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Cassazione civile sez. VI-1, 13/05/2021, n. 12736

Massima

In sede fallimentare, il diritto di proprietà acquisito per usucapione su un immobile è opponibile al fallimento – la cui curatela agisce quale terzo rispetto al titolo – solo se l’acquisto si è integralmente formato e reso opponibile ai terzi (ovvero tramite una sentenza di accertamento ex art. 2651 c.c. o un accordo di mediazione trascritto ex art. 2643 c.c., comma 12 bis) prima della sentenza dichiarativa di fallimento. Il procedimento di verifica del passivo, infatti, non è strutturalmente idoneo ad accertare o costituire un titolo di usucapione opponibile alla massa dei creditori; ne consegue che, in difetto di tale opponibilità, è precluso ogni ulteriore accertamento sulla sussistenza in concreto dei presupposti dell’usucapione.

Supporto alla lettura

USUCAPIONE

L’usucapione è un modo di acquisto a titolo originario della proprietà mediante il possesso continuativo del bene immobile o mobile per un periodo di tempo determinato dalla legge. L’istituto dell’usucapione, disciplinato dagli articoli 1158 e seguenti del codice civile, configura una delle ipotesi di acquisto di un diritto su beni mobili o immobili a titolo originario. Per il suo compimento infatti, a differenza degli acquisti a titolo derivativo, non necessita della collaborazione o del consenso di chi era in precedenza titolare del diritto usucapito. Per l’usucapione sono necessari i seguenti requisiti:

• La prima è l’“animus possidendi” cioè la a volontà di possedere un bene come si fosse titolari del diritto di proprietà o dell’altro diritto corrispondente.

• La seconda è l’“animus rem sibi habendi” cioè la volontà di tenere un bene esercitando i poteri corrispondenti a quelli del titolare del diritto reale.

• La terza è il “corpus possessionis”. Questo è lo stato di fatto che si configura in modo tale da far apparire il possessore quale titolare del diritto reale corrispondente.

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 5087, depositata il giorno 5 marzo 2014 riconoscono la possibilità di usucapire l’azienda con il possesso continuato ventennale. Secondo la Suprema Corte l’azienda, ai fini della disciplina del possesso e dell’usucapione, quale complesso di beni organizzati per l’esercizio dell’impresa, deve essere considerata come un bene distinto dai singoli beni che la compongono, e quindi suscettibile di essere unitariamente posseduta e, nel concorso degli altri elementi indicati dalla legge, usucapita. Secondo la Corte, se il possesso si esercita sulla cosa, e se si intende il termine “cosa” in senso economico-sociale, si possono considerare “cose” anche beni non corporei, come i beni immateriali (proprietà intellettuale, ad esempio) o complessi di beni organizzati, come ad esempio l’azienda, definita dal codice civile stesso come complesso organizzato di beni per l’esercizio di una impresa.

La Corte esprime una concezione “oggettivata” dell’azienda che, senza cancellare il suo collegamento organizzativo e finalistico con l’attività d’impresa, assume una propria autonomia di “cosa”, possibile oggetto di rapporti giuridici e di diritti. Occorre a tal fine separare l’azienda intesa come cosa, dall’insieme dei singoli beni e dall’esercizio dell’impresa.

I giudici in tal senso adducono quali esempi tipici di dissociazione tra proprietà dell’azienda intesa come “res” e esercizio dell’impresa il caso della successione mortis causa a favore di soggetti non imprenditori, l’affitto e l’usufrutto di azienda.

In tutti questi casi la proprietà della stessa è sganciata dal suo esercizio, in quanto l’azienda è nella disponibilità del proprietario della “cosa” senza che da parte dello stesso vi sia esercizio dell’attività di impresa.

Ambito oggettivo di applicazione

Svolgimento del processo

1.- La s.r.l. Demi Auto ha presentato, ai sensi degli artt. 93 e 103 L. Fall., istanza di rivendica di immobile al Fallimento della s.r.l. (omissis), dichiarato nel luglio 2017. A titolo della propria domanda ha assunto di avere usucapito il bene ex art. 1158 c.c..

Il giudice delegato ha respinto la richiesta, riprendendo la proposta formulata dal curatore, che aveva rilevato che “i documenti allegati (verbale di mediazione) non sono sufficienti a comprovare lo stato di usucapione”.

