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Cassazione penale sez. I, 16/10/2024, n.44255

Massima

In tema di reato continuato, il giudice della cognizione che, riconosciuta l’esistenza di un unico disegno criminoso tra i reati di cui ha accertato la responsabilità e quelli già oggetto di pronuncia irrevocabile, individui in quello sottoposto al suo giudizio il reato più grave, deve determinarne la pena onde assumerla come base del calcolo, operando poi autonomi aumenti per ciascuno dei reati satellite, compresi quelli già giudicati, senza essere vincolato dalla misura per essi stabilita dalla sentenza irrevocabile.

Supporto alla lettura

REATO CONTINUATO

Il reato continuato è previsto al secondo comma dell’ art. 81 c.p., ai sensi del quale:  “chi con una sola azione od omissione viola diverse disposizioni di legge ovvero commette più violazioni della medesima disposizione di legge” soggiace alla pena che dovrebbe infliggersi per la violazione più grave aumentata sino al triplo.

Dunque, gli elementi  costitutivi del reato continuato sono:

  • Un’ azione o omissione ovvero una pluralità di azioni o omissioni: possono essere compiute anche in tempi diversi (es. furti di autovetture e rapina in banca)
  • più violazioni di legge;
  • Il medesimo disegno criminoso: programma unitario deliberato fin dall’inizio nelle sue linee essenziali. Elemento distintivo rispetto al concorso materiale.

Ambito oggettivo di applicazione

Fatto
RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 31 gennaio 2024 la Corte di appello di Caltanissetta, quale giudice del rinvio a seguito della sentenza della Corte di Cassazione 7 luglio 2023 n. 36809, che aveva annullato la precedente sentenza di appello del 7 luglio 2022, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ha confermato la condanna pronunciata in primo grado nei confronti di Ca.Pi. per i reati di cui ai capi N) (art. 10 D.Lgs. n. 74 del 2000: occultamento documentazione contabile e fiscale), O) (art. 5 D.Lgs. n. 74 del 2000: omessa presentazione dichiarazione) e V) (art. 216,223 L. fall.: bancarotta fraudolenta), e rideterminato la pena nei suoi confronti – anche tenuto conto della continuazione esterna con i reati giudicati con sentenza della Corte di appello di Caltanissetta del 5 aprile 2016 – in 3 anni e 10 mesi di reclusione.

2. Avverso il predetto provvedimento ha proposto ricorso l’imputato, per il tramite del difensore, con i seguenti motivi di seguito descritti nei limiti strettamente necessari ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen.

Con il primo motivo deduce violazione di legge, perchè il giudice del rinvio, pur essendo vincolato dalla decisione della Suprema Corte, si è limitato a confermare il percorso argomentativo della prima decisione di appello violando, quindi, i limiti del giudizio di rinvio.

Con il secondo motivo deduce violazione di legge, perchè la sentenza di appello non ha calcolato correttamente la pena della riconosciuta continuazione sia nella pena base che nell’aumento per i reati satelliti.

3. La difesa dell’imputato ha chiesto la discussione orale, cui ha successivamente rinunciato.

Con requisitoria orale il Procuratore generale, dr (omissis), ha concluso per il rigetto del ricorso.

Diritto
CONSIDERATO IN DIRITTO

Il ricorso è inammissibile quanto al primo motivo, fondato quanto al secondo.

1. Il primo motivo è inammissibile.

La pronuncia della Corte di Cassazione n. 36809 del 2023, che ha annullato la precedente sentenza di appello, aveva dedicato alla posizione di Ca. le seguenti considerazioni: “la Corte territoriale si è limitata ad osservare 1) assertivamente, il suo “protagonismo” quale amministratore fittizio e la sua disponibilità a consentire una serie di operazioni distrattive di somme durante il periodo in cui era amministratore, sottoscrivendo atti societari funzionali al disegno criminoso di Fa.; 2) i precedenti penali esistenti a suo carico e la sua asserita propensione a delinquere (“è recidivo reiterato e specifico e il fatto che si è prestato ai progetti di Fa. senza avere alcuna competenza nella gestione della società è chiaramente espressivo della sua propensione ad inserire in contesti delinquenziali di qualsivoglia genere”); 3) la mancanza di collaborazione dopo il fallimento. Elementi rilevanti sotto il profilo del trattamento sanzionatorio, ma del tutto inidonei ai fini dell’accertamento della responsabilità”.

