Massima

In materia di accertamento tributario relativo a disponibilità patrimoniali detenute all’estero (nella specie, in un fondo costituito nel Principato del Liechtenstein), e in presenza di violazioni che comportano l’obbligo di denuncia per reati tributari ai sensi dell’art. 331 c.p.p. e del D.Lgs. n. 74 del 2000 i termini per l’accertamento sono raddoppiati (ai sensi del D.L. n. 223 del 2006, art. 37, commi 24 e 25) qualora l’obbligo di denuncia penale sussista, indipendentemente dalla sua effettiva presentazione e dall’esito del processo penale.

Supporto alla lettura

ACCERTAMENTO TRIBUTARIO

L’accertamento tributario (o fiscale) è il complesso degli atti della pubblica amministrazione volti ad assicurare l’attuazione delle norme impositive.

L’attività di accertamento delle imposte da parte degli uffici finanziari ha carattere meramente eventuale, essendo prevista nel nostro sistema l’autoliquidazione dei tributi più importanti da parte del contribuente stesso, tramite l’istituto della dichiarazione. Gli uffici intervengono quindi soltanto per rettificare le dichiarazioni risultate irregolari o nel caso di omessa presentazione delle stesse.

A seconda del metodo di accertamento utilizzato, questo può essere:

  • analitico: attraverso l’analisi della documentazione contabile e fiscale;
  • analitico-induttivo: cioè misto, basato su un esame documentale e presunzioni, di norma fondate su elementi gravi, precisi e concordanti, salvo in caso di omessa dichiarazione o di contabilità inattendibile/omessa;
  • induttivo: attraverso l’utilizzo esclusivo di presunzioni che possono essere anche esclusivamente semplici;
  • sintetico: fondato su coefficienti ministeriali.

Ambito oggettivo di applicazione

Svolgimento del processo

Che:

1. La Commissione tributaria regionale del Lazio rigettava l’appello presentato da (omissis) e da (omissis) avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Roma, che aveva rigettato l’appello dei contribuenti contro gli avvisi di accertamento emessi nei loro confronti per l’anno 2001, in quanto risultavano beneficiari delle disponibilità patrimoniali di cui al fondo Bubsy Foundation costituito il 15-9-2000 nel Principato di Liechtenstein. Il (omissis), pur risultando beneficiario di tali disponibilità patrimoniali nel Principato, non aveva dichiarato redditi nel quadro RW della dichiarazione per l’anno di imposta 2001. La posizione globale del portafoglio al 31-12-2001 era di Euro 4.853.743,00 per i coniugi, unici beneficiari della fondazione, quindi per un reddito non dichiarato da fonte estera per Euro 2.426.871,00 ciascuno, in quanto i contribuenti non erano stati in grado di dimostrare l’origine di tale disponibilità, nè gli stessi avevano provveduto al rientro di tali capitali in Italia. Il giudice di appello rilevava che gli accertamenti si riferivano all’anno 2001 e che erano stati emessi tenendo conto del D.P.R. n. 917 del 1986art. 44, comma 1, lett. h), per omessa dichiarazione di redditi tassabili; inoltre, gli avvisi erano stato notificati tempestivamente il 16-122009, per il “raddoppio dei termini” di cui al D.L. n. 223 del 2006art. 37, comma 24, in presenza di violazione comportante obbligo di denuncia penale ai sensi dell’art. 331 c.p.p., restando privo di rilievo l’esito del processo penale.

2. Avverso tale sentenza propongono ricorso per cassazione i contribuenti, depositando anche memoria scritta.

3. L’Agenzia delle entrate si è “costituita” al solo fine dell’eventuale partecipazione all’udienza di discussione.

4. Il Procuratore Generale depositava conclusioni scritte ex art. 380-bis.1 c.p.c., chiedendo il rigetto del ricorso.

Motivi della decisione

Che:

1. Con il primo motivo di impugnazione i contribuenti deducono “in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 1, 3, 4 e 5 per violazione e/o falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., della L. n. 227 del 1990, artt. 4 e 5 (D.L. n. 167 del 1990), del D.P.R. n. 600 del 1973art. 37, comma 3 e del D.P.R. n. 917 del 1986art. 43art. 44, comma 1, lett. h e art. 68, del D.Lgs. n. 461 del 1997art. 7, del D.Lgs. n. 74 del 2000art. 4, del D.L. n. 223 del 2006, art. 37, comma 24 e 26, dell’art. 331 c.p.p., del D.Lgs. n. 74 del 2000art. 1, commi 1 e 2, del D.Lgs. n. 471 del 1997art. 3, comma 3, del D.Lgs. n. 472 del 1997artt. 6712 e 17 – Difetto di giurisdizione. Errore in procedendo e/o iudicando – Omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia”, in quanto il giudice di appello non ha tenuto conto che, in realtà, le disponibilità non si riferivano al 31-12-2001, come erroneamente riportato sugli avvisi di accertamento, in quanto il fondo già al 31-12-2000 aveva le disponibilità contestate. Nè, secondo i ricorrenti l’accertamento può essere “retrodatato” al 2000, per totale carenza di giurisdizione sul punto in capo alla Commissione tributaria. Inoltre, il “raddoppio dei termini” di cui al D.L. n. 223 del 2006art. 37, comma 26, prevede che le nuove disposizioni di cui ai commi 24 e 25, si applichino solo a decorrere dai periodi di imposta per i quali alla data di entrata in vigore del provvedimento siano ancora pendenti i termini di cui al primo ed al D.P.R. n. 600 del 1973art. 32, comma 2. In caso di “incompleta dichiarazione”, quindi, il termine è quello di cui all’art. 32, comma 1, sicchè i quattro anni decorrono dalla dichiarazione per l’anno di imposta 2001, da presentare nel 2002, il cui termine non è scaduto, appunto, nel 2006; anno in cui è scaduto il termine per l’emissione dell’avviso di accertamento per il 2000 (dichiarazione 2001). I fondi, però, preesistevano al 2001. In realtà, sarebbe stato dimostrato che le somme, già detenute dai contribuenti in epoca anteriore al 1997, sono state poi apportate in fondazione con varie disposizioni bancarie ed operazioni di versamento nel corso della seconda metà dell’anno 2000. Tali somme provengono o da versamenti diretti oppure dalla società Rumilla LTD, che è una società interamente detenuta e partecipata dalla fondazione Bubsy; il tutto, peraltro, già presente al 31-12-2000. Il reddito realizzato negli anni precedenti, anche attraverso la società Paltrow Trade and Finance, è poi stato oggetto di conferimento nella fondazione Bubsy. Inoltre, vi è prova delle singole operazioni realizzate dal (omissis) a partire dal 1997 e sino al 31-12-2000, anche attraverso la “propria” società Paltrow Trade and Finance, come risulta dalle dichiarazioni di D.B., v.L.P.. Altre dichiarazioni provengono da (omissis), (omissis), (omissis), (omissis), (omissis), (omissis), (omissis), tutte tese a confermare che le disponibilità del 2001 erano, in realtà, provenienti da “somme già detenute” a decorrere dal 1997, quando il contribuente, peraltro, era residente all’estero nella ex URSS. Peraltro, gli avvisi di accertamento sono motivati solo per relationem.

1.1. Tale motivo è in parte infondato ed in parte inammissibile.

1.2. Invero, ai sensi della L. 4 agosto 1990, n. 227, art. 4 (“conversione in legge, con modificazioni, del D.L. 28 giugno 1990, n. 167, recante rilevazione ai fini fiscali di taluni trasferimenti da e per l’estero di denaro, titoli e valori”; dichiarazione annuale per gli investimenti e le attività), “Le persone fisiche, gli enti non commerciali, e le società semplici ed equiparate ai sensi dell’art. 5 testo unico delle imposte sui redditi, approvato con D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, residenti in Italia che al termine del periodo di imposta detengono investimenti all’estero ovvero attività estere di natura finanziaria, attraverso cui possono essere conseguiti redditi di fonte estera imponibili in Italia, devono indicarli nella dichiarazione dei redditi. Agli effetti dell’applicazione della presente disposizione si considerano di fonte estera i redditi corrisposti da non residenti”.

Inoltre, quanto alla nozione di reddito di capitale, il D.P.R. n. 917 del 1986art. 41, prima della riforma del 2003 (ora D.P.R. n. 917 del 1986art. 44), nella versione all’epoca vigente, non detta una nozione generale di reddito di capitale, ma prevede una serie di ipotesi specifiche, distinte tra proventi che derivano dalla disponibilità di risorse, ed altra tipologia di redditi, con una norma di chiusura al comma 1, lett. h).

In particolare, sono redditi di capitale :a) gli interessi e altri proventi derivanti da mutui, depositi e conti correnti (Cass., sez. 5, 7 ottobre 2015, n. 20035Cass., sez.5, 21 aprile 2010, n. 9469); b) gli interessi e gli altri proventi delle obbligazioni e titoli similari, degli altri titoli diversi dalle azioni e titoli similari, nonchè dei certificati di massa; c) le rendite perpetue; d) i compensi per prestazioni di fideiussione; e)gli utili derivanti dalla partecipazione in società ed enti soggetti all’imposta sul reddito delle persone giuridiche; f) gli utili derivanti da associazione in partecipazione; g) i proventi derivanti dalla gestione, nell’interesse collettivo di pluralità di soggetti, di masse patrimoniali costituite con somme di denaro e beni affidati da terzi o provenienti dai relativi investimenti; g bis) i proventi derivanti da riporti e pronti contro termine su titoli e valute; g-ter) i proventi derivanti dal mutuo di titoli garantito; g-quater) i redditi compresi nei capitali corrisposti in dipendenza di contratti di assicurazione sulla vita e di ricapitalizzazione; g-quinquies) i redditi derivanti dai rendimenti delle prestazioni pensionistiche.

Vi è, poi, la norma di chiusura di cui alla lettera h), citata dalla Commissione regionale in motivazione, per cui sono redditi di capitale anche ” gli interessi e gli altri proventi derivanti da altri rapporti aventi per oggetto l’impiego del capitale, esclusi i rapporti attraverso cui possono essere realizzati differenziali positivi e negativi in dipendenza di un evento incerto”.

1.3. Pertanto la categoria dei redditi di capitale ricomprende al suo interno redditi derivanti da varie forme di impiego del capitale qualificabili come “redditi finanziari”. Tali redditi sono, non solo quelli derivanti da un impiego statico del capitale, quindi di mero godimento dei frutti, ma anche da un impiego dinamico, in attività il cui capitale è utilizzato strumentalmente per il conseguimento del reddito.

Restano esclusi dalla disciplina solo quei proventi che, pur implicando un impiego del capitale, sono caratterizzati dalla incertezza del risultato economico, intesa come possibilità che da detto impiego scaturisca un differenziale negativo o positivo. In tal caso, infatti, si è in presenza di redditi diversi di cui al D.P.R. n. 917 del 1986art. 67, comma 1 (D.P.R. n. 917 del 1986art. 81).

I redditi di capitale, quindi, possono essere suddivisi in due grandi categorie: quelli che hanno ad oggetto un rapporto di finanziamento, derivante da un “impiego del capitale”, che viene dato temporaneamente in godimento a terzi; quelli che hanno ad oggetto un rapporto di partecipazione, derivante da un “capitale conferito” in una società o ente a cui il soggetto conferente partecipa in qualità di socio, possedendone i titoli (azioni e quote o simili).

La norma di chiusura di cui al D.P.R. n. 917 del 1986art. 44, comma 1, lett. h (prima art. 41), per la dottrina, fornisce una sorta di definizione generale di reddito di capitale, che comprende tutti i proventi che derivano da un rapporto di impiego del capitale, quindi anche se non rientranti nell’elencazione disposta dall’art. 44.

Uno dei principi generali in materia di redditi capitale è quello per cui sono tassati in base al principio di cassa, cioè nei periodo d’imposta in cui vengono percepiti, non rilevando il credito semplicemente maturato. Ciò che conta è, dunque, l’importo incassato, con conseguente possibilità per il contribuente, in caso di dividendi, di rinviare la percezione, e quindi la relativa tassazione, a periodi di imposta successivi a quelli di maturazione del diritto. Inoltre, il termine percezione deve essere inteso non già come materiale incasso, ma nel diverso senso di acquisizione definitiva dell’effettiva disponibilità giuridica del diritto. In tal senso, l’acquisizione del diritto, e il presupposto dell’obbligazione tributaria, può avvenire anche attraverso atti di disposizione diversi dal materiale incasso, elemento che può anche mancare. La produzione di nuova ricchezza tassabile non è necessariamente correlata al momento della percezione effettiva del credito, potendo avvenire anche senza il pagamento in danaro, attraverso il compimento di “atti di disposizione del diritto”.

Proprio ciò è accaduto nella specie, in quanto l’Agenzia delle entrate si è limitata a rilevare che nel 2001 le disponibilità del (omissis) sono state conferite nella fondazione Bubsy, di cui erano beneficiari proprio il (omissis) e la moglie (omissis).

Pertanto, sono del tutto irrilevanti ai fini del decidere tutti gli elementi istruttori addotti dai contribuenti. Peraltro, la sentenza della Commissione regionale è stata depositata il 16-10-2012, quindi dopo il D.L. n. 83 del 2012, che ha modificato l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, declinando la censura di motivazione come omesso esame di un fatto decisivo e controverso tra le parti.

Per questa Corte, infatti, l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, riformulato dal D.L. n. 83 del 2012art. 54, conv. in L. n. 134 del 2012, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia); pertanto, l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass., sez. 2, 29 ottobre 2018, n. 27415).