2.- La s.r.l. Demi Auto ha proposto opposizione ex artt. 98 ss. L. Fall. avanti al Tribunale di Raggio Calabria.

A supporto della propria posizione, ha esposto di avere posseduto fin dal 1990 – uti dominus e senza contestazioni o turbative di altri – l’immobile intestato alla società poi fallita, adibendolo all’uso di deposito/officina e così rendendolo funzionale all’esercizio della propria attività di impresa, avente a oggetto la rivendita e la riparazione degli autoveicoli. Ha inoltre dichiarato di avere, nel corso del tempo, eseguito a cura e spese proprie interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria dell’immobile; e pure che, considerata l’attività di impresa svolta, di concessionaria storica da ben oltre vent’anni di noti marchi automobilistici, l’esercizio del dedotto possesso dell’immobile era da “paragonarsi al fatto notorio, in quanto tale valutabile dal giudice”. Ha comunque istato di prove testimoniali in proposito.

L’opponente ha poi anche aggiunto di avere provveduto, nel maggio 2017, a depositare istanza di mediazione avente a “oggetto la domanda di declaratoria di avvenuto acquisto per usucapione della proprietà dell’immobile”. Precisando, altresì, che, nel toso dell’incontro poi tenutosi nella conseguente prospettiva, la s.r.l. (omissis) aveva riconosciuto che la “s.r.l. Demi Auto ha goduto del possesso ad usucapionem della proprietà dell’immobile e del terreno sottostante ininterrottamente dal 1990”; e che era stato anche sottoscritto il relativo verbale di mediazione.

3.- Con decreto depositato n data 28 maggio 2019, il Tribunale ha respinto l’opposizione.

4.- Al riguardo la pronuncia ha richiamato la norma dell’art. 1144 c.c., rilevando, da un lato, che l'”apprensione materiale fondata sulla tolleranza” esclude la sussistenza di un possesso uti dominus e, dall’altro, che, secondo l’interpretazione seguita dalla giurisprudenza di questa Corte, si ha “tolleranza” ogniqualvolta l’apprensione “tragga origine da spirito di condiscendenza” del proprietario.

Nella specie – ha precisato in questa direzione – gli atti di causa evidenziano la presenza di un simile stato di tolleranza, secondo quanto emerge da una “sere di indici”. Così, l’essere l’immobile stato comperato da (omissis) nel febbraio 1990, sicchè era “del tutto improbabile” che la Demi Auto avesse da subito potuto occupare uti dominus l’immobile “senza un consenso da parte del proprietario”, tanto più che si trattava di società neocostituita. Così pure la sussistenza di un “rapporto parentale” tra i soci delle rispettive società (in particolare, tra “(omissis), socio della (omissis) s.r.l., e (omissis), socio della Demi Auto s.r.l.”), circostanza, quest’ultima, di “non poco rilievo” – si è annotato -, posto che, secondo quanto si ritiene in giurisprudenza, “nei rapporti parentali la tolleranza si presume, ferma restando la possibilità di prova contraria”.

D’altra parte, la presenza di detto stato di tolleranza – ha altresì riscontrato il decreto – non risulta smentita dalla destinazione d’uso del bene, nè dal fatto che Demi Auto abbia provveduto alla manutenzione dell’immobile: tali circostanze ben possono essere spiegate con “una concessione in uso gratuito a titolo di comodato”, a sua volta giustificato dall'”affectio familiaris che lega i soggetti delle rispettive compagini societarie”.

5.- In prosieguo di motivazione, poi, il decreto ha in via ulteriore rilevato che, “quanto all’accordo di mediazione contenente il riconoscimento dell’altrui diritto di proprietà da parte della (OMISSIS) e in favore dell’odierna ricorrente”, deve essere “chiarito che, a differenza della sentenza accertativa dell’usucapione – che ha l’effetto di far nascere in capo all’usucapiente un diritto opponibile erga omnes e indipendente dall’ordo temporalis delle trascrizioni, trattandosi di acquisto a titolo originario (art. 2651 c.c.) -, l’accordo con cui una parte riconosce che l’altra parte ha usucapito un bene, che era di sua proprietà, invece, regolamenta una vicenda che riguarda le sole parti ed è opponibile ai terzi soltanto nel rispetto delle regole sulla continuità delle trascrizioni (ex art. 2642 c.c., n. 12 bis)”.

