Svolgimento del processo
1.1. La (omissis) di (omissis) & C. s.n.c., rappresentata e difesa come in atti, ricorre contro il Ministero delle Finanze, in persona del Ministro “pro tempore”, rappresentato e difeso “ex lege” dalla Avvocatura Generale dello Stato, per la cassazione della sentenza specificata in epigrafe, con la quale la Commissione Tributaria Regionale di Venezia ha confermato la sentenza di primo grado di rigetto del ricorso della società.
1.2. In fatto, la controversia ha ad oggetto due avvisi di rettifica delle dichiarazioni IVA relative agli anni 1991 e 1992, notificati alla società a seguito di controlli fiscali disposti nell’ambito di indagini di polizia giudiziaria a carica del dr. Adriano Berton, legale rappresentante della società ricorrente. In particolare, a seguito di accesso domiciliare, regolarmente autorizzato, militari della guardia di finanza hanno acquisito copiosa documentazione extracontabile, relativa alla società, sulla base della quale iniziavano una verifica fiscale nei confronti della stessa, conclusasi con processo verbale di constatazione del 24 luglio 1992.
Alla società sono state contestate le seguenti violazioni:
a) per l’anno 1991, omesso versamento IVA per errata applicazione di aliquota su due fatture, per dichiarazione infedele e per indebita detrazione di imposta, e presentazione della dichiarazione con dati inesatti;
b) per l’anno 1992, omessa autofatturazione, dichiarazione infedele e contenente dati inesatti.
La odierna ricorrente ha impugnato entrambi gli avvisi di accertamento eccependo
a) la illegittima utilizzazione degli elementi acquisiti in sede penale, sotto vari profili;
b) il difetto di motivazione degli avvisi di rettifica e violazione delle regole sull’onere della prova;
c) la violazione dell’art. 52, commi 3 e 6, del D.P.R. n. 633 del 1972, riferita alla redazione del p.v.c. e alla apertura di due borse contenenti la documentazione sequestrata, senza preventiva autorizzazione;
d) la infondatezza, nel merito, dei rilievi contestati;
e) la indebita applicazione delle sanzioni a carico dell’amministratore della società.
Riuniti i ricorsi, entrambi le commissioni di merito li hanno respinti.
1.3. A sostegno del ricorso, la società deduce sette mezzi, variamente articolati.
1.4. Il Ministero resiste con controricorso. La società ha depositato memoria difensiva ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
Motivi della decisione
2.1. Il ricorso appare privo di fondamento.
2.2. La società ricorrente lamenta la illegittimità della attività istruttoria svolta dalla guardia di finanza, sia rispetto alle norme del codice di procedura penale che rispetto alle regole dell’accertamento; conseguentemente lamenta la illegittima utilizzazione fiscale degli elementi acquisiti irritualmente. La censura è prospettata anche sotto il profilo del vizio di motivazione.
Sul punto vi è congrua motivazione dei giudici di appello, i quali ricordano il principio di autonomia delle regole dell’accertamento tributario rispetto alle regole che disciplinano le indagini ed il giudizio di responsabilità penale. Come è noto, “gli elementi di conoscenza raccolti secondo le regole che vincolano l’esercizio dei poteri di polizia giudiziaria ben possono essere impiegati ai fini dell’accertamento tributario se non ne derivi pregiudizio alle esigenze interne al processo penale (onde la necessità della previa autorizzazione dell’autorità giudiziaria che di quegli elementi di prova abbia la disponibilità funzionale), senza alcuna limitazione che derivi dalla mancata coincidenza tra la persona indagata (“l’imputato”) e contribuente o dalla natura non tributaria dell’illecito perseguito. Le garanzie intrinseche alle regole della attività di polizia giudiziaria e del processo penale non consentono cioè alcuna limitazione di questo tipo e non c’è ragione di negare ad una qualificata fonte di conoscenza la idoneità a fondare l’accertamento tributario” (Cass., Sez. I civ., 27 dicembre-28 aprile 1999, n. 14585). Pertanto, correttamente i giudici di appello hanno rilevato che se, come nella specie, la “G. di F. nel corso di una perquisizione di carattere penale rinviene documentazione utilizzabile nel procedimento tributario, la validità della acquisizione di tale documentazione, in quanto utilizzata nel l’accertamento tributario, va giudicata sulla base della norme disciplinanti i modi di tale accertamento e non di quelle che disciplinano il procedimento penale. Non può, dunque, trarsi argomento dal mancato rispetto delle norme di procedura penale riguardanti l’intervento del difensore nel corso della perquisizione per sostenere la nullità dell’accertamento tributario perché tale intervento non è previsto dagli artt. 52 e segg. del D.P.R. n. 633 del 1972, che disciplinano le modalità dell’accesso nei luoghi di abitazione da parte della Polizia Tributaria: l’autonomia dei due procedimenti consente l’esistenza di una situazione per cui una nullità afferente un atto del procedimento penale non ha rilievo nel procedimento tributario” (della sentenza impugnata).
2.2. La ricorrente insiste nel riproporre le eccezioni e deduce
a) che la documentazione trovata in possesso dell’amministratore della società è stata comunque acquisita senza la preventiva autorizzazione prevista dall’art. 52, comma 2, del D.P.R. n. 633 del 1972, che, tra l’altro, richiede la sussistenza di gravi indizi di violazione della normativa fiscale;
b) che la documentazione è stata rinvenuta in armadi e borse chiusi, senza che venisse prodotta la specifica autorizzazione alla apertura degli stessi, prevista dal comma 3 del medesimo art. 52.
Entrambi i rilievi appaiono non condivisibili. In linea di principio, dalla lettura dell’art. 54, commi 2 e 3, e dell’art. 63, comma 1, del D.P.R. n. 633 del 1972, si ricavano le seguenti regole di carattere generale:
a) il controllo della completezza, esattezza e veridicità delle registrazioni può e deve essere effettuato sulla scorta di qualsiasi documento e scrittura rilevante ai fini della contabilità (art. 54, comma 2);
b) l’ufficio può comunque utilizzare, ai fini dell’accertamento, gli “atti e documenti in suo possesso” (art. 54, comma 4);
c) la guardia di finanza, fatta salva l’autorizzazione dell’autorità giudiziaria competente utilizza e trasmette agli uffici documenti, dati e notizie acquisiti, direttamente ed ottenuti dalle altre Forze di polizia, nell’esercizio dei poteri di polizia giudiziaria” (art. 63, comma 1).
Gli organi di controllo, dunque, possono utilizzare tutti i documenti dei quali siano venuti in possesso, salvo la verifica della attendibilità, in considerazione dalla natura e del contenuto dei documenti stessi, e dei limiti di utilizzabilità derivanti da eventuali preclusioni di carattere specifico. La violazione delle regole del l’accertamento tributario non comporta come conseguenza necessaria la inutilizzabilità degli elementi acquisiti. Si pensi al caso in cui, nel corso di una verifica fiscale, vengano acquisiti elementi determinanti ai fini del l’accertamento, soltanto il 31º (o 61º) giorno lavorativo dall’inizio della verifica stessa, in violazione del precetto di cui all’art. 12, comma 5, della legge 27 luglio 2000, n. 212. Non esiste, cioè, nell’ordinamento tributario un principio generale di inutilizzabilità delle prove illegittimamente acquisite. Tale principio è stato introdotto nel “nuovo” codice di procedura penale, e vale, ovviamente, soltanto all’interno di tale specifico sistema procedurale (si veda l’art. 191 c.p.p.). L’acquisizione irrituale di elementi rilevanti ai fini dell’accertamento fiscale non comporta la inutilizzabilità degli stessi, in mancanza di una specifica previsione in tal senso.
Il fatto che talune violazioni non comportano la sanzione specifica della inutilizzabilità degli elementi irritualmente acquisiti, non significa che la violazione sia priva di conseguenze e che, quindi, la norma sia “tamquam non esset”. In casi del genere, infatti, le conseguenze sanzionatorie ricadono direttamente sull’autore dell’illecito, sul piano disciplinare e, se del caso, sul piano della responsabilità civile e penale. Non sarebbe giusto che una prova oggettivamente ammissibile, non possa essere utilizzata a causa della negligenza di chi l’ha acquisita. Questo ne dovrà rispondere nelle sedi competenti, mentre la prova non subisce gli effetti della illegittimità, come conseguenza necessaria della eventuale illiceità della acquisizione. Si tratta di due diversi profili (uno soggettivo e l’altro oggettivo) che non vanno confusi.
In punto di fatto, i giudici di appello hanno precisato che “gli atti processuali attestano che la Procura della Repubblica concesse l’autorizzazione di cui all’art. 63 del D.P.R. n. 633 del 1972 per l’utilizzo in sede di accertamento tributario della documentazione acquisita in sede di Polizia giudiziaria. È vero che la (omissis) di (omissis) effettuò l’accesso presso la sede della società prima di avere ottenuto l’autorizzazione, ma tale accesso rientrava nei poteri dell’organo che l’ha effettuato indipendentemente dal fatto che fosse stata rilasciata la suddetta autorizzazione” (della sentenza impugnata).
Sulla base di tali considerazioni restano assorbiti tutti gli altri rilievi intesi a dimostrare la inutilizzabilità della documentazione acquisita in sede penale. Anche con riferimento alla pretesa violazione dell’art. 52, comma 3, del D.P.R. n. 633 del 1972, relativamente alla apertura di armadi e borse contenenti la documentazione acquisita. Infatti, le prescrizioni del citato art. 52, operano nell’ambito degli accessi fiscali e non riguardano le indagini penali che si sviluppano a seguito di una “notitia criminis”. D’altra parte, una volta che la documentazione sia stata acquisita, la stessa, in forza dell’art. 63, comma 1, può essere utilizzata a prescindere dal rispetto delle disposizioni dell’art. 52.
Infatti, l’art. 63, comma 1, del D.P.R. n. 633 del 1972, prevede due distinte ipotesi di collaborazione della guardia di finanza con gli uffici tributari.
La prima parte della norma attribuisce alla guardia di finanza gli stessi poteri istruttori degli uffici, da esercitare nel rispetto delle stesse regole (“La Guardia di finanza coopera con gli uffici dell’imposta sul valore aggiunto per l’acquisizione e il reperimento degli elementi utili ai fini dell’accertamento dell’imposta e per la repressione delle violazioni del presente decreto, procedendo di propria iniziativa o su richiesta degli uffici, secondo le norme e con le facoltà di cui agli artt. 51 e 52, alle operazioni ivi indicate e trasmettendo agli uffici stessi i relativi verbali e rapporti”). La seconda parte, invece, prevede una sorta di collaborazione “esterna”, “aggiuntiva”, della guardia di finanza, la quale può “riciclare” in sede fiscale, incondizionatamente, gli elementi acquisiti con procedure estranee a quelle dell’accertamