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Cassazione penale sez. I, 08/01/2016, n. 523

Massima

L’errore materiale obiettivamente riconoscibile nella sentenza, come l’erronea indicazione di un capo di imputazione per il calcolo della pena nel reato continuato, non comporta la nullità del provvedimento né la cessazione dell’efficacia della misura cautelare. Tale errore è considerato meramente apparente se il dispositivo della sentenza indica correttamente la dichiarazione di responsabilità penale e la motivazione permette di ricostruire chiaramente e univocamente la volontà del giudice. La successiva correzione di tale errore materiale in sede di appello ripristina la decorrenza di un nuovo termine di fase per la custodia cautelare, rendendo infondata ogni doglianza sulla sua presunta scadenza.

Supporto alla lettura

MISURE CAUTELARI

Si tratta di quei provvedimenti, di natura provvisoria ed immediatamente esecutiva, emessi dall’Autorità Giudiziaria, finalizzati a prevenire determinati eventi che possono verificarsi durante le indagini preliminari o nel corso del processo, capaci di compromettere la funzione giurisdizionale.

Le misure cautelari si dividono in:

– PERSONALI: cioè limitative della libertà personale. Possono essere:

  • coercitive (sopprimono o limitano la libertà personale): si distinugono in custodiali, quindi arresti domiciliari (art. 284 c.p.p.), custodia in carcere (art. 285 c.p.p.), custodia in luogo di cura (art. 286 c.p.p.); non custodiali, divieto di espatrio (art. 281 c.p.p.), obbligo di presentazione alla P.G. (art. 282 c.p.p.), allontanamento dalla casa familiare (art. 282bis c.p.p.), divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa (art. 282ter c.p.p.), divieto e obbligo di dimora (art. 283 c.p.p.)
  • interdittive (diritti e facoltà personali): quindi: sospensione della potestà di genitore (art. 288 c.p.p.), sospensione da un pubblico ufficio o servizio (art. 289 c.p.p.), in questo caso il GIP deve prima procedere ad interrogatorio, divieto di esercitare determinate attività (art. 290 c.p.p.)

– REALI: provvedimenti che incidono sul patrimonio, hanno finalità cautelari riferibili o alla garanzia per il pagamento delle pene pecuniarie, spese di giustizia ed eventuali risarcimenti danni (sequestro conservativo, artt. 316-320 c.p.p.), ovvero all’esigenza di impedire la commissione di nuovi reati o ulteriori conseguenze a quelli già commessi (sequestro preventivo, artt. 321-323 c.p.p.). Tali misure vanno richieste al giudice da parte del P.M., per esse è previsto un sistema di impugnazioni e non sono condizionate ai presupposti dei gravi indizi e delle esigenze cautelari.

Per quanto riguarda le condizioni per l’applicazione di tali misure, bisogna guardare a:

  • limite edittale della pena: delitti, pena dell’ergastolo o della reclusione superiore al massimo a 3 anni per le misure coercitive diverse dalla custodia cautelare in carcere e per le misure interdittive, pena della reclusione non inferiore nel massimo a 4 anni per la custodia cautelare in carcere;
  • gravi indizi di colpevolezza;
  • esigenze cautelari (art. 274 c.p.p.): devono essere specifiche ed inderogabili, relative ad un pericolo di inquinamento probatorio ed attuale, fondate su circostanze, espressamente indicate nel provvedimento, pena nullità (in questo caso la custodia cautelare non può avere durata superiore ai 30 giorni ed è prorogabile fino a un massimo di 90 giorni). Se vi è fuga o pericolo di fuga, quando la pena applicabile in concreto superi i due anni di reclusione, oppure per gravi delitti con uso delle armi o altri mezzi di violenza personale, contro ordine costituzionale, criminalità organizzata.

Il giudice adotterà la misura cautelare più opportuna, secondo i principi di adeguatezza di proporzionalità, di obbligatorietà della custodia cautelare, nel caso di criminalità organizzata, omicidio volontario, prostituzione o pornografia minorile. Non può disporsi la custodia cautelare in carcere di donna incinta, madre di prole inferiore a 3 anni con lei convivente, padre se la madre è deceduta o impossibilitata a dare assistenza alla prole, ultrasettantenne.

L’applicazione della misura avviene con provvedimento del giudice, su richiesta del P.M., il quale dovrà trasmettere al giudice, unitamente alla richiesta di applicazione di una misura cautelare, non solo gli elementi che sono a fondamento di essa, ma anche quelli a favore dell’imputato, le eventuali deduzioni e memorie difensive già depositate. All’esecuzione dell’ordinanza dovrà seguire l’interrogatorio (c.d. di garanzia) della persona interessata. Nel caso di mancata esecuzione per irreperibilità della persona da sottoporre alla misura cautelare, l’art. 295 c.p.p. prevede che a seguito di verbale di vane ricerche, il giudice dichiari la latitanza del soggetto, quando la misura sia di tipo coercitivo, ma non necessariamente custodiale.

Avverso l’ordinanza che applica le misure, oltre il ricorso per cassazione è previsto il duplice rimedio del riesame e dell’appello.

Ambito oggettivo di applicazione

Svolgimento del processo

1. Con ordinanza emessa il 15/07/2015 il Tribunale del riesame di Milano rigettava la richiesta presentata da (omissis), ai sensi dell’art. 310 cod. proc. pen., finalizzata a ottenere l’annullamento dell’ordinanza emessa il 17/06/2015 dalla Corte di assise di appello di Milano, con cui veniva rigettata la richiesta di scarcerazione dell’imputato per decorrenza dei termini di fase della custodia cautelare.

La Corte di assise di appello di Milano, in particolare, si era pronunciata sull’istanza presentata l’11/06/2015, con cui l’imputato chiedeva pronunciarsi declaratoria di cessazione dell’efficacia del titolo cautelare genetico, in conseguenza dell’errore materiale della sentenza di primo grado emessa dal G.U.P. del Tribunale di Milano il 28/01/2014, in cui il reato più grave su cui operare l’aumento per la continuazione veniva indicato nel capo 12), per cui il (omissis) non era imputato, anzichè nel capo 13). Da tale errore conseguiva la nullità della sentenza di primo grado ex art. 546 c.p.p., comma 3, atteso che la mancata indicazione della condanna per il capo 13) determinava la condanna per il solo capo 11).

La Corte di assise di appello, rigettava l’istanza proposta rilevando che, a far data dal deposito della motivazione, era iniziato a decorrere il nuovo termine di fase di cui all’art. 303 c.p.p., comma 1, lett. c), n. 3, la cui scadenza doveva individuarsi nel 26/10/2015, non ancora decorsa.

A seguito del ricorso ex art. 310 cod. proc. pen., il tribunale del riesame, con l’ordinanza impugnata, rigettava l’appello, rilevando che l’errore materiale dedotto non rilevava nel caso di specie, atteso che nel dispositivo della sentenza di primo grado la dichiarazione di responsabilità penale indicava esattamente i capi 1), 11), 13) e 17) e solo nella quantificazione della pena inflitta veniva erroneamente indicato il capo 12), quale reato più grave.

Si rilevava, inoltre, che l’imputato rispondeva di quattro capi di imputazione – contrassegnati dai numeri 1), 11), 13) e 17) – tra i quali pacificamente non era compreso il capo 12), la cui erronea indicazione non poteva comportare alcuna nullità della sentenza, nè determinare la cessazione dell’efficacia della misura cautelare con riferimento ai due capi di imputazione, contrassegnati dai numeri 11) e 13).

2. Avverso tale ordinanza il (omissis), a mezzo del suo difensore, ricorreva per cassazione, deducendo due motivi di ricorso.

Con il primo motivo di ricorso si deduceva violazione di legge, in relazione all’art. 125 c.p.p., comma 3, con riguardo al capo 13) della rubrica, tenuto conto del combinato disposto degli artt. 130 e 306 c.p.p. e art. 303 c.p.p., comma 1 bis.

Si deduceva, in particolare, che, con specifico riferimento al capo 13), il giudice di primo grado aveva determinato un erroneo calcolo interno della pena per il reato continuato, non emendabile dal giudice della cautela, che non poteva provvedervi sia pure ai soli fini cautelari. Nè tantomeno era possibile provvedere alla correzione nell’ipotesi – assimilabile a quella in esame – di omissione della condanna nel dispositivo, con la conseguenza che non rilevava nel caso in esame il riferimento al trattamento sanzionatorio dell’imputato richiamato nel provvedimento impugnato, riguardando tale indicazione la motivazione della sentenza e non il dispositivo.

Con il secondo motivo di ricorso si deduceva violazione di legge, in relazione all’art. 125 c.p.p., comma 3, con riguardo all’art. 300 c.p.p., comma 4, in relazione al capo 11) dell’imputazione, già contrassegnato dal numero 14) del titolo cautelare.

Si deduceva, in tale ambito, che il termine cautelare di fase – esclusa la possibilità di correggere l’erronea determinazione del capo 13) – riguardava il solo capo 11) e doveva ritenersi interamente spirato, in conseguenza del combinato disposto dell’art. 303 c.p.p., comma 1, lett. c) e art. 304 c.p.p., comma 4. Ne conseguiva che, dovendosi valutare esclusivamente il termine cautelare di fase relativo al capo 11), questo doveva ritenersi interamente spirato alla data del 29/05/2015.

Queste ragioni processuali imponevano l’annullamento dell’ordinanza impugnata.