“Nel caso al vaglio” – si è osservato in consecuzione – “l’accordo non è stato trascritto con la conseguenza che non può essere opposto a un soggetto (la curatela), che è terzo”.

6.- Avverso l’indicato provvedimento la s.r.l. Demi Auto ha proposto ricorso, sviluppando due motivi di cassazione.

Ha resistito il Fallimento, con controricorso.

Motivi della decisione

7. I motivi di ricorso sono stati intestati nei termini qui di seguito riportati.

Primo motivo: “violazione o falsa applicazione del disposto di cui agli artt. 115811442697 e 2729 c.c. e art. 115 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3″.

Secondo motivo: “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5″.

8.- Con questi motivi – da esaminare in modo congiunto in ragione della loro stretta complementarietà – il ricorrente contesta la valutazione degli indici considerati dal Tribunale reggino, sia uti singuli, che nel loro insieme.

La decisione ha omesso di considerare – così si avverte – che i soggetti coinvolti non sono due persone fisiche, ma due società di capitali. Che non possono, in quanto tali, avere rapporti di parentela, nè per altro verso “possono arbitrariamente disporre dei propri beni per soddisfare esigenze di parenti che rivestano la qualità di soci di altra persona giuridica”.

D’altronde, l’esistenza di un rapporto di parentela tra (taluni) soci risulta “solo affermato e non dimostrato e peraltro non esattamente qualificato nella sua natura”. Tanto meno viene verificato se, al tempo di avvio del possesso uti dominus, il “legale rappresentante della (omissis) fosse sempre il sig. (omissis) e se il sig. (omissis) fosse socio della Demi Auto”.

Il giudice ha valorizzato per contro – così si prosegue circostanze generiche e inconferenti. Così il fatto che l’immobile sarebbe stato acquistato ne febbraio 1990 (e quindi poco tempo dopo la costituzione della società ricorrente) “non emerge dalle visure storiche prodotte dalla Curatela”; lo stesso, comunque, concerne unicamente la società poi fallita, non certo la Demi Auto, soggetto che resta in toto estraneo a questa vicenda.

Nulla osserva il Tribunale – ancora si prosegue – circa il verbale di mediazione, nè sul riconoscimento che è ivi contenuto. La decisione “si limita a rilevare l’inopponibilità di tale verbale alla Curatela in quanto non trascritto”: “non considerando comunque il valore probante delle dichiarazioni ivi contenute”, nè argomentando circa una “eventuale inattendibilità di tale affermazione”.

Neppure considera il Tribunale che – secondo quanto riscontrato da perizia di parte e confermato dai testi escussi – l’attuale ricorrente ha provveduto a demolire e ricostruire una “rilevante porzione dell’immobile adattandolo alle proprie esigenze commerciali” (così, in specie, nello sviluppo del secondo motivo).

9.- Il ricorso non può essere accolto.

10.- Per introdurre la ragione dell’espressa valutazione, occorre prima di tutto osservare che la motivazione, nel concreto resa dal decreto reggino per respingere l’opposizione presentata dalla s.r.l. Demi Auto, si manifesta articolata e complessa. Come oggettivamente composta di due parti distinte, più precisamente; dotate di strutture tra loro indipendenti, queste parti appaiono in sè stesse suscettibili di dignità e valutazione autonome.

La prima di queste parti gravita attorno alla norma dell’art. 1144 c.c. e attiene dunque all’eventuale presenza, nella specie concreta, degli elementi costitutivi della fattispecie di usucapione (cfr. sopra, n. 4).

La seconda, che fa riferimento alle figure dell’accordo di mediazione, nonchè della sentenza ex art. 2651 c.c., riguarda invece termini e condizioni per l’opponibilità di un titolo proprietario, che venga fondato su un’avvenuta usucapione, rispetto ai terzi (cfr. sopra, n. 5).

