Massima

La circostanza che la patologia denunciata rientri tra le malattie tabellate, ai sensi dell’art. 3 del D.P.R. n. 1124 del 1965, comporta l’operatività di una presunzione legale di origine professionale, a condizione che il lavoratore abbia fornito prova dell’adibizione a una lavorazione tabellata — ovvero dell’esposizione a un rischio ambientale derivante da tale lavorazione — nonché dell’esistenza della malattia e della presentazione della denuncia entro il termine massimo previsto per l’indennizzabilità. Tale presunzione, tuttavia, non ha carattere assoluto, potendo essere superata mediante prova contraria, gravante sull’INAIL, circa l’esistenza di cause extraprofessionali idonee a escludere il nesso eziologico tra la malattia e l’attività lavorativa. Nel caso di specie, tale presunzione è stata validamente superata, avendo il consulente tecnico d’ufficio individuato quale fattore causale esclusivo della patologia il tabagismo, riconosciuto come elemento determinante e non riconducibile all’attività lavorativa svolta.

(Rocchina Staiano)

Supporto alla lettura

MALATTIA PROFESSIONALE

Per malattia professionale si intende una patologia che insorge a causa dell’attività lavorativa, detta anche tecnopatia, presuppone che il rischio sia provocato dall’attività lavorativa in maniera progressiva e da una serie di atti ripetuti nel tempo, infatti è caratterizzata da un’azione lenta sull’organismo, non violenta e non concentrata nel tempo.

Per fare diagnosi di malattia professionale, possono essere considerate anche le cause extraprofessionali che possono avere contribuito all’insorgere della patologia, purché non siano le sole cause ad aver procurato l’infermità. Va distinta dalla comune malattia, che non è di solito correlata al lavoro (es. l’influenza), e va, inoltre, distinta dall’infortunio, che è invece un evento traumatico che interviene durante l’orario di lavoro, in maniera violenta e concentrata nel tempo.

Deve avere due caratteristiche:

  • essere causata dall’esposizione a determinati rischi correlati al tipo di lavoro, come il contatto con polveri e sostanze nocive, rumore, vibrazioni, radiazioni, o misure organizzative che agiscono negativamente sulla salute;
  • il rischio deve agire in modo prolungato nel tempo e quindi la causa deve essere lenta.

Una volta fatta la diagnosi da parte del medico, è necessario effettuare la denuncia di malattia professionale all’INAIL, compilando l’apposito modulo predisposto dall’ente, che deve essere compilato dalla persona che fa diagnosi di malattia professionale, può quindi essere il medico di base o il medico competente del servizio di prevenzione e protezione aziendale. Denunciata la malattia, l’INAIL deve certificare o meno la presenza della malattia professionale, quindi il lavoratore viene convocato nella sede INAIL territoriale di competenza per essere sottoposto a visita medica e per iniziare l’iter per il riconoscimento della malattia.

Se viene riconosciuta la malattia professionale, e qualora questa impedisca al lavoratore di tornare a lavorare, l’INAIL corrisponde al lavoratore un’indennità dal quarto giorno successivo alla manifestazione della malattia, così retribuita (l’indennità viene calcolata sulla retribuzione corrisposta al dipendente nel 15 giorni prima dell’evento):

  • 60% della retribuzione media giornaliera per i primi 90 giorni;
  • 75% della retribuzione media giornaliera dal 91° giorno fino alla guarigione

Se il dipendente ha riportato un danno biologico, l’indennità di malattia professionale cambia e si ha diritto ad un indennizzo Inail tarato sulla base della percentuale di danno biologico.

Ambito oggettivo di applicazione

Fatti di causa

1. Con sentenza n. 489 del 25.7.2016 la Corte d’appello di Milano, confermando la pronuncia del Tribunale di Lodi, ha dichiarato legittimo il licenziamento intimato il 31.10.2007 a P. F., dipendente, con qualifica di dirigente, della A. s.p.a. con mansioni di direttore dello stabilimento San Giuliano milanese.

