lesioni da taglio, coeve a quelle dell’addome, nella regione clavicolo-sternale destra e sotto la mandibola sinistra, prodotte verosimilmente dalla stessa arma.
L’omicidio era commesso da P.G., ottantunenne, che si giustificava sostenendo di versare in stato di crisi di disperazione sotto lo stress dell’estenuante assistenza della consorte sofferente, che versava in gravissime condizioni di salute, in stato di invalidità.
1.1. La Corte territoriale ha confutato gli elementi prospettati dal ricorrente con l’intento di sminuire il proprio grado di responsabilità:
– la dedotta alterazione della capacità di intendere e di volere era sconfessata dalla buona condizione psico-fisica dell’imputato, descritta dal perito ed attestata da inquirenti, soccorritori e familiari, ai quali aveva rievocato lucidamente l’accaduto; la mancanza di oscuramenti della coscienza relativamente al fatto, non accompagnata da cedimenti psicologici o richieste di aiuto contro la depressione, lasciavano condividere la preferenza del G.U.P. per le conclusioni peritali rispetto all’obnubilamento, ancorchè parziale, della capacità ipotizzata dal consulente dell’imputato; l’oscuramento isolato dalla coscienza per pochi attimi, evidenziato dalla difesa, rappresentava un elemento troppo spurio dal punto di vista psichiatrico in mancanza di documentazione medica che lo accreditasse; non ricorrevano, pertanto, i presupposti per applicare la diminuente di cui all’art. 89 c.p.;
– il presunto intento di porre fine alle sofferenze di T.C. era smentito dall’ammissione dell’imputato di aver agito per disperazione e sfinimento provocati dagli eccessivi oneri di assistenza della moglie, dalla mancata condivisione dell’eutanasia da parte della medesima e dalle modalità esecutive impietose (costituenti cause dell’emorragia mortale sicuramente all’origine della sofferenza della donna), per cui non sussistevano gli estremi della circostanza attenuante di cui all’art. 61 c.p., n. 1; si doveva escludere l’esistenza di un movente pietistico dell’imputato, il quale ricorreva ad uno strumento letale particolarmente doloroso e non a mezzi alternativi meno invasivi; l’imputato, peraltro, non sosteneva di aver chiesto aiuto a terzi per fronteggiare la situazione e di aver ricevuto un rifiuto;
– i figli di P. avevano rifiutato l’offerta del padre, peraltro, informale, dell’unica proprietà immobiliare, per cui sfumava il conflitto di interesse tra offensore ed offesi, costituente presupposto indefettibile dell’effettività del risarcimento, con conseguente esclusione dell’attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 6;
– la genericità e l’inattualità delle manifestazioni della voglia materna di morte riferite dai figli, la mancanza di un accenno al riguardo nelle prime parole pronunziate dall’imputato agli inquirenti e la minorata difesa psichica della vittima impedivano di inquadrare la vicenda criminosa nell’ipotesi più lieve di omicidio del consenziente ex art. 579 c.p.; la vittima all’epoca del fatto era priva di lucidità e, in quelle condizioni, non poteva concepire come porre fine alla propria vita;
– la prova che l’omicidio era scaturito per la disperazione e lo stress non consentiva di configurare l’errore di fatto ex art. 47 c.p., o l’errore sul consenso della vittima ex art. 59 c.p.; senza nessuna richiesta della vittima e senza una qualificazione della personalità della vittima in relazione al valore vita – morte e ai profili religiosi o ideologici, non si poteva accreditare un’ipotesi di errore di P. nell’ipotizzare che la moglie intendesse morire;
– per il giudice di primo grado, le modalità esecutive, l’intensità del dolo e la sofferenza causata alla vittima non permettevano di applicare il minimo di pena; la pena era poi ridotta in sede di appello in considerazione della vicenda umana, della collaborazione con gli inquirenti e dell’assenza di precedenti penali dell’imputato.
2. P., a mezzo del proprio difensore, ricorre per Cassazione avverso la sentenza della Corte di assise di appello, proponendo sei motivi di impugnazione.
2.1. Violazione dell’art. 62 c.p., n. 6.
Si sostiene che l’offerta di risarcimento era congrua, in quanto consistente nella dazione dell’unico bene immobile di proprietà di P. e che era stato erroneamente valutato negativamente il punto di vista delle persone offese. La Corte di assise di appello avrebbe dovuto valutare la congruità e la serietà dell’offerta: le persone offese si erano limitate a non accettare che il padre si spogliasse del suo unico bene, avendo compreso le ragioni dell’insano gesto.