I ricorrenti, invece, hanno dedotto la omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, senza indicare i fatti decisivi che non sarebbero stato esaminati dal giudice di appello. Il motivo relativo al vizio di motivazione è, dunque, inammissibile.

La Commissione regionale, invece, con adeguata motivazione ha affermato che “gli accertamenti in oggetto si riferiscono all”anno di imposta 2001, nè invero, sul punto, la motivazione della sentenza impugnata, facendo riferimento alla disponibilità finanziaria verosimilmente al 31-12-2000, può dare adito a diverse interpretazioni come affermato da parte appellante, e che gli stessi” erano legittimi ai sensi dell’art. 44 TUIR, comma 1, lett. h, per omessa dichiarazione di reddito tassabile”.

1.4. I ricorrenti, poi, censurano la motivazione della sentenza del giudice di appello che non ha rilevato la pretesa omessa motivazione degli avvisi di accertamento, che però non sono riportati neppure nei loro tratti essenziali, sicchè anche sotto questo profilo il ricorso è inammissibile.

Infatti, in base al principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, sancito dall’art. 366 c.p.c., nel giudizio tributario, qualora il ricorrente censuri la sentenza di una commissione tributaria regionale sotto il profilo del vizio di motivazione nel giudizio sulla congruità della motivazione dell’avviso di accertamento, è necessario che il ricorso riporti testualmente i passi della motivazione di detto avviso, che si assumono erroneamente interpretati o pretermessi, al fine di consentire la verifica della censura esclusivamente mediante l’esame del ricorso (Cass., sez. 5, n. 16147/2017).

1.5. Quanto al raddoppio dei termini il D.L. n. 223 del 2006art. 37, comma 24, prevede che al D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600art. 43, dopo il comma 2 è inserito il seguente: “In caso di violazione che comporta obbligo di denuncia ai sensi dell’art. 331 c.p.p. per uno dei reati previsti dal D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, i termini di cui ai commi precedenti sono raddoppiati relativamente al periodo di imposta in cui è stata commessa la violazione.”. Al comma 25 si aggiunge che al D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633art. 57, dopo il comma 2 è inserito il seguente: “In caso di violazione che comporta obbligo di denuncia ai sensi dell’art. 331 c.p.p. per uno dei reati previsti dal D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, i termini di cui ai commi precedenti sono raddoppiati relativamente al periodo di imposta in cui è stata commessa la violazione.” Al comma 26, infine, si prevede che ” Le disposizioni di cui ai commi 24 e 25 si applicano a decorrere dal periodo d’imposta per il quale alla data di entrata in vigore del presente decreto sono ancora pendenti i termini di cui al D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600art. 43, commi 1 e 2 e del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633art. 57 “.

Pertanto, gli avvisi di accertamento dovevano essere notificati entro il 31 dicembre del quarto anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione; poichè questa era stata presentata nel 2002 (in relazione all’anno di imposta 2001), l’avviso di accertamento poteva essere emesso sino al 31 dicembre 2006, quindi il termine per l’adozione dell’avviso era “pendente” alla data di entrata in vigore del decreto L. n. 223 del 2006. Il termine, poi, è stato raddoppiato sicchè l’avviso poteva essere emesso sino al 2009, quindi è corretta la condotta della Agenzia delle entrate, che ha emesso l’avviso di accertamento relativo al 2001 proprio nel 2009.

1.6. Inoltre, il raddoppio dei termini di cui al D.P.R. n. 600 del 1973art. 43, comma 3, e D.P.R. n. 633 del 1972art. 57, comma 3, nei testi applicabili “ratione temporis”, presuppone unicamente l’obbligo di denuncia penale, ai sensi dell’art. 331 c.p.p., per uno dei reati previsti dal D.Lgs. n. 74 del 2000, e non anche la sua effettiva presentazione, come chiarito dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 247 del 2011 (Cass., sez. 5, 28 giugno 2019, n. 17586) sicchè ove il contribuente denunci il superamento dei termini di accertamento da parte dell’Amministrazione finanziaria, deve contestare la carenza dei presupposti dell’obbligo di denuncia, non potendo mettere in discussione la sussistenza del reato il cui accertamento è precluso al giudice tributario (Cass., sez. 5, 2 luglio 2020, n. 13481).