2. La Corte territoriale ha rilevato che la lettera di licenziamento conteneva una concisa, seppur sufficiente, motivazione (concernente la soppressione della posizione di direttore dello stabilimento ricoperto dal F., nell’ambito di una riorganizzazione delle strutture, con impossibilità di ricollocamento del dirigente in altra posizione di lavoro) e che l’istruttoria espletata ha confermato un’effettiva riorganizzazione che ha riguardato una diversa impostazione della direzione dello stabilimento.

3. Il dirigente ha proposto, avverso tale sentenza, ricorso per cassazione affidato a tre motivi. La società A. s.p.a. ha depositato controricorso.

Ragioni della decisione

1. Con il primo motivo di ricorso si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1362, 1363, 1366, 1367, 1368, 1369, 1370, 1371 in relazione all’art. 22 del CCNL Dirigenti di aziende industriali nonché vizio di motivazione (ex art. 360, primo comma, nn. 3 e 5, cod.proc.civ.) avendo, la Corte distrettuale, trascurato che la clausola contrattuale richiede che la lettera di licenziamento contenga una motivazione specifica e contestuale. La lettera inoltrata al F. conteneva espressioni tautologiche e generiche.

2. Con il secondo ed il terzo motivo di ricorso si denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 2094, 2095, 2697 nonché vizio di omessa motivazione (ex art. 360, primo comma, nn. 3 e 5, cod.proc.civ.) avendo, la Corte distrettuale, effettuato una erronea lettura e valutazione dei fatti emersi in corso di istruttoria, essendo state ignorate alcune delle circostanze riferite dai testimoni.

3. I motivi di ricorso sono in parte inammissibile e in parte infondati.

Deve, in primo luogo, rimarcarsi che in tema di ricorso per cessazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione. Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (ex aliis: Cass. nn. 7394 e 16698 del 2010).

Nella specie è evidente che il ricorrente lamenta la erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta, e dunque, in realtà, non denuncia un’erronea ricognizione della fattispecie astratta recata dalla norma di legge (ossia un problema interpretativo, vizio riconducibile all’art. 360, primo comma, n. 3, cod.proc.civ.) bensì un vizio-motivo, da valutare alla stregua del novellato art. 360, primo comma n. 5 cod.proc.civ., che – nella versione ratione temporis applicabile – lo circoscrive all’omesso esame di un fatto storico decisivo (cfr. sul punto Cass. Sez. U. n. 19881 del 2014), riducendo al “minimo costituzionale” il sindacato di legittimità sulla motivazione (Cass. Sez. U. n. 8053 del 2014).

La sentenza impugnata ha ampiamente esaminato i fatti controversi ed accertato che: la motivazione contenuta nella lettera di licenziamento (decisione di sopprimere dall’organigramma aziendale la posizione di lavoro di Direttore di stabilimento ricoperta dal F., nell’ambito di una riorganizzazione delle strutture e nella impossibilità di reperire in azienda una posizione comportante l’esercizio di responsabilità equivalenti), sebbene stringata, indicava una precisa ragione a cui la società ricollegava la scelta del licenziamento; l’istruttoria espletata aveva “confermato un’effettiva riorganizzazione che aveva riguardato anche una diversa impostazione della direzione dello stabilimento, non più demandata esclusivamente alla figura dirigenziale quale quella rivestita sino al 2007 dal F.” (pag. 6 della sentenza impugnata). In particolare, le testimonianze raccolte hanno consentito di accertare che la figura del direttore di stabilimento non è stata ripristinata, e ciò è confermato dagli organigrammi prodotti dalla società in primo grado, in quanto la direzione dello stabilimento di San Giuliano Milanese è stata in realtà avocata dalle due figure gerarchicamente sovraordinate (pag. 7 e 8 della sentenza impugnata).