2.2. Vizio di motivazione in riferimento all’art. 62 c.p., n. 6.
Si sostiene che la Corte territoriale non ha assolutamente motivato in relazione alle caratteristiche di serietà, chiarezza, concretezza e congruità dell’offerta di risarcimento.
2.3. Violazione dell’art. 89 c.p..
Si afferma che la diminuente del vizio parziale di mente poteva essere concessa in quanto – come evidenziato dal perito di parte dr. P.M. – l’alterazione dello stato psichico di P. aveva determinato una grave diminuzione della sua capacità di autodeterminazione nei termini di una corretta valutazione delle proprie azioni e delle loro conseguenze. La perizia d’ufficio del dr. F.L. e la consulenza di parte erano perfettamente sovrapponibili e divergevano solo in relazione alle conclusioni. In entrambe si dava atto della depressione di P., del grave carico emotivo derivante dalla forte sofferenza della moglie e dall’ininterrotta e quotidiana assistenza prestatale.
Anche uno squilibrio, non irreversibile, ma indotto da un temporaneo e transitorio obnubilamento delle facoltà psichiche poteva comportare la diminuzione della capacità di intendere e di volere, come confermato dalle Sezioni Unite della Corte Suprema (Sez. U, n. 9163 del 25/01/2005, Raso).
2.4. Vizio di motivazione in relazione all’art. 62 c.p., n. 1.
Si rileva che, nell’escludere la circostanza in questione, la Corte di merito aveva erroneamente valutato in senso negativo le modalità cruente, confondendo la condotta col movente dell’omicidio.
Anche qualora fosse esistita una componente lato sensu egoistica di P., egli comunque aveva agito per una motivazione altruistica, evincibile dalla manifestata condizione di stanchezza psicologica e dalla soddisfazione per la fine delle sofferenze della moglie.
2.5. Violazione dell’art. 62 c.p., n. 1.
Si osserva che la circostanza attenuante in esame può essere concessa in caso di eutanasia, costituendo tale principio un valore presso una significativa parte dei consociati.
2.6. Vizio di motivazione per il mancato riconoscimento dell’ipotesi attenuata di cui all’art. 579 c.p..
Si deduce che, all’epoca in cui era ancora in possesso delle proprie facoltà intellettive, T.C. aveva più volte manifestato il desiderio di morire, piuttosto che di vivere in una condizione di grave invalidità. Il lungo rapporto tra i coniugi, perdurante da sessanta anni, poteva aver indotto l’imputato a interpretare il suo desiderio, sebbene non espresso a parole.
Egli, pertanto, aveva agito nella convinzione della validità del consenso espresso dalla moglie alla propria uccisione e ricorreva l’ipotesi di cui agli artt. 47 o 59 c.p..
Diritto
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è fondato, limitatamente al diniego della circostanza attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 6, ed è infondato nel resto.
I plurimi motivi di impugnazione vanno trattati secondo ordine logico diverso da quello esposto in ricorso.
2. In riferimento al terzo motivo di ricorso, si censura l’ingiustificato diniego della diminuente del vizio parziale di mente ai sensi dell’art. 89 cod. pen..
I giudici di primo grado hanno descritto dettagliatamente P.G. come persona lucidissima, anche nell’interazione col prossimo, con memoria efficiente, capacità affettiva ampiamente articolata e capacità cognitiva normorappresenta-ta; hanno disatteso le conclusioni del perito di parte dr. P., rilevando l’inesistenza di dati documentali di tipo clinico, a supporto di un giudizio di infermità; con la ricostruzione dei fatti operata, l’imputato descriveva le emozioni provate nei momenti antecedenti all’omicidio della moglie T.C., circostanza idonea ad escludere un raptus o un turbamento emotivo tale da alterare la capacità di intendere e di volere (vedi pag. 5 e ss. sentenza di primo grado).
La Corte territoriale ha condiviso tali valutazioni, rafforzandole mediante il richiamo alla mancanza di oscuramenti di coscienza di P., alla vita efficiente anche in vecchiaia scevra da cedimenti psicologici e alla mancanza di sue richieste di sostegno psicologico per il proprio stato di depressione.
