FATTI DI CAUSA
1.BANCA (omissis) Spa notificò alla Direzione regionale Lombardia dell’Agenzia delle entrate la scrittura privata del 9 gennaio 2015 con la quale aveva acquistato da (omissis) Spa, in amministrazione controllata, crediti fiscali IRPEG per i periodi di imposta 1994 e 1995 chiesti a rimborso dalla cedente con modelli 760.
A seguito di istanza di sollecito da parte della Banca, l’Amministrazione finanziaria, con nota del 18 luglio 2016, richiese la documentazione relativa al rimborso. La richiesta rimase inevasa.
A fronte della mancata erogazione del rimborso la Banca propose ricorso innanzi alla Commissione tributaria provinciale di Milano avverso il silenzio rifiuto serbato dall’Amministrazione finanziaria.
La C.T.P. accolse il ricorso condannando l’Amministrazione finanziaria al pagamento dell’intera somma chiesta a rimborso.
La decisione, appellata dall’Agenzia delle entrate, venne integralmente confermata dalla Commissione Tributaria regionale della Lombardia, con la sentenza indicata in epigrafe.
In particolare e in estrema sintesi, il Giudice di appello riteneva che il credito di imposta, esposto in dichiarazione, imponesse all’Amministrazione finanziaria, ai sensi dell’art. 42-bis del D.P.R. n. 602 del 1973, di eseguire il rimborso entro l’anno solare successivo alla data di scadenza del termine di presentazione della dichiarazione dei redditi, con la conseguenza che, nel caso in esame, il rimborso era dovuto, avendo l’Ufficio avanzato richiesta di documentazione solamente in data 18 luglio 2016.
Avverso la sentenza l’Agenzia delle entrate ha proposto ricorso, articolato su unico motivo.
BANCA IFIS Spa ha resistito con controricorso.
In prossimità della pubblica udienza il P.M., nella persona del sostituto procuratore generale Alessandro Pepe, ha depositato memoria concludendo per l’accoglimento del ricorso.
Ha depositato memoria pure l’Agenzia delle entrate.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con l’unico motivo di ricorso- rubricato: violazione e falsa applicazione dell’art. 36-bis D.P.R. n.600 del 1973, dell’art.42 bis D.P.R. n.602/1973 nonché dell’art.2697 c.c. in relazione all’art. 360, comma 1, n.3 c.p.c.– l’Agenzia delle entrate censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto che gravasse sull’Ufficio l’obbligo di istruire a tempo debito, i rimborsi richiesti nelle dichiarazioni presentate nel 1995 e nel 1996, laddove, per converso, la richiesta della documentazione all’appellata è avvenuta solamente il 18 luglio 2016. Tale argomentazione, secondo la prospettazione difensiva, si poneva in aperto contrasto con i principi di diritto sanciti dalle Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza n.5069/2016 confermata da decisioni successive.
In particolare, l’assunto della C.T.R. -secondo cui era dovuto il rimborso del credito IRPEG richiesto dalla Società, sulla mancata contestazione dello stesso da parte dell’Amministrazione finanziaria nel termine fissato dall’art. 36-bis del D.P.R. n.600 del 1973 per la liquidazione della dichiarazione- si poneva in diritto contrasto con la corretta interpretazione, anche alla luce del diritto vivente consolidatosi sul punto, delle norme indicate in rubrica. Secondo la ricorrente la sentenza impugnata risultava, inoltre, erronea anche in relazione al riparto dell’onere della prova atteso che non considerava che il contribuente che si attiva per ottenere il riconoscimento del credito riveste il ruolo di attore sia in senso formale che sostanziale.
Nel caso di specie, infatti, la cessionaria non aveva prodotto, né all’Amministrazione né in giudizio la certificazione delle ritenute d’acconto esposte nelle dichiarazioni dei redditi relative agli anni 1994 e 1995 comprovanti l’asserito credito.
1.1. In controricorso la Banca, nel ribadire la correttezza della sentenza impugnata in quanto fondata su un’interpretazione costituzionalmente orientata delle norme di sistema, ha sollevato questione di legittimità della soluzione accolta dalla sentenza n.5069/2016 delle Sezioni Unite per violazione degli artt.3, 23, 53 e 97 della Costituzione.
1.2. Il ricorso è fondato non potendosi condividere gli assunti sui quali la C.T.R. ha fondato il suo convincimento.
La decisione si pone, infatti, in aperto contrasto con la giurisprudenza delle Sezioni Unite, secondo cui “In tema di rimborso d’imposte, l’Amministrazione finanziaria può contestare il credito esposto dal contribuente nella dichiarazione dei redditi anche qualora siano scaduti i termini per l’esercizio del suo potere di accertamento, senza che abbia adottato alcun provvedimento, atteso che tali termini decadenziali operano limitatamente al riscontro dei suoi crediti e non dei suoi debiti, in applicazione del principio quae temporalia ad agendum, perpetua ad excepiendum” (Cass,. Sez. U., 15.03.2016 n.5069).
La C.T.R. non si allinea a tale soluzione puntando sul fatto che, nel caso deciso dalle Sezioni Unite, si trattava di esenzione dalla ritenuta d’acconto sui dividendi da partecipazione azionarie, per cui occorreva “presidiare l’osservanza del divieto di aiuti di Stato” e, inoltre, si discuteva di un rimborso “disomogeneo”, riguardante “un’esenzione fiscale” e non “un credito portato in una dichiarazione fiscale periodico” (così la CTR).
1.3 Tali argomentazioni non colgono nel segno. L’enunciazione delle Sezioni Unite è, infatti, di carattere generale: “l’Amministrazione finanziaria non è soggetta a termini di decadenza nel decidere le domande di rimborso, atteso che i “termini decadenziali operano limitatamente al riscontro dei suoi crediti e non dei suoi debiti, in applicazione del principio “quae temporalia ad agendum, perpetua ad excepiendum“.
La successiva giurisprudenza di legittimità si è conformata a tale principio (v., tra le altre, Cass. 17/06/2016, n.12557; Cass. 31/01/2018, n. 2392; Cass. 06/02/2019, n. 3404; Cass. 13/03/2019, n. 7132; Cass. 30/10/2019, n. 27841) ribadito anche da Cass., Sez. U., 29/07/2021, n. 21766, con la precisazione che ciò non vale ove il credito sia scaturito dalla sottostima dell’imposta dovuta che, in realtà, era maggiore e che è stata evasa (fattispecie estranea al caso in esame).
Per tale ultima decisione, che ha peraltro esteso il principio anche all’IVA, non è sufficiente ai fini del rimborso del credito che esso sia esposto in dichiarazione; nè l’inerzia può equivalere al riconoscimento implicito del credito, per l’assenza di fatti impeditivi o preclusivi del rimborso, in ragione di un obbligo dell’amministrazione di attivarsi, derivante anche dalla combinazione dei commi 2 e 5 dell’art. 6 dello Statuto dei diritti del contribuente.
Al contrario, il legislatore prende sì in considerazione l’inerzia, ma assegna ad essa il significato di rifiuto tacito, in quanto tale impugnabile: l’art. 21, comma 2, D.Lgs. n. 31/12/1992, n. 546 ammette il ricorso contro il silenzio rifiuto opposto dall’amministrazione a qualsiasi richiesta di rimborso; e il silenzio rifiuto funge da anello di congiunzione tra la procedimentalizzazione del diritto al rimborso e la sua tutela in sede giudiziale.
L’omesso esercizio del potere di controllo non determina, quindi, alcun effetto accertativo del credito vantato, che può derivare soltanto dalla positiva verifica di rispondenza alla realtà di quanto dichiarato, evidenziando, altresì le Sezioni Unite che il credito di cui si discute, anche non dovuto, divenga incontrovertibile soltanto perché è indicato in una dichiarazione non più assoggettabile al potere di accertamento o verifica, striderebbe con la matrice costituzionale dell’azione impositiva, presidiata dai precetti della riserva di legge (art. 23 Cost.), del principio di capacità contributiva (art. 53 Cost.), e anche dell’imparzialità dell’azione amministrativa (art. 97 Cost).
Successivi plurimi interventi hanno, poi, ulteriormente precisato che lo svolgimento senza rilievi del controllo automatizzato ex art. 36-bis del D.P.R. n. 600 del 1973 (del resto, finalizzato esclusivamente a ridurre i crediti di imposta esposti in misura superiore a quella prevista dalla legge ovvero non spettanti sulla base dei dati risultanti dalla dichiarazione) non equivale a riconoscimento implicito del credito esposto in dichiarazione, potendo questo essere contestato anche dopo la scadenza dei termini per l’accertamento (Cass. 13/03/2019, n. 7132; Cass. 18/02/2022, n. 5446; Cass. 19/10/2022, n. 30804).