La pronuncia n. 36809 aveva poi indicato al giudice del rinvio i principi di diritto da applicare precisando che “in tema di reati tributari, l’amministratore di diritto, come mero prestanome, è responsabile del reato a titolo di concorso per omesso impedimento dell’evento, ai sensi degli artt. 40, comma secondo, cod. pen. e 2932 cod. civ., a condizione che ricorra l’elemento soggettivo richiesto dalla norma incriminatrice. E ciò sia in tema di indebita compensazione di cui all’art. 10-quater D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74 (Sez. 3, n. 1722 del 25/09/2019, dep. 2020, Rv. 277507), sia con riferimento al delitto di occultamento o distruzione di documenti contabili, di cui all’art. 10 del D.Lgs. n. 74 del 2000 (Sez. 3, n. 15900 del 02/03/2016, Rv. 266757), sia in tema di omessa presentazione della dichiarazione ai fini delle imposte dirette o IVA (Sez. 3, n. 38780 del 14/05/2015, Rv. 264971)” e che “ed analogamente per i reati fallimentari, per i quali, tuttavia, occorre distinguere tra bancarotta documentale e bancarotta patrimoniale. Mentre con riguardo a quella documentale per sottrazione o per omessa tenuta in frode ai creditori delle scritture contabili, ben può ritenersi la responsabilità del soggetto investito solo formalmente dell’amministrazione dell’impresa fallita (cosiddetto “testa di legno”), atteso il diretto e personale obbligo dell’amministratore di diritto di tenere e conservare le suddette scritture (purché sia fornita la dimostrazione della effettiva e concreta consapevolezza del loro stato, tale da impedire la ricostruzione del movimento degli affari: Sez. 5, n. 43977 del 14/07/2017, Rv. 271754), non altrettanto può dirsi con riguardo all’ipotesi della distrazione, relativamente alla quale non può, nei confronti dell’amministratore apparente, trovare automatica applicazione il principio secondo il quale, una volta accertata la presenza di determinati beni nella disponibilità dell’imprenditore fallito, il loro mancato reperimento, in assenza di adeguata giustificazione della destinazione ad essi data, legittima la presunzione della dolosa sottrazione, dal momento che la pur consapevole accettazione del ruolo di amministratore apparente non necessariamente implica la consapevolezza di disegni criminosi nutriti dall’amministratore di fatto (Sez. 5, n. 54490 del 26/09/2018, Rv. 274166)”.

Il ricorso deduce che il giudice del rinvio si è limitato a riproporre la medesima motivazione della prima sentenza di appello, violando i limiti di cui all’art. 627, comma 3, cod. proc. pen., secondo cui “il giudice di rinvio si uniforma alla sentenza della corte di cassazione per ciò che concerne ogni questione di diritto con essa decisa”.

Il motivo è manifestamente infondato.

Nel motivare sull’elemento soggettivo del reato di omessa conservazione delle scritture fiscali, il giudice del rinvio ha effettivamente riproposto l’argomento del comportamento tenuto da Ca. dopo il fallimento evidenziando che questi era stato convocato più volte dal curatore per depositare le scritture contabili e non aveva mai ottemperato (pag. 8 della sentenza), ma poi ha anche aggiunto che Ca. aveva accettato di assumere la carica in virtù del preesistente rapporto di fiducia con Fa. e che era consapevole che la società era gestita da parte di questi (sempre pag. 8), e che l’elemento soggettivo si ricava anche dalla finta denuncia di smarrimento di Te. e dalle anomale, per modalità, dimissioni di Ca. avvenute proprio all’indomani della verifica fiscale della Guardia di finanza (sempre pag. 8).

Il ricorso non prende posizione su tali punti del percorso argomentativo con cui la sentenza impugnata ha ritenuto l’esistenza del dolo del reato in esame, e, pertanto, incorre nel vizio di aspecificità dei motivi di impugnazione (Sez. 2, Sentenza n. 17281 del 08/01/2019, Delle Cave, Rv. 276916, nonché, in motivazione, Sez. U, Sentenza n. 8825 del 27/10/2016, dep. 2017, Galtelli, Rv. 268823).