La decisione impugnata, pertanto, dà adeguato conto del contrasto tra le varie opinioni scientifiche (perito/consulente di parte) ed esprime adesione ai risultati della perizia d’ufficio del dr. F., sottolineando la completezza dell’accertamento peritale e lo stato di particolare sofferenza emotiva, non in grado tuttavia di elidere o di ridurre grandemente la capacità di intendere e di volere al momento del fatto.
Da ciò può dedursi agevolmente che, pur attraverso una tecnica espositiva obiettivamente sintetica (ma non per questo viziata), la Corte territoriale ha mostrato ampia conoscenza e considerazione dei temi trattati, pervenendo ad un giudizio di eaustività dell’elaborato peritale.
Deve poi escludersi il travisamento delle valutazioni del perito d’ufficio, in quanto l’elaborato tecnico da lui redatto, aveva effettivamente considerato gli ipotetici dati favorevoli a P. (la sua depressione e il suo grave carico emotivo); esso, però, non attribuisce ai medesimi, con congrua opinione scientifica, il “valore” ipotizzato dal consulente di parte.
In tal caso, infatti, non può parlarsi di “travisamento” (concetto che richiede una obiettiva difformità tra il significato dimostrativo di un elemento e il modo in cui tale elemento viene invece valorizzato nell’economia della decisione) quanto di un “contrasto” di opinioni scientifiche tra periti e consulenti, che il giudice di merito risolve anche soltanto attraverso un giudizio di valore consistente nella complessiva affidabilità della perizia.
Sul punto va osservato che un’eventuale sindrome depressiva è inidonea a far escludere o a far scemare grandemente la capacità di intendere e di volere (Sez. 5, n. 44045 del 06/11/2008, Rodà, Rv. 241804; Sez. 6, n. 22765 del 12/03/2003, Moranziol, Rv. 226006). Come accuratamente segnalato dalla Corte di Assise di appello, al momento del fatto l’imputato non versava in condizioni di infermità mentale o di alterazioni psicotiche, derivanti da condizione psicopatologica o da disturbo della personalità.
3. In ordine al sesto motivo di ricorso, si sostiene che la condotta criminosa doveva essere riqualificata in quella meno grave di omicidio del consenziente ai sensi dell’art. 579 c.p.; si deduce, inoltre, che, anche a voler escludere il consenso della vittima alla propria uccisione, P. doveva aver agito nell’erroneo convincimento dell’esistenza dello stesso nelle ipotesi di cui agli artt. 47 o 59 c.p..
3.1. L’infondatezza delle mosse censure consegue al rilievo che la valutazione organica delle risultanze processuali, che si assume manchevole e contraddittoria con riguardo alla invocata sussistenza o putatività del consenso, è stata correttamente ed esaustivamente condotta nel giudizio di merito secondo un iter logico-argomentativo che, coerente in diritto ai principi costantemente affermati da questa Corte e non incongruo ai dati fattuali disponibili e utilizzati, ha fornito una persuasiva disamina della vicenda, dando conto delle linee interpretative seguite e rappresentando le ragioni significative della decisione adottata a fronte del compiuto vaglio delle deduzioni difensive fatte oggetto dei motivi di appello.
La Corte di merito, infatti, procedendo dalla preliminare analisi della tesi difensiva posta a fondamento della chiesta diversa qualificazione giuridica del non contestato fatto materiale, ascritto all’imputato quale omicidio volontario, in termini di omicidio del consenziente ai sensi dell’art. 579 c.p., ha ritenuto non condivisibile tale tesi, anche riconducendola, secondo l’interpretazione indotta dalla lettura del motivo di gravame, alla commissione dell’uxoricidio, a opera dell’imputato, nella erronea convinzione soggettiva di avere colto il consenso della moglie, in stato di limitata, grave e irrimediabile autosufficienza, a essere soppressa, pur non esternato con parole assolutamente inequivocabili, nelle sue frasi e manifestazioni di sconforto.