11.- Occorre adesso precisare che, nel concreto del plesso motivazionale approntato per respingere l’opposizione di Demi Auto, il decreto reggino non ha peraltro assunto i detti, distinti rilievi come tra loro autonomi e sostanzialmente alternativi; li ha espressi e considerati, per contro, nei termini di un indifferenziato continuum espositivo. Così a rappresentare, in definitiva, una motivazione, per quanto articolata, di impianto comunque unitario.

Dal canto suo, il ricorrente risulta confrontarsi in modo ampio con la prima parte di questa motivazione, negando con insistenza la presenza nella specie di uno stato di tolleranza (con rilievi, peraltro, in sè stessi non condivisibili: al fondo, il Tribunale basa il proprio giudizio sulla presunzione rappresentata dall’esistenza di un rapporto parentale tra i soci delle due società coinvolte; il ricorrente non contesta l’esistenza di questo rapporto, nè adduce argomenti atti in qualche modo a superare la conseguente presunzione per la fattispecie concretamente in esame, come per contro sarebbe stato suo preciso onere). Si confronta invece in modo molto limitato, e rapido, con l’altra parte della motivazione svolta dal decreto: per il tema dell’opponibilità dell’usucapione nei confronti dei terzi, la censura si esaurisce nel contestare ciò che il Tribunale ha privato di ogni rilevanza l’accordo di mediazione, che pure nei fatti era intervenuto, solo perchè non era stato trascritto (su questo punto cfr., in particolare, il penultimo capoverso del n. 8; nonchè infra, l’ultimo periodo del n. 15).

12.- Inquadrata negli indicati termini la decisione assunta dal Tribunale reggino, va ora rilevato che, se è da ritenere corretto il risultato finale a cui questa è approdata, non altrettanto può ripetersi per lo sviluppo motivazionale che ha complessivamente adottato. E questo, in particolare, per avere il decreto portato l’analisi anche sul piano dell’effettivo riscontro della sussistenza di un fatto d’usucapione a livello di fattispecie concreta.

In realtà, nell’ambito di un procedimento di rivendica per usucapione – che si situi all’interno del sistema di verifica del passivo fallimentare ex artt. 929398 e 103 L. Fall., secondo quanto interessa il presente giudizio – il rilievo relativo all’opponibilità ed efficacia del titolo di usucapione nei confronti del fallimento non è solo logicamente precedente a quello attinente al riscontro della sussistenza in concreto di un fatto di usucapione. Nell’ipotesi in cui sortisca un esito di segno negativo, il primo riscontro è tale, invero, da rendere comunque “impropri”, e quindi in sè stessi non rilevanti, la considerazione e l’esame di ogni altro profilo.

Secondo quanto vengono a confermare le osservazioni che qui di seguito si passa a svolgere e che pure vengono – nel riscontrare la conformità al diritto del dispositivo – a correggere, nella misura in cui occorre, la motivazione svolta dal Tribunale reggino ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 4.

13.- Per questo proposito, Giova prima di ogni altra cosa rilevare che – al pari di ogni altro titolo di acquisto di bene di cui il soggetto poi fallito sia stato il precedente titolare (per le peculiari questioni relative all’eventuale rilevanza domanda di esecuzione specifica ex art. 2932 c.c. nei confronti del fallimento del promittente alienante v., ad ultime, Cass., 18 gennaio 2018, n. 1190; Cass., 10 maggio 2018, n. 11465; Cass., 30 maggio 2018, n. 13687) – anche quello rappresentato dall’usucapione deve essersi interamente formato al tempo della sentenza dichiarativa, per potere essere fatto valere nei confronti del fallimento relativo.

Su questo punto ha più volte avuto occasione di esprimersi la giurisprudenza di questa Corte. Si è notato in particolare che, in ragione del principio di cui all’art. 42, comma 1, L. Fall., rimane escluso che sui beni di proprietà del fallito al tempo della sentenza dichiarativa i terzi possono acquistare diritti (fuori dalla prospettiva liquidatoria di cui agli artt. 104 ss. L. Fall., è chiaro), posto che si tratta di beni che sono ormai vincolati al soddisfacimento dei creditori che saranno ammessi al passivo (cfr., per i tempi più vicini, la pronuncia di Cass., 8 maggio 2013, n. 10895).