Va anche osservato che i termini previsti dal D.P.R. n. 600 del 1973art. 43 per l’IRPEF e dal D.P.R. n. 633 del 1972art. 57 per l’IVA, come modificati dal D.L. n. 223 del 2006art. 37, conv., con modif., in L. n. 248 del 2006, sono raddoppiati in presenza di seri indizi di reato che facciano insorgere l’obbligo di presentazione di denuncia penale, anche se archiviata o tardiva, senza che, con riguardo agli avvisi di accertamento già notificati, relativi a periodi d’imposta precedenti a quello in corso alla data del 31 dicembre 2016, incidano le modifiche introdotte dalla L. n. 208 del 2015art. 1, commi da 130 a 132, attesa la disposizione transitoria, ivi introdotta, che richiama l’applicazione del D.Lgs. n. 128 del 2015art. 2, nella parte in cui fa salvi gli effetti degli avvisi di accertamento, dei provvedimenti che irrogano sanzioni e degli inviti a comparire D.Lgs. n. 218 del 1997, ex art. 5 già notificati, dimostrando un “favor” del legislatore per il raddoppio dei termini se non incidente su diritti fondamentali del contribuente, quale il diritto di difesa, in ossequio ai principi costituzionali di cui agli artt. 53 e 112 Cost. (Cass., sez. 65, 19 dicembre 2019, n. 33793).

1.7. Invero, non può ritenersi applicabile al rapporto tributario oggetto del presente giudizio la normativa successiva di cui al D.Lgs. n. 208 del 2015, art. 1, comma 130, 131 e 132 (c.d. legge di Stabilità 21016) che, dopo avere introdotto significative modifiche alla precedente disciplina in materia di termini per l’accertamento, ha, da un lato, espressamente disposto che tali modifiche si applicano agli avvisi relativi al periodo di imposta in corso alla data del 31 dicembre 2016 e ai periodi successivi; dall’altro, la medesima disposizione di cui al citato D.Lgs., art. 1, comma 132, ha previsto, solo per gli avvisi di accertamento che devono ancora essere notificati, l’operatività, a pena di decadenza, del termine ordinario di quattro anni dalla presentazione della dichiarazione ovvero, in caso di omessa presentazione di dichiarazione o di dichiarazione nulla, di cinque anni da quello in cui la dichiarazione avrebbe dovuto esser presentata, consentendo espressamente il raddoppio di tali termini in caso di violazione che comporta l’obbligo di denuncia ai sensi dell’art. 331 c.p.p. per alcuno dei reati previsti dal D.Lgs. 10 marzo 2000 n. 74, purchè la relativa denuncia da parte dell’Amministrazione Finanziaria, in cui è ricompresa la Guardia di Finanza, sia presentata o trasmessa entro la scadenza dei termini ordinari di accertamento di cui sopra (Cass., sez. 6-5, 19 dicembre 2019, n. 33793).

La normativa sopra indicata non ha tuttavia modificato il regime transitorio introdotto dal D.Lgs. 3 agosto 2015, n. 128, art. 2, comma 3 che ha espressamente previsto che “sono comunque fatti salvi gli effetti degli avvisi di accertamento dei provvedimenti che irrogano sanzioni amministrative tributarie e degli altri atti impugnabili con i quali l’Agenzia delle Entrate fa valere una pretesa impositiva o sanzionatoria, notificati alla data di entrata in vigore del presente decreto” (e cioè il 2.9.2015 certamente successiva alla data di notifica dell’avviso di accertamento oggetto del presente giudizio), con la conseguenza che, nel caso di specie, non può trovare applicazione la nuova disciplina introdotta con il citato D.Lgs. n. 208 del 2015 ribadita solo per gli avvisi di accertamento “ancora da notificare” relativi ai periodi imposta precedenti a quelli in corso alla data del 31.12.2016 – che consente il raddoppio dei termini ordinari per gli accertamenti scaturenti da violazioni importanti obbligo di denuncia penale per reato tributario solo nel caso in cui tale denuncia sia presentata o trasmessa entro la scadenza del termine ordinario di accertamento (Cass., sez. 6-5, 19 dicembre 2019, n. 33793).

Pertanto, in relazione ad avvisi di accertamento notificati prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 128 del 2015 (come, nel caso di specie, in cui l’avviso di accertamento risulta notificato ben prima del 2015) si applica il testo previgente del D.P.R. n. 600 del 1973art. 43, comma 3 e del D.P.R. n. 633 del 1972art. 57, comma 3, con conseguente operatività del raddoppio dei termini in presenza di violazioni tali da far insorgere l’obbligo di denuncia per reato tributario, a prescindere dall’effettiva presentazione di tale presentazione.