Secondo i condivisibili arresti di legittimità, il consenso presupposto dall’omicidio del consenziente deve essere serio, esplicito, non equivoco e perdurante sino al momento della commissione del fatto (Sez. 1, n. 32851 del 06/05/2008, Sapone, Rv. 241231) ed esprimere una volontà di morire, la cui prova deve essere univoca, chiara e convincente in considerazione dell’assoluta prevalenza da riconoscersi al diritto personalissimo alla vita, non disponibile a opera di terzi (Sez. 1, n. 43954 del 17/11/2010, Anselmi, Rv. 249052).
La Corte territoriale ha rimarcato che non era mai emersa dagli atti processuali una scelta certa della moglie di essere uccisa, per porre fine alle proprie sofferenze, durante la fase in cui persisteva la sua lucidità (temporalmente ricondotta dai figli della vittima ad epoca remota della progressione della malattia personale); anche in occasione delle dichiarazioni rese a inquirenti e familiari, P. non formulava nessun riferimento ad un eventuale consenso prestato dalla vittima.
Per le stesse ragioni non è stato ritenuto ipotizzabile un errore di fatto, non emergendo che la vittima abbia reso dichiarazioni in tal senso, equivocabili da P..
3.2. In ogni caso, anche a voler ritenere sussistente un errore di P. al riguardo, esso sarebbe irrilevante.
In tema di omicidio del consenziente, infatti, il consenso è elemento costitutivo del reato, sicchè ove il reo incorra in errore circa la sussistenza del consenso trova applicazione la previsione dell’art. 47 c.p., in base al quale l’errore sul fatto che costituisce un determinato reato non esclude la punibilità per un reato diverso, nel caso di specie individuabile nel delitto di omicidio volontario (Sez. 1, n. 12928 del 12/11/2015, dep. 2016, Holmes, Rv. 266409 – in motivazione, la Corte ha precisato che il consenso previsto quale scriminante dall’art. 50 c.p., non corrisponde al consenso richiesto dall’art. 579 c.p., atteso che, in questa seconda ipotesi, il consenso incide sulla tipicità del fatto e non quale mera causa di giustificazione).
4. Col quarto e col quinto motivo di ricorso si sostiene la tesi della sussistenza degli estremi dell’attenuante dei motivi di particolare valore morale e sociale di cui all’art. 61 c.p., n. 1, (intento di porre fine alle sofferenze della moglie ed eutanasia costituente principio di valore presso una considerevole parte di consociati).
4.1. In linea generale, la circostanza attenuante in questione viene in rilievo, quando la condotta dell’agente rinviene il suo movente in ragioni sicuramente corrispondenti ad un’etica, che sottolinei i valori più elevati della natura umana (quanto alla sfera morale) o parimenti consentanei a ragioni di elevato spessore avvertite e favorevolmente valutate società civile (quanto alla sfera sociale) (Sez. 1, n. 7390 del 06/07/2017, dep. 2018, Vergelli, non massimata).
Le clausole generali a cui la disposizione ricorre, per individuare i requisiti legittimanti il riconoscimento del trattamento sanzionatorio attenuato, si collegano a valutazioni – almeno in parte – storicamente condizionate al diffondersi ed anche al modificarsi dei valori morali e sociali in una determinata epoca, sempre nel binario costituito da quelli fondamentali iscritti nella Costituzione e nelle altre fonti, anche sovranazionali, alla stessa coordinate.
Il valore morale o sociale del motivo che ha determinato la condotta illecita va comunque apprezzato sul piano oggettivo: sia nel senso che esso deve essere considerato come tale, non da ambienti sociali circoscritti sul piano culturale, ideologico od anche territoriale, ma dalla prevalente coscienza collettiva espressione della comunità (Sez. 1, n. 20443 del 08/04/2015, Nobile, Rv. 263593; Sez. 6, n. 11878 del 20/01/2003, Vigevano, Rv. 224077).
Ai fini dell’integrazione della circostanza attenuante dei motivi di particolare valore morale e sociale, non è sufficiente, quindi, l’intima convinzione dell’agente di perseguire un fine moralmente apprezzabile, ma occorre anche l’obiettiva rispondenza del motivo perseguito a valori etici o sociali effettivamente apprezzabili e, come tali, riconosciuti preminenti dalla collettività, sicchè tale attenuante non può trovare applicazione se il fatto di particolare valore morale o sociale esiste soltanto nell’opinione del soggetto attivo del reato (Sez. 2, n. 197 del 07/12/2016, dep. 2017, Dolce, Rv. 268779; Sez. 1, n. 20443 del 08/04/2015 cit., che richiama anche la disciplina prevista dall’art. 59 c.p., in base a cui le circostanze aggravanti ed attenuanti devono essere considerate e applicate per le loro connotazioni di oggettività).