Costituisce principio consolidato quello secondo cui la valutazione delle risultanze delle prove ed il giudizio sull’attendibilità dei testi, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito, il quale è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili (v., fra le altre, v. Cass. n. 11511 del 2014; 12988 del 2013). Tanto più dopo la predetta novella dell’art. 360 n. 5, cod.proc.civ., nella già richiamata interpretazione fatta propria dalla giurisprudenza di legittimità.

4. Per i profili che residuano, la Corte distrettuale ha correttamente interpretato l’art. 22 CCNL Dirigenti aziende industriali (suscettibile di sindacato diretto da parte di questa Corte a seguito della riforma del 2006) valutando sia il tenore della clausola contrattuale sia la rilevanza attribuita dalle parti sociali alla carenza o incompletezza della motivazione del licenziamento, rilevanza che si desume dalla lettura complessiva dell’intera disposizione contrattuale (riprodotta, in ricorso, solamente nel suo comma 2, con omissione di tutti gli altri commi).

La Corte distrettuale, con interpretazione ermeneutica corretta e con argomentazione logica, ha spiegato – esaminando il tenore della lettera di licenziamento – che la ragione, seppur concisa, era individuata, quindi, specifica, e tale da consentire al dirigente di comprendere quale fosse la ragione del recesso; che, inoltre, la società, nella memoria di costituzione in giudizio, aveva esplicitato i contenuti della riorganizzazione e che l’istruttoria espletata aveva confermato l’intervenuta effettiva ristrutturazione aziendale.

Ai fini della corretta esegesi della disposizione contrattuale invocata dal ricorrente anche alla luce dei richiamati canoni interpretativi della comune intenzione delle parti e del metodo sistematico (di cui agli artt. 1362 e 1363 cod.civ.), va sottolineato, inoltre, che questa Corte ha affermato che l’art. 22 del c.c.n.I. Dirigenti industriali del 16 maggio 1985 (il cui tenore appare simile a quello invocato dal ricorrente che non indica, in ricorso, la data di stipulazione), pur prevedendo che, in caso di risoluzione ad iniziativa dell’azienda, quest’ultima sia tenuta a specificarne contestualmente la motivazione, non sanziona tale omissione con il riconoscimento dell’indennità supplementare, ma si limita a prevedere che il dirigente, ove ritenga ingiustificato il recesso, possa ricorrere al collegio arbitrale, previsto dall’art. 19 del medesimo contratto collettivo, il quale, nel caso riconosca, all’esito dell’istruttoria, l’ingiustificatezza del licenziamento, può disporre l’attribuzione della suddetta indennità. Ne consegue che, ove la motivazione non sia stata resa con il licenziamento (ovvero, risulti insufficiente o generica), il datore di lavoro, nel rispetto del principio del contraddittorio ex art. 19, comma 13, del c.c.n.I. citato, può esplicitarla (od integrarla) nell’ambito del giudizio arbitrale, e, nell’ipotesi in cui il dirigente abbia scelto, in conformità al principio di alternatività delle tutele nelle controversie del lavoro, di adire direttamente il giudice ordinario, analoghe facoltà vanno riconosciute alla parte datoriale nell’ambito del processo, atteso che, diversamente, la posizione del datore di lavoro verrebbe ad essere compromessa per effetto di una autonoma ed insindacabile determinazione della controparte (cfr. Cass. n. 3175 del 2013).

Nella fattispecie in esame, la Corte distrettuale ha svolto, dunque, una corretta disamina del tenore testuale della lettera di licenziamento anche tenuto conto della rilevanza attribuita dalle parti sociali alla specificità del motivo di recesso in ipotesi di accertata giustificatezza del licenziamento.

5. In conclusione, il ricorso va rigettato e le spese di lite seguono il criterio della soccombenza dettato dall’art. 91 cod.proc.civ.

6. Sussistono i presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, previsto dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (legge di stabilità 2013).

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità liquidate in euro 200,00 per esborsi e in euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13.

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