Motivi della decisione

1. Il ricorso è infondato.

Deve, innanzitutto, rilevarsi che il presupposto processuale posto a fondamento del ricorso risulta venuto meno, in conseguenza del fatto che l’errore materiale relativo al capo 13) della rubrica – conseguente alla sentenza di primo grado emessa dal G.U.P. del Tribunale di Milano il 28/01/2014 – è stato corretto dalla Corte di assise di appello con il dispositivo della sentenza pronunciata il 29/06/2015. Ne consegue l’infondatezza dell’assunto difensivo, secondo cui il G.U.P. del Tribunale di Milano, nel pronunciare il dispositivo della sentenza di primo grado, indicava come reato più grave quello di cui al capo 12) non contestato al (omissis); mentre, non emetteva sentenza di condanna per il reato di cui al capo 13), attesa l’erronea indicazione nel dispositivo della decisione di primo grado alla quale ci si è riferiti.

In altri termini, essendo intervenuta il 29/06/2015 la sentenza di appello, emendata dell’errore relativo al capo 13) della rubrica, dalla quale decorre un nuovo termine di fase, i termini di custodia cautelare non possono ritenersi decorsi, nè al momento della presentazione della richiesta di scarcerazione, nè al momento dell’emissione del provvedimento impugnato, rimanendo in tal modo assorbita ogni ulteriore doglianza difensiva, a fronte della correzione dell’errore materiale in questione.

In questa cornice processuale, deve rilevarsi che l’imputato, con la sentenza di primo grado, emessa il 28/01/2014, veniva condannato alla pena di anni quattordici, mesi due e giorni venti di reclusione, per i reati contestati, unificati dal vincolo della continuazione, ritenuto più grave quello di cui al capo 13), con indicazione del termine di novanta giorni per il deposito della motivazione della sentenza, con contestuale sospensione dei termini di custodia cautelare, cui faceva seguito un ulteriore periodo di sospensione, concesso ai sensi dell’art. 154 disp. att. c.p.p., comma 4 bis.

Ne derivava che, decorso il termine di anni uno e mesi sei, che corrispondeva al termine di fase di cui all’art. 303 c.p.p., comma 1, lett. c), n. 3, decorrente dal 28/01/2014, data della pronuncia della sentenza di primo grado, doveva aggiungersi l’ulteriore periodo di giorni novanta, previsto dal combinato disposto dell’art. 544 c.p.p., comma 3 e art. 304 c.p.p., comma 1, lett. c) bis.

Ne discende che, sulla scorta della ricostruzione correttamente effettuata dal Tribunale del riesame di Milano, sulla quale ci si soffermava analiticamente e con argomenti processuali ineccepibili nelle pagine 13 e 14 del provvedimento impugnato, il termine cautelare di fase del procedimento in esame non risulta decorso.

2. A prescindere da tali pur dirimenti questioni, il Tribunale del riesame di Milano respingeva l’appello proposto nell’interesse del (omissis) anche sulla scorta di un altro argomento processuale, con specifico riferimento all’errore materiale relativo al capo 13) della rubrica, parimenti meritevole di condivisione.

Nell’ordinanza impugnata, in particolare, a sostegno della correttezza della decisione adottata con ordinanza l’11/06/2015 dalla Corte di assise di appello di Milano, si richiamava la giurisprudenza consolidata di questa Corte, secondo cui deve ritenersi meramente apparente il contrasto tra la motivazione e il dispositivo, laddove nella parte motiva – analogamente a quanto riscontrabile nel caso in esame – è perfettamente ricostruibile l’univoca volontà del decidente, chiarendosi le ragioni poste a fondamento della decisione adottata.

Sul punto, si ritiene utile richiamare la posizione ermeneutica espressa da questa Corte, correttamente richiamata nel provvedimento in esame, a tenore del quale: “In caso di contrasto tra dispositivo e motivazione non contestuali, il carattere unitario della sentenza, in conformità al quale l’uno e l’altra, quali sue parti, si integrano naturalmente a vicenda, non sempre determina l’applicazione del principio generale della prevalenza del primo in funzione della sua natura di immediata espressione della volontà decisoria del giudice;

invero, laddove nel dispositivo ricorra un errore materiale obiettivamente riconoscibile, il contrasto con la motivazione è meramente apparente, con la conseguenza che è consentito fare riferimento a quest’ultima per determinare l’effettiva portata del dispositivo, individuare l’errore che lo affligge ed eliminarne gli effetti, giacchè essa, permettendo di ricostruire chiaramente ed inequivocabilmente la volontà del giudice, conserva la sua funzione di spiegazione e chiarimento delle ragioni fondanti la decisione” (cfr. Sez. F, n. 47576 del 09/09/2014, Savini, Rv. 261402).

3. Per queste ragioni, il ricorso proposto nell’interesse di (omissis) deve essere rigettato, con la sua condanna al pagamento delle spese processuali, cui consegue, a cura della cancelleria, la trasmissione di copia del provvedimento al direttore dell’istituto penitenziario, ai sensi dell’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Dispone trasmettersi, a cura della cancelleria, copia del provvedimento al direttore dell’istituto penitenziario, ai sensi dell’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 26 novembre 2015.

Depositato in Cancelleria il 8 gennaio 2016

Allegati

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