La netta distinzione logica fra il particolare valore morale o sociale del motivo che ha determinato l’azione antigiuridica e l’accertata illiceità penale dell’azione stessa rende chiaro che l’approvazione della coscienza collettiva che rende giuridicamente rilevante il primo deve inerire – sempre e soltanto – al motivo, non alla condotta, in tesi sanzionata dalla norma incriminatrice.
Nella complessa valutazione da compiersi, poi, rileva, secondo il consolidato orientamento di legittimità, la verifica del mezzo prescelto rispetto al fine perseguito (Sez. 5, n. 3967 del 13/07/2015, dep. 2016, Petrache, Rv. 265889; Sez. 1, n. 11236 del 27/11/2008, dep. 2009, Minardi, Rv. 243220, che ne esclude la ricorrenza quando i motivi dedotti siano di scarsa rilevanza rispetto alla gravità del reato commesso), tanto più quando l’obiettivo della condotta sia identificato nel sacrificio estremo della vita della vittima.
Va accertato altresì se nel determinismo generatore della condotta antigiuridica all’addotto motivo avente valore morale o sociale si siano affiancati, anche in modo implicito, concorrenti interessi di natura lato sensu egoistica.
In questa cornice, con specifico riferimento all’omicidio perpetrato per pietà verso il congiunto gravemente sofferente, è da riflettere come sia stata già esclusa la riconoscibilità dell’attenuante in parola.
Si è ritenuto che essa non può essere riconosciuta all’omicida del coniuge affetto da grave malattia, il cui movente sia stato quello di porre fine a una vita di strazi, in quanto dall’azione criminosa non esula la finalità egoistica di trovare rimedio alla sofferenza, consistente nella necessità di accudire un malato grave ridotto in uno stato vegetativo (Sez. 1, n. 47039 del 11/12/2007, Mancini, Rv. 238169).
4.2. Alla luce dei principi indicati, la Corte di merito ha correttamente escluso l’attenuante sul rilievo della sussistenza di una prevalente finalità egoistica di P..
La Corte di merito, con motivazione logica ed adeguatamente supportata dagli elementi di prova indicati, ha ritenuto che la vicenda omicidiaria doveva essere ricondotta, in via prevalente, all’incapacità dell’imputato di sopportare le sofferenze e l’inarrestabile decadimento fisico e cognitivo della moglie.
La Corte di assise di appello ha valorizzato al riguardo, con motivazione logica e coerente, incensurabile in sede di legittimità, le modalità cruente dell’omicidio, caratterizzate da uno squarcio addominale e da altre due ferite non letali su di un essere totalmente inerme, inferti con un coltello da cucina, senza preoccuparsi del dolore del corpo sofferente, causato dalla pluralità dei colpi e dalla profondità della lacerazione viscerale. E’ certamente logica appare l’affermazione secondo cui, in caso di intento pietistico dell’imputato, questi avrebbe procurato la morte mediante modalità meno cruente o, in alternativa, avrebbe chiesto preventivamente ausilio a figli, medici o ad altri su come procedere.
I motivi di ricorso sul punto devono essere ritenuti conclusivamente manifestamente infondati.
5. Il primo e il secondo motivo di ricorso, con cui si censura il diniego della circostanza attenuante del risarcimento del danno di cui all’art. 62 c.p., n. 6, sono, invece, fondati.
5.1. Va premesso che, in linea generale, ai fini della configurabilità della circostanza attenuante prevista dall’art. 62 c.p., n. 6, è necessario che la riparazione del danno, oltre che volontaria ed integrale, sia anche effettiva, nel senso che la somma di danaro proposta dall’imputato come risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale deve essere offerta alla parte lesa in modo da consentire alla medesima di conseguirne la disponibilità concretamente e senza condizioni di sorta, nel rispetto delle prescrizioni civilistiche relative al versamento diretto del danaro o a forme equipollenti che rivelano la reale volontà dell’imputato di eliminare, per quanto possibile, le conseguenze dannose del reato commesso (Sez. 5, n. 21517 del 08/02/2018, Del Pizzo, Rv. 273021).