I motivi di ricorso per cassazione sono, infatti, inammissibili quando difettino della necessaria correlazione con le ragioni, di fatto o di diritto, poste a fondamento del provvedimento impugnato (Sez. 5, n. 28011 del 15/02/2013, Sammarco, Rv. 255568). Le ragioni di tale necessaria correlazione tra la decisione censurata e l’atto di impugnazione risiedono nel fatto che quest’ultimo non può ignorare le ragioni del provvedimento censurato (così in motivazione Sez. U, n. 8825 del 27/10/2016, Galtelli, Rv. 268822) in quanto la funzione tipica dell’impugnazione è quella della critica argomentata avverso il provvedimento cui si riferisce che si realizza attraverso la presentazione di motivi che, a pena di inammissibilità (artt. 581 e 591 cod. proc. pen.), debbono indicare specificamente le ragioni di diritto e gli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta.

Nel motivare sull’elemento soggettivo del reato di omessa dichiarazione dei redditi, la sentenza ha poi evidenziato anzitutto che il reato è formale, e riguarda un obbligo che è a carico dell’amministratore di diritto, aggiungendo che non rileva, pertanto, la mancanza dei doveri di controllo bensì la violazione di un obbligo dichiarativo cui l’amministratore di diritto è tenuto per legge.

La tesi esposta nella sentenza impugnata trova, in effetti, precedenti nella giurisprudenza di legittimità, che ha affermato, infatti, che “il reato di omessa presentazione della dichiarazione ai fini delle imposte dirette o IVA (art. 5, D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74) è configurabile nei confronti dell’amministratore di diritto di una società e l’amministratore di fatto, quale mero prestanome, risponde a titolo di concorso per omesso impedimento dell’evento (artt. 40, comma secondo, cod. pen. e 2932 cod. civ.), a condizione che ricorra l’elemento soggettivo richiesto dalla norma incriminatrice (Sez. 3, n. 23425 del 28/04/2011, Ceravolo, Rv. 250962)”.

Però, la sentenza impugnata non si è fermata alla constatazione della configurabilità del reato in esame già soltanto per effetto della carica ricoperta, ma, per aderire al principio di diritto imposto dalla pronuncia rescindente, ha aggiunto che la indifferenza serbata dall’amministratore di diritto circa le sorti dell’azienda che si appropinquava alla decozione, rappresenta l’indice, più che dell’accettazione di un rischio, di un atteggiamento di piena adesione al disegno illecito dell’amministratore di fatto, in questo modo aderendo a quell’orientamento della giurisprudenza di legittimità che ritiene che una corresponsabilità possa “essere imputata solo in base alla posizione di garanzia di cui all’art. 2392 cod. civ., in forza della quale l’amministratore deve conservare il patrimonio sociale ed impedire che si verifichino danni per la società e per i terzi” (Sez. 3, Sentenza n. 38780 del 14/05/2015, Rv. 264971, in motivazione).

Anche in tal caso il ricorso non prende posizione su tale punto del percorso argomentativo con cui la sentenza impugnata ha ritenuto l’esistenza del dolo del reato in esame, e, pertanto, incorre nel vizio di aspecificità dei motivi di impugnazione.

Nel motivare, infine, sull’elemento soggettivo del reato di bancarotta fraudolenta, la sentenza impugnata ha ricavato il dolo della distrazione dalla costante e continua presenza di Ca. come amministratore delle numerose compagini societarie gestite in concreto da Fa., e nella circostanza che Ca. abbia rassegnato le dimissioni con raccomandata del 27 luglio 2012 inviata, peraltro, in modo del tutto irrituale, non al consiglio di amministrazione o al collegio sindacale, ma ad un ufficiale di polizia giudiziaria, fatto che dimostrerebbe la mera strumentalità del comportamento all’esonero delle responsabilità.

Il percorso logico della sentenza impugnata è coerente con il principio di diritto dettato dalla sentenza rescindente, che aveva evidenziato la necessità di argomentare sulla consapevolezza del prestanome dei fatti distrattivi. Dall’esistenza di un rapporto consolidato tra Ca. e l’amministratore di fatto non è, infatti, manifestamente illogico aver ricavato la consapevolezza da parte del prestanome delle modalità di gestione da parte dell’amministratore di fatto delle società avviate alla decozione.

Anche in tal caso il ricorso non prende posizione su tale punto del percorso argomentativo con cui la sentenza impugnata ha ritenuto l’esistenza del dolo del reato in esame, e, pertanto, incorre nel vizio di aspecificità dei motivi di impugnazione, non avendo compiuto lo sforzo di aggredire nella sua interezza il percorso logico della sentenza impugnata.

Il primo motivo è, pertanto, inammissibile.