14.- Fissata questa prospettiva, giova adesso osservare che – nel contesto dell’attività di accertamento dell’anteriorità del titolo proprietario frutto di usucapione – il curatore (ovvero la massa dei creditori concorrenti) si pone propriamente come terzo rispetto a questo titolo: secondo quanto correttamente divisato, per l’appunto, dal giudice reggino.

Così come il curatore è terzo (e non già “rappresentante” del fallito o suo avente causa) rispetto a tutte le vicende che realizzano la fuoriuscita di un bene dal patrimonio del soggetto, del cui fallimento si discute, con connessa acquisizione del bene medesimo nel patrimonio di un altro soggetto: invero, non si potrebbe comunque trascurare che all’effetto acquisitivo, che è prodotto dalla compiuta usucapione, risulta fare propriamente riscontro il corrispondente effetto espropriativo del precedente titolare.

Sul tema sembra sufficiente richiamare qui la natura di “pignoramento generale”, che i precedenti di questa Corte assegnano tradizionalmente alla procedura fallimentare (cfr., per tutte, Cass., 20 luglio 2007, n. 16158), come anche la norma dell’art. 2913 c.c., che la detta qualificazione viene a mettere in forte risalto. Non v’è ragione, d’altra parte, per limitare la posizione di terzo del curatore fallimentare alla categoria degli atti negoziali traslativi di beni, al fine di escluderne la riferibilità al titolo dell’usucapione.

Il fenomeno propriamente preso in considerazione dalla norma dell’art. 2913 c.c. si concentra in via diretta, infatti, sulla “sottrazione” di un bene dalla responsabilità patrimoniale ex art. 2740 c.c. del debitore (del cui fallimento si discute). Con la conseguenza che – rispetto alla vicenda realizzata dall’usucapione – un differente trattamento rispetto a quello proprio dei negozi traslativi non potrebbe ritenersi giustificato sul piano oggettivo.

15.- Fermato il paradigma della terzietà del curatore, il Tribunale reggino ha poi correttamente escluso che, nella specie, potesse essere utilizzabile l’accordo di mediazione intervenuto, prima del fallimento, tra la società poi fallita e l’attuale ricorrente, rivendicante nell’ambito della procedura fallimentare: constatando in proposito la mancanza di una utile trascrizione (come anteriore alla sentenza dichiarativa, quindi) del detto accordo, seppur concernente un immobile.

In effetti, la norma dell’art. 2643 c.c., comma 12 bis (come introdotta nel sistema dalla L. n. 11 del 2011, di conversione del D.L. n. 70 del 2011) è univoca nel subordinare l’opponibilità ed efficacia nei confronti dei terzi di questo peculiare negozio al fatto della sua avvenuta trascrizione (ove relativo a un bene immobile, naturalmente): tanto nei confronti dei terzi acquirenti, quanto pure nei confronti dei creditori dell’ex proprietario e sottoscrittore dell’accordo (nell’ottica della responsabilità patrimoniale del debitore, detto negozio appare propriamente connotato, in effetti, da contenere una rinuncia dell’ex proprietario a favore del rivendicante).

Sotto detto profilo – è da aggiungere a questo punto – la censura portata dal ricorrente al decreto, di non avere comunque dato alcun peso al pur intervenuto accordo di mediazione (sopra, n. 8, penultimo capoverso) si manifesta affatto infondata. E’ invero convinta acquisizione della giurisprudenza di questa Corte che, nel difetto delle condizioni stabilite dalla legge per l’opponibilità ed efficacia di un negozio rei confronti dei terzi, lo stesso è da considerare tamquam non esset (cfr., in specie, la già citata Cass., n. 1190/2018).

16.- Nella specie concretamente in esame, è risultata incontestata la mancanza di una sentenza di accertamento di compiuta usucapione, come intervenuta tra la s.r.l. Demi Auto, nella veste di assunto rivendicante, e la s.r.l. (omissis), quale precedente proprietario dell’immobile.