2. Con il secondo motivo di impugnazione i ricorrenti deducono “in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5, per violazione e/o falsa applicazione degli artt. 112 c.p.c., del D.P.R. n. 600 del 1973art. 43 e del D.L. n. 223 del 2006art. 37, comma 24 e 26, dell’art. 331 c.p.p. e del D.Lgs. n. 74 del 2000 – Error in iudicando – Omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia”, in quanto la disposizione di cui al D.P.R. n. 600 del 1973art. 43, comma 3, che prevede il “raddoppio dei termini” non può comportare una “riapertura” di termini ormai scaduti; sicchè deve essere interpretata in modo costituzionalmente orientato, nel senso che non sarebbe applicabile ai periodi per i quali non v’è più il potere di controllo o per i quali il controllo non è stato tempestivamente attivato. Si tratterebbe altrimenti di una vera e propria riapertura di termini, dopo che sono scaduti. Sarebbero, dunque, raddoppiati i termini per notificare gli accertamenti, ma non quelli per utilizzare i poteri istruttori; prima della scadenza dei termini il Fisco avrebbe dovuto avviare la verifica e doveva risultare inoltrata la denunzia in sede penale. La segnalazione della Direzione Centrale Accertamento risalirebbe al 2008, quindi ben oltre la scadenza dei termini per l’accertamento.

2.1. Tale motivo è infondato.

Invero, per la Corte costituzionale (Corte Cost., 25 luglio 2011, n. 247) i termini raddoppiati di accertamento non costituiscono una proroga di quelli ordinari, ma sono anch’essi termini fissati direttamente dalla legge, operanti automaticamente in presenza di una speciale condizione obiettiva, cioè ove sussista l’obbligo di denuncia penale per i reati tributari, senza che all’amministrazione finanziaria sia riservato alcuna margine di discrezionalità per la loro applicazione. I termini raddoppiati/ quindi, non si innestano su quelli brevi, in base ad una scelta discrezionale degli uffici tributari, ma operano autonomamente allorchè sussistano elementi obiettivi tali da rendere obbligatoria la denuncia penale per i reati previsti dal D.Lgs. n. 74 del 2000. Non può dunque farsi riferimento alla riapertura o alla proroga di termini scaduti, nè alla reviviscenza di poteri di accertamento ormai esauriti, poichè i termini brevi e quelli raddoppiati si riferiscono a fattispecie ab origine diverse, che non interferiscono tra loro ed alle quali si connettono i diversi termini di accertamento. Pertanto, mentre i termini brevi di cui al D.P.R. n. 633 del 1972art. 57, commi 1 e 2, operano in presenza di violazioni tributarie per le quali non sorge l’obbligo di denuncia penale di reati, i termini raddoppiati di cui allo stesso art. 57, comma 3, operano, invece, in presenza di violazioni tributarie per le quali vi è l’obbligo di denuncia.

Inoltre, il D.L. n. 223 del 2006art. 37, comma 26, non prevede una riapertura di termini di accertamento già scaduti, ma risolve solo una questione di successione di leggi nel tempo, senza dettare una disciplina sostanziale. La norma prevede che “le disposizioni di cui è commi …. 25 si applicano a decorrere dal periodo d’imposta per il quale alla data di entrata in vigore del presente decreto sono ancora pendenti i termini di cui al primo e comma 2 (…)del D.P.R. n. 633 del 1972art. 57“. In tal modo, dunque, non viene retroattivamente riaperto un termine già scaduto, ma viene solo escluso che il raddoppio dei termini si applica le violazioni tributarie per le quali, alla data di entrata in vigore del decreto (4 luglio 2006), fosse già decorso il termine di accertamento previsto dalla normativa anteriore.

Resta inammissibile la censura sulla motivazione basata sulla omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, in quanto articolata senza tenere conto della modifica dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, in base al D.L. n. 83 del 2012, in vigore per le sentenze pubblicate a decorrere dall’11-9-2012.

3. Con il terzo motivo di impugnazione i ricorrenti deducono “in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma l, nn. 3, 4 e 5, per violazione e/o falsa applicazione degli artt. 112 c.p.c., dell’art. 191 c.p.p., della direttiva n. 77/799 CEE, del D.P.R. n. 600 del 1973artt. 31-bis32 e ss., della L. n. 212 del 2000art. 7 e delle Convenzioni bilaterali Italia-Liechtenstein in tema di scambio di informazioni a carattere fiscale – Errore in procedendo e/o iudicando – Omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia anche in riferimento alla Circolare dell’Agenzia delle entrate del 18-4-2002, n. 33“, in quanto è principio pacifico quello per cui l’autorità amministrativa può reperire prove in uno Stato estero solo ricorrendo all’ausilio dei competenti organi di tale Stato estero, utilizzando lo strumento delle rogatorie internazionali. Le informazioni ottenute fuori da tali canali istituzionali non sarebbero utilizzabili. L’avviso di accertamento, in quanto basato su documentazione bancaria proveniente dal Liechtenstein, sarebbe illegittimo, anche per violazione del segreto bancario. Non si potrebbe derogare la segreto bancario per una mera violazione fiscale. Vi sarebbe, poi, il principio di inutilizzabilità delle prove di cui all’art. 191 c.p.p. Il D.P.R. n. 600 del 1973art. 32, comma 7-bis è stato introdotto dal D.L. n. 78 del 2009art. 15, comma 8-quinquies, convertito in L. n. 102 del 2009, quindi successivamente all’acquisizione dei dati avvenuta nel 2008. L’acquisizione di documenti, poi, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973art. 31-bis, può avvenire solo direttamente presso l’autorità fiscale dello Stato straniero e non a mezzo di istituto bancario o di terzo soggetto. Tali dati, poi, pare siano stati forniti da “un individuo non meglio identificato” che ha segnalato una lista di fondi bancari, presenti nel Liechtenstein, all’autorità australiana, con successivo passaggio della lista alla Agenzia delle entrate.

3.1. Tale motivo è infondato.

3.2. Sul punto, deve evidenziarsi che il diritto interno, sia in materia di imposte dirette (D.P.R. n. 600 del 1973art. 39, comma 2 e art. 41 comma 2), sia in tema di imposta sul valore aggiunto (D.P.R. n. 633 del 1972art. 54 e 55) consente che gli accertamenti fiscali si svolgano con l’utilizzo di elementi comunque acquisiti, e quindi con prove atipiche o con dati acquisiti con forme diverse de quelle regolamentata (D.P.R. n. 600 del 1973artt. 32 e 22D.P.R. n. 633 del 1972art. 51). Peraltro, non è necessario che gli indizi siano plurimi, in quanto anche un unico indizio, se dotato dei requisiti della gravità e della precisione, può fondare una legittima ripresa a tassazione (Cass., sez. 5, 5 dicembre 2019, n. 31779, con riferimento alle uniche risultanze rappresentante dalla lista Falciani; Cass., sez. 5, 12 febbraio 2018, n. 3276).

3.3. Va, poi, confermato l’indirizzo giurisprudenziale consolidato per cui, in materia tributaria, gli elementi raccolti a carico del contribuente dai militari della Guardia di Finanza senza il rispetto delle formalità di garanzia difensiva prescritte per il procedimento penale sono inutilizzabili in tale sede ai sensi dell’art. 191 c.p.p., ma sono pienamente utilizzabili nel procedimento di accertamento fiscale, stante l’autonomia del procedimento penale rispetto a quello di accertamento tributario, secondo un principio, oltre che sancito dalle norme sui reati tributari (D.L. n. 429 del 1982art. 12, successivamente confermato dal D.Lgs. n. 74 del 2000art. 20), desumibile anche dalle disposizioni generali dettate dagli artt. 2 e 654 c.p.p. ed espressamente previsto dall’art. 220 disp. att. c.p.p., che impone l’obbligo del rispetto delle disposizioni del codice di procedura penale quando, nel corso di attività ispettive, emergano indizi di reato ma soltanto ai fini dell’applicazione della legge penale (Cass., sez. 6, 28 maggio 2018, n. 13353Cass., sez. 5, 24 novembre 2017, n. 28060); non devono essere violate, però, le disposizioni del D.P.R. n. 600 del 1973artt. 33 e 52 e D.P.R. n. 633 del 1972art. 63 (Cass., sez. 5, 17 gennaio 2018, n. 959).

3.4. Infatti, non qualsiasi irritualità nell’acquisizione di elementi rilevanti ai fini dell’accertamento comporta, di per sè, l’inutilizzabilità degli stessi, in mancanza di una specifica previsione in tal senso, esclusi i casi in cui viene in discussione la tutela di diritti fondamentali di rango costituzionale, come l’inviolabilità della libertà personale o del domicilio (Cass., sez. 5, 16 dicembre 2011, n. 27149).

3.5. Tra l’altro, il D.P.R. n. 600 del 1973art. 70 prevede che “per quanto non è diversamente disposto dal presente decreto si applicano, in materia di accertamento delle violazioni e di sanzioni, le norme del codice penale e del codice di procedura penale”.

Il Il D.P.R. n. 600 del 1973art. 31-bis, dispone, poi, che “l’amministrazione finanziaria provvede allo scambio, con le altre autorità competenti degli Stati membri dell’Unione Europea, delle informazioni necessarie per assicurare il corretto accertamento delle imposte di qualsiasi tipo riscosse da o per conto dell’Amministrazione finanziaria e delle ripartizioni territoriali”, con l’aggiunta al comma 5 che “non è considerata violazione del segreto d’ufficio la comunicazione da parte dell’Amministrazione finanziaria alle autorità competenti degli altri stati membri delle informazioni atte a permettere il corretto accertamento delle imposte sul reddito e sul patrimonio”.