2. Il secondo motivo è, invece, fondato.

La sentenza di appello ha ritenuto l’esistenza di un unico disegno criminoso tra i tre reati di cui ha accertato la responsabilità (occultamento documentazione contabile e fiscale, omessa presentazione dichiarazione fiscale, bancarotta fraudolenta) ed i reati oggetto della sentenza della Corte di appello di Caltanissetta del 5 aprile 2016 (che in sentenza si riferisce essere i reati degli artt. 8 e 10 D.Lgs. n. 74 del 2000).

Nel calcolare la pena del reato continuato così individuato, la sentenza impugnata ha ritenuto più grave il reato di bancarotta fraudolenta del capo V, ed ha determinato la pena in aumento rispetto a quella già quantificata dalla sentenza della Corte di appello di Caltanissetta del 5 aprile 2016, aggiungendo “la pena di mesi 8 di reclusione e, per l’effetto, va determinata la pena complessiva nella misura di anni 3 e mesi 10 di reclusione”.

Il ricorso deduce che in questo modo la sentenza impugnata non permette di comprendere quanto il giudice abbia inflitto a titolo di pena base per il capo V, e quanto abbia inflitto per i due reati satellite della continuazione interna.

Il motivo è fondato.

Nel caso di continuazione tra reati in parte decisi con sentenza definitiva ed in parte “sub iudice”, la valutazione circa la maggiore gravità delle violazioni deve essere compiuta confrontando la pena irrogata per i fatti già giudicati con quella irroganda per i reati al vaglio del decidente, attesa la necessità di rispettare le valutazioni in punto di determinazione della pena già coperte da giudicato e, nello stesso tempo, di rapportare grandezze omogenee. (Sez. 2, Sentenza n. 935 del 23/09/2015, dep. 2016, Velia, Rv. 265733; conforme Sez. 6, Sentenza n. 36402 del 04/06/2015, Fragnoli, Rv. 264582).

Una volta individuata la violazione più grave, il percorso logico ulteriore che deve seguire il giudice è diverso a seconda che la violazione più grave sia tra quelle già giudicate o tra quelle ancora sub iudice.

“Qualora la violazione più grave sia tra quelle già giudicate, il giudice del procedimento in corso deve soltanto stabilire l’ulteriore aumento da applicare alla pena già inflitta per la violazione più grave. La giurisprudenza di questa Corte (…) ha avuto già modo di precisare che, in tal caso, alla pena inflitta con la sentenza irrevocabile si aggiunge la frazione di pena in aumento per la continuazione per i reati accertati nel giudizio in corso con la conseguenza che il giudice non può riconsiderare e rideterminare, ai sensi dell’art. 133 cod. pen., l’entità di quella pena definitiva, per il principio della intangibilità della stessa” (Sez. 3, Sentenza n. 20915 del 26/04/2013, Markovic, Rv. 255778, in motivazione).

Qualora, invece, la violazione più grave sia tra quelle ancora sub iudice, il giudice dovrà determinare la pena di quest’ultimo, che dovrà assumere come base del calcolo, e poi operare autonomi aumenti per ciascuno dei i reati satellite, compresi quelli già riuniti in continuazione. Nella quantificazione della pena per questi ultimi deve applicare il principio di diritto secondo cui “il giudice della cognizione che, in sede di applicazione della continuazione, individui il reato più grave in quello al suo esame e i reati-satellite in quelli già definitivamente giudicati, non è vincolato, nella rideterminazione della complessiva pena, dalla misura stabilita dalla sentenza irrevocabile relativa ai reati-satellite” (Sez. 1, Sentenza n. 5832 del 17/01/2011, PG in proc. Razzaq, Rv. 249397).

La quantificazione della pena stabilita nella sentenza impugnata non rispetta questi principi di diritto, non avendo il giudice di appello provveduto a determinare la pena per il reato più grave ed ad assumerla come base del calcolo, e non avendo provveduto ad operare autonomi aumenti per ciascuno dei i reati satellite, compresi quelli già riuniti in continuazione.

Ne consegue che sotto questo profilo la sentenza impugnata non resiste alle censure che le sono state rivolte, e che essa deve essere, pertanto, annullata con rinvio per nuovo giudizio, limitatamente alla determinazione del trattamento sanzionatorio.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata limitatamente alla misura della pena con rinvio per nuovo giudizio sul punto ad altra sezione della Corte di appello di Caltanissetta. Dichiara inammissibile nel resto il ricorso.

Così deciso il 16 ottobre 2024.

Depositato in Cancelleria il 3 dicembre 2024.

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