Correttamente, perciò, il Tribunale reggino è venuto a sottolineare come – al di là del recente intervento normativo costituito dall’introduzione dell’accordo di mediazione, che dichiari una compiuta usucapione – la sentenza resa ex art. 2651 c.c. non costituisca solo lo strumento che il sistema positivo ha deputato ad accertare – nel confronto tra il rivendicante e l’ultimo proprietario del bene – la sussistenza dei presupposti dell’intervenuto acquisto del bene da parte del primo (con correlata espropriazione a carico dell’altro), ma costituisca anche lo strumento istituzionalmente predisposto per rendere opponibile ed efficace l’acquisto di un bene a titolo di usucapione nei confronti dei soggetti che, rispetto alla detta vicenda, rimangono terzi.

17.- Tuttavia, una volta acquisiti i detti profili – non compiuta trascrizione dell’accordo di mediazione; mancanza di una sentenza accertativa della compiuta usucapione dell’immobile in questione -, il Tribunale reggino avrebbe dovuto ritenere esaurito l’arco dell’indagine che era suo compito espletare, senz’altro respingendo ogni ulteriore richiesta formulata in materia dall’opponente.

Il Tribunale, cioè, non avrebbe potuto consentire – come per contro ha fatto – lo svolgmento di giudizio di accertamento incidentale inteso, nel contesto del procedimento di verifica fallimentare, a riscontrare nella fattispecie concreta l’eventuale esistenza del fatto di usucapione allegato dal rivendicante. Che così ha ammesso, nei fatti, la possibilità (nel concreto, poi non verificatasi) di venire a formare le condizioni di opponibilità ed efficacia di un titolo nei conFronti del fallimento nell’ambito dello stesso giudizio che è propriamente inteso, per contro, a verificare la effettiva sussistenza di tali condizioni.

8. In tal modo operando, pure il decreto reggino è venuto a ritenere che il decreto di esecutività dello stato passivo ex art. 96 L. Fall., ovvero quello emesso in sede di opposizione ex art. 99 L. Fall., siano “equivalenti” – sia pure solo a fini endofallimentari – alla sentenza di accertamento che sia stata emessa ai sensi dell’art. 2651 c.c. In realtà, il sistema vigente consegna il compito di rendere opponibili ed efficaci nei confronti dei terzi i titoli di acquisto della proprietà per usucapione a vicende che si svolgono propriamente tra il rivendicante e il soggetto che si pone come ultimo proprietario del bene: così è per l’accordo di mediazione, del cui negozio sono parti necessarie i detti soggetti; così è per la sentenza emessa ex art. 2651 c.c., in esito a un processo di cui sempre i detti soggetti si manifestano essere le parti necessarie.

Quello della verifica fallimentare, per contro, è un processo che vede come parte necessaria non già colui che è stato dichiarato fallito (cfr., tra le altre, la norma dell’art. 95, comma 4, L. Fall.) – nella specie, assunto nella veste di ultimo proprietario del bene fatto oggetto di rivendica per usucapione quanto invece la massa di creditori di quest’ultimo, come soggettivamente polarizzata nella persona del curatore.

Non è senza rilievo notare, per altro verso, che il procedimento di verifica fallimentare risulta in sè stesso strutturalmente inidoneo ad accogliere un giudizio come quello di accertamento di compiuta usucapione, specie in ragione delle lunghe e complesse indagini di fatto che facilmente possono al riguardo occorrere. Nè, del resto, appare ipotizzabile che nella sede fallimentare – per definizione intesa ad assicurare ai creditori del fallito una tutela di peculiare intensità – questi possano essere protetti in misura minore di quanto venga loro assicurato nella sede del semplice pignoramento dell’immobile (in cui il rivendicante per acquisto a titolo di usucapione non ha, per l’appunto, alternative diverse da quelle dell’intervenuta sentenza di accertamento ex art. 2651 c.c. o dell’accordo di mediazione, che sia state tempestivamente trascritto).

9.- Così respinto il ricorso, le spese seguono la regola della soccombenza e si liquidano in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte respinge il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida nella somma di Euro 5.100,00 (di cui Euro 100,00 per esborsi), oltre a spese forfetarie e accessori di legge.

Dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002art. 13, comma 1 quater della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore imrorto a titolo di contributo unificato parti a quello dovuto per il ricorso, ove dovuto, secondo quanto stabilito dalla norma dell’art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sesta Sezione civile – 1, il 30 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 13 maggio 2021

Allegati

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