Inoltre, il risarcimento del danno deve essere integrale, comprensivo non solo di quello patrimoniale, ma anche di quello morale, e la valutazione della sua congruità è rimessa all’apprezzamento del giudice (Sez. 2, n. 9143 del 24/01/2013, Corsini, Rv. 254880). Il risarcimento del danno deve essere volontario, integrale, comprensivo sia del danno patrimoniale che morale ed effettivo (Sez. 6, n. 6405 del 12/11/2015, dep. 2016, Minzolini, Rv. 265831).
5.2. Ciò posto, la Corte di assise di appello non ha concesso la circostanza attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 6, per l’inesistenza del presupposto essenziale dell’effettività del risarcimento individuato nel “conflitto offensore – persone offese”, avendo i figli rifiutato l’offerta del padre – comunicata mediante una lettera raccomandata, depositata in udienza preliminare ed inviata in epoca di poco anteriore di trasferimento della proprietà, a sue spese, della casa dove abitava, del valore di Euro quarantunmila, unico bene a lui appartenente.
Sul punto la Corte territoriale ha condiviso le argomentazioni della sentenza di primo grado. Il G.U.P. aveva rilevato la carenza di effettività del risarcimento, stante il mancato soddisfacimento dell’obbligazione sorta dal reato, a prescindere dalle dichiarazioni di rinuncia o di accettazione della parte lesa. Si tratta, tuttavia, di affermazione di principio priva sostanzialmente di motivazione sulle verifiche richieste alla luce degli arresti di questa Corte.
Alla luce dell’esistenza di un’offerta concreta, sarebbe risultata necessaria una valutazione – sotto il profilo oggettivo – dell’entità del danno provocato ai figli per la perdita della madre. In proposito, deve rilevarsi che è sufficiente un’offerta di risarcimento del danno, anche non formale, che, però deve tenere conto degli effetti del reato e deve possedere i requisiti della congruità e della serietà, pure quando la persona offesa non abbia accettato l’offerta (Sez. 3, n. 31927 del 28/05/2015, G, Rv. 264249).
Il risarcimento del danno contemplato dall’art. 62, n. 6, cod. pen., peraltro, non consente differenziazioni in ordine alle conseguenze pregiudizievoli derivate dal reato, ricomprendendosi in esso, al pari di ogni tipologia di illecito, entrambe le categorie riconducibili ai principi civilistici sui danni patrimoniali, intesi quali ricadute pregiudizievoli, suscettibili di valutazione economica sotto forma di danno emergente e lucro cessante, ed i danni non patrimoniali che includono, invece, ogni forma di interessi inerenti alla persona afferenti alla sfera immateriale e perciò non connotati da rilevanza economica.
Tenuto conto della notevole peculiarità del caso in esame, il ricorrente ha formulato un’offerta effettiva, mediante modalità corrette; egli, cioè, risulta essersi sostanzialmente attivato, al fine di diminuire la sofferenza dei figli.
I giudici di merito, limitando nella motivazione la loro analisi ad un aspetto marginale (la presunta inesistenza del conflitto “offensore – persone offese”), non hanno quindi compiutamente valutato i predetti elementi caratterizzanti l’attenuante de quo e, specificamente: a) la congruità e la tempestività dell’offerta; b) la natura pienamente satisfattiva del risarcimento del danno, al fine di accertare l’effettiva resipiscenza del reo (Sez. 2, n. 36037 del 06/07/2011, Ruvolo, Rv. 251073). Occorre, quindi, procedere ad un nuovo giudizio in ordine alla sussistenza della circostanza attenuante in questione, tenendo conto dei suesposti principi.
6. Si impone, dunque, l’annullamento della sentenza impugnata, limitatamente al diniego della circostanza attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 6, con rinvio ad altra sezione della Corte di assise di appello di Bologna per un nuovo, più approfondito, giudizio sul punto, da condursi in piena libertà, ma alla luce dei rilievi sopra formulati.
Il ricorso va rigettato nel resto.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata, limitatamente al diniego della circostanza attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 6, e rinvia per nuovo giudizio sul punto ad altra Sezione della Corte di assise di appello di Bologna.
Rigetta nel resto il ricorso.
Così deciso in Roma, il 19 aprile 2018.
Depositato in Cancelleria il 9 gennaio 2019