Peraltro, va pure ricordato, come evidenziato dal P.G., che l’altra norma richiamata dalla C.T.R. a sostegno della tesi della decadenza, ossia l’art. 36 bis, comma 1, del D.P.R. n. 602/73 (secondo cui: “Avvalendosi di procedure automatizzate, l’amministrazione finanziaria procede, entro l’inizio del periodo di presentazione delle dichiarazioni relative all’anno successivo, alla liquidazione delle imposte, dei contributi e dei premi dovuti, nonchè dei rimborsi spettanti in base alle dichiarazioni presentate dai contribuenti”), è stata oggetto di un esplicito intervento legislativo ad opera dell’art. 28 della legge n. 449/97, esplicitamente definito come “Norma interpretativa,” che ha chiarito che “Il primo comma dell’articolo 36-bis del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, nel testo da applicare sino alla data stabilita nell’articolo 16 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, deve essere interpretato nel senso che il termine in esso indicato, avendo carattere ordinatorio, non è stabilito a pena di decadenza”.
Ne consegue l’inesistenza della decadenza predicata dalla C.T.R.
1.4 Non risultano, poi, fondati i dubbi di costituzionalità paventati dalla controricorrente dal momento che le ragioni a fondamento dell’orientamento delle Sezioni Unite di codesta Corte n. 5069/16 cit., ai cui principi hanno sostanzialmente dato continuità Cass. S.U. nn. 21765/21 e 21766/21 cit., si innestano sull’applicazione di criteri generali disciplinanti la materia tributaria, primo tra tutti quello dell’onere della prova.
Non si tratta, dunque, di trattare diversamente le operazioni a debito e quelle a credito, bensì di applicare le medesime regole di giudizio a situazioni differenti per cui è inevitabile che la declinazione risulti modulata in senso divergente, laddove si intenda contestare la sussistenza del diritto al rimborso.
Ai fini della ripartizione dell’onere probatorio, infatti, incombe sul contribuente che agisca in giudizio per il riconoscimento del proprio credito d’imposta dimostrare, in qualità di attore in senso sostanziale, i fatti costitutivi del diritto di credito.
Così, di recente, Cass. n. 8651/2022 secondo cui “in tema di contenzioso tributario, ove la controversia abbia ad oggetto l’impugnazione del rigetto dell’istanza di rimborso di un tributo avanzata dal contribuente, quest’ultimo riveste la qualità di attore in senso non solo formale – come nei giudizi di impugnazione di un atto impositivo – ma anche sostanziale, con la duplice conseguenza che grava su di lui l’onere di allegare e di provare i fatti ai quali la legge ricollega il trattamento impositivo rivendicato nella domanda e che le argomentazioni con le quali l’Ufficio nega la sussistenza di detti fatti, o la qualificazione ad essi attribuita dal contribuente, costituiscono mere difese, come tali non soggette ad alcuna preclusione processuale, salvo la formazione del giudicato interno o – dove in concreto ne ricorrono i presupposti l’applicazione del principio di non contestazione”.
Sennonché, la dimostrazione dei fatti costitutivi del credito d’imposta non è affatto integrata da un mero richiamo alla dichiarazione fiscale dell’anno d’imposta in cui sarebbe sorto l’asserito credito o alla dichiarazione fiscale dell’anno d’imposta in cui il credito è stato domandato a rimborso, essendo necessario addurre gli elementi costituitivi del meccanismo fisiologico di applicazione del tributo.
Giova sul punto richiamare i principi di cui a Cass. n. 13906/2022, secondo cui “incombe sul contribuente, il quale invochi il riconoscimento di un credito d’imposta, l’onere di provare i fatti costitutivi dell’esistenza del credito e, a tal fine, non È sufficiente l’esposizione della pretesa nella dichiarazione, poiché’ il credito fiscale non nasce da questa, ma dal meccanismo fisiologico di applicazione del tributo (Cass. n. 27580 del 2018; Cass. n. 18427 del 2012; Cass. 18427 del 2012)”.
D’altro canto, il consolidamento di un credito IRPEG inesistente indicato in dichiarazione per il mero decorso del termine decadenziale previsto per l’esercizio dell’azione accertatrice si porrebbe in contrasto con i principi costituzionali dell’azione impositiva (artt. 23 e 53 Cost.), attesa la natura meramente dichiarativa e non costitutiva della dichiarazione la quale non ha capacità di divenire definitiva, per quanto non rettificata dall’Ufficio, poiché unica fonte del rapporto tributario è la legge mentre la dichiarazione ha “solo” rilevanza procedurale.
2. Alla luce delle considerazioni che precedono il ricorso va, quindi, accolto, con cassazione della sentenza impugnata, che si è discostata da tutti i principi sopra esposti, e rinvio al Giudice del merito il quale provvederà al riesame, adeguandosi, e al regolamento delle spese di questo giudizio.
La Corte
P.Q.M.
in accoglimento del ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Lombardia, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche in ordine alle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione tributaria, il 10 settembre 2025.
Depositato in Cancelleria il 19 settembre 2025.