Pertanto, il principio di generale inutilizzabilità degli elementi di prova irritualmente acquisiti, sancito dall’art. 191 c.p.p., costituisce regola propria del procedimento penale e non è immediatamente trasferibile in ambito tributario, neppure utilizzando il richiamo contenuto nel D.P.R. n. 600 del 1973art. 70, stante la natura sussidiaria e residuale di tale disposizione, che legittima il ricorso alle norme del codice penale di rito nel solo caso in cui l’accertamento della violazione tributaria non trovi una specifica disciplina delle disposizioni del Tuir (Cass., sez. 5, 14 novembre 2019, n. 29632Cass., sez. 5, 17 gennaio 2018, n. 959); tale ipotesi però deve essere esclusa nella fattispecie in esame in cui l’esercizio dei poteri istruttori ai fini fiscali è compiutamente disciplinato dal D.P.R. n. 600 del 1973art. 32 e ss. e dall’art. 31-bis, con riferimento agli scambi di informazioni tra la messa sulle finanziaria italiana e le autorità competenti degli altri paesi dell’unione Europea, senza possibilità di ravvisare spazi residuali di ricorso alle norme del procedimento penale.

3.6. In relazione alla lista Falciani si è affermato che, è legittima l’utilizzazione di qualsiasi elemento con valore indiziario, anche acquisito in modo irrituale, ad eccezione di quelli la cui inutilizzabilità discende da specifica previsione di legge e salvi i casi in cui venga in considerazione la tutela di diritti fondamentali di rango costituzionale. Ne consegue che sono utilizzabili ai fini della pretesa fiscale, nel contraddittorio con il contribuente, i dati bancari trasmessi dall’autorità finanziaria francese a quella italiana, ai sensi della Direttiva 77/799/CEE del 19 dicembre 1977, senza onere di preventiva verifica da parte dell’autorità destinataria, sebbene acquisiti con modalità illecite ed in violazione del diritto alla riservatezza bancaria (Cass.., 19 dicembre 2019, n. 33893Cass., sez. 6-5, 28 aprile 2015, n. 8605Cass., sez. 6-5, 8606/2015; Cass., 65-, 17183/2015; Cass. 6-5, 16950/2015; per la lista Vaduz cfr. Cass., sez. 5, 19 agosto 2015, n. 16950; per la lista Pessina vedi Cass., sez. 5, 26 agosto 2015, n. 17183); peraltro, il giudice può fondare il proprio convincimento anche su una sola presunzione semplice purchè grave e precisa (per la lista Falciani cfr. Cass., sez. 5, 12 febbraio 2018, n. 3276).

3.7. Pertanto, deve rilevarsi che gli elementi istruttori frutto di rogatorie internazionali ben possono essere utilizzati ai fini della emissione degli avvisi di accertamento, non risultando violati in alcun modo diritti fondamentali presidiati dalla Costituzione, come la libertà personale e l’inviolabilità del domicilio, e non sussistendo una ipotesi di generale inutilizzabilità, come accade invece per il processo penale ai sensi dell’art. 191 c.p.p. 3.8. Peraltro, la Direttiva del Consiglio 77/799/CEE prevede al sesto considerando che “gli Stati membri devono scambiarsi reciprocamente, su richiesta, informazioni per quanto riguarda un caso preciso e che lo Stato cui viene rivolta la richiesta deve provvedere a effettuare le ricerche necessarie per ottenere tali informazioni”.

L’art. 1 della Direttiva poi dispone che “le competenti autorità degli Stati membri scambiano, conformemente alla presente direttiva, ogni informazione atta a permettere loro una corretta determinazione delle imposte sul reddito e sul patrimonio”.

L’art. 4 della Direttiva precisa (scambio spontaneo) che “Le autorità competenti di ogni Stato membro comunicano, senza che ne sia fatta preventiva richiesta, le informazioni di cui all’art. 1, paragrafo 1, in loro possesso, all’autorità competente di ogni altro Stato membro interessato, quando: a) l’autorità competente di uno Stato membro ha fondati motivi di presumere che esista una riduzione od un esonero di imposta anormali nell’altro Stato membro”.

4. Non si provvede sulle spese del giudizio di legittimità in assenza di attività difensiva da parte della Agenzia delle entrate.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 26 marzo 2020.

Depositato in Cancelleria il 29 gennaio 2021

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