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Cassazione civile sez. VI, 22/10/2020, n. 23071

Massima

L’appaltatore è tenuto, ai sensi dell’art. 1670 c.c., a denunciare tempestivamente al subappaltatore i vizi o le difformità dell’opera a lui contestati dal committente sia nell’ipotesi in cui agisca in regresso nei confronti del subappaltatore che in quella speculare in cui sia il subappaltatore ad agire nei suoi confronti per inadempimento.

Supporto alla lettura

CONTRATTO DI APPALTO

Si tratta dunque di un contratto di risultato e non di attività. Inoltre, si distingue dal contratto d’opera in quanto l’appaltatore non deve personalmente occuparsi del compimento delle opere commissionate, ma servirsi della propria organizzazione e gestirla a tal fine. Tale contratto può avere ad oggetto tanto il compimento di un’opera quanto essere un appalto di servizi. Il contratto d’appalto ha forma libera. Può quindi essere concluso anche oralmente, salvo nella circostanza in cui abbia ad oggetto la realizzazione di navi od aeromobili o in cui si tratti di un appalto pubblico. Il corrispettivo dell’appaltatore, salvo patto contrario, si matura soltanto al compimento ed al collaudo dell’opera. Il contratto di appalto consente al committente l’utilizzo dei rimedi risolutori generali, così come previsti dagli articoli 1453 e seguenti del codice civile, non senza qualche particolarità. La natura indivisibile della prestazione dell’appaltatore determina infatti che anche un inadempimento parziale dell’appaltatore corrisponda di fatto ad un inadempimento totale. Anche al di fuori dei casi di inadempimento, i rimedi risolutori specificamente previsti dal legislatore nell’ambito del contratto di appalto presentano delle peculiarità. L’articolo 1668 del codice civile prevede infatti un rimedio per il caso di difformità o vizi dell’opera. Nel caso questi non siano tali da rendere l’opera del tutto inadatta alla sua destinazione, l’appaltatore dovrà, alternativamente, eliminarli a proprie spese o ridurre il proprio corrispettivo. Nel caso invece le difformità o i vizi siano tali da renderla inadatta alla propria funzione, il committente potrà legittimamente domandare la risoluzione dell’appalto. Per ciò che invece riguarda il recesso unilaterale “ad nutum”, del committente, lo stesso, non è tuttavia privo di conseguenze giuridiche. L’esercizio di tale diritto potestativo non lo dispensa infatti dal dover tenere indenne l’appaltatore dalle spese sostenute, dalla parte dell’opera eseguita ed anche dal mancato guadagno. In sintesi la possibilità di recedere del committente è controbilanciata dal legislatore che, di fatto, prende in considerazione questo recesso alla stregua di un inadempimento. Le conseguenze pratiche non sono infatti dissimili.

Ambito oggettivo di applicazione

il Tribunale di Firenze, allora Sezione Distaccata di Pontassieve, accogliendo in parte la domanda della M. s.a.s. di M.F. & C., avanzata nei confronti della omissis s.r.l. in liquidazione, condannò la convenuta al pagamento della complessiva somma di Euro 37.193,78, oltre accessori, quale compenso per la produzione di talune componenti meccaniche di macchinari industriali, che quest’ultima aveva avuto commessa d’assemblare da un’azienda tedesca;

che la Corte d’appello di Firenze, con la sentenza di cui in epigrafe, rigettò l’impugnazione della omissis;

che avverso la statuizione d’appello ricorre l’appellante, illustrando unitaria censura e che la controparte resiste con controricorso, ulteriormente illustrato da memoria;

ritenuto che la ricorrente prospetta violazione e falsa applicazione dell’art. 1670 c.c., nonchè mancata applicazione dell’art. 1353 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, muovendo le seguenti critiche.

– l’art. 1670 c.c., era stato erroneamente evocato dalla sentenza, in quanto non si era in presenza dell’azione di regresso dell’appaltatore nei confronti del sub-appaltatore, ma dell’azione del sub-appaltatore proposta nei confronti dell’appaltatore;

– era rimasto provata la tempestiva denunzia della ricorrente, al momento in cui aveva ricevuto le contestazioni dell’azienda straniera (si fa riferimento in ricorso alle testimonianze di M.E. e R.G.);

– la Corte aveva errato nel non disporre la riunione con altro giudizio pendente davanti al Tribunale di Siena tra la omissis e la società tedesca, avente ad oggetto i difetti delle opere commissionate;

– non era stata fatta applicazione dell’art. 1353 c.c., avendo la Corte locale negato che con la scrittura del 5/10/2006 fosse stata posta una condizione sospensiva, che subordinava il pagamento del corrispettivo all’accettazione e al pagamento dei materiali da parte della prima committente.

CONSIDERATO

che il motivo è manifestamente infondato per le ragioni di cui appresso:

  1. a) la pretesa, secondo cui l’art. 1670 c.c., disciplinerebbe la sola ipotesi in cui l’appaltatore agisca in regresso nei confronti del subappaltatore, ma non quella speculare in cui sia il sub-appaltatore ad agire, davanti all’inadempimento dell’appaltatore, il quale, in questo caso sarebbe esonerato dal provare di avere comunicato al primo, nel termine decadenziale di sessanta giorni, di aver ricevuto la contestazione da parte del committente, è priva di giuridico fondamento; così ragionando, infatti, si differenzierebbero le due situazioni, che sono il rovescio della stessa medaglia, del tutto irragionevolmente: la pretesa di andare esente dal pagamento del corrispettivo dell’appaltatore, infatti, trova fondamento, in entrambe le ipotesi (nel primo, agendo in regresso e nel secondo, eccependo l’avverso inadempimento) nel vizio dell’opera contestato dal committente;
  2. b) a parte ogni altra valutazione, la ricorrente inammissibilmente non spiega dove e quando abbia avanzato la richiesta di riunione per connessione (l’altra causa, secondo la narrazione, pendeva a Siena) e, quindi, se una tal richiesta sia stata tempestivamente proposta ex art. 40 c.p.c.;
  3. c) aspecifico sotto il profilo del difetto dell’autosufficienza risulta la denunziata omessa applicazione dell’art. 1353 c.c., poichè la Corte non è stata posta in condizione di conoscere l’atto;

considerato che, di conseguenza, siccome affermato dalle S.U. (sent. n. 7155, 21/3/2017, Rv. 643549), lo scrutinio ex art. 360-bis c.p.c., n. 1, da svolgersi relativamente ad ogni singolo motivo e con riferimento al momento della decisione, impone, come si desume in modo univoco dalla lettera della legge, una declaratoria d’inammissibilità, che può rilevare ai fini dell’art. 334 c.p.c., comma 2, sebbene sia fondata, alla stregua dell’art. 348-bis c.p.c. e dell’art. 606 c.p.p., su ragioni di merito, atteso che la funzione di filtro della disposizione consiste nell’esonerare la Suprema Corte dall’esprimere compiutamente la sua adesione al persistente orientamento di legittimità, così consentendo una più rapida delibazione dei ricorsi “inconsistenti”;

considerato che le spese legali debbono seguire la soccombenza e possono liquidarsi, in favore della controricorrente siccome in dispositivo, tenuto conto del valore e della qualità della causa, nonchè delle attività espletate;

che ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater (inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17) applicabile ratione temporis (essendo stato il ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013), si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis,se dovuto.

P.Q.M.

dichiara il ricorso inammissibile e condanna la ricorrente al pagamento, in favore della resistente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 4.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, e agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater (inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17), si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 23 settembre 2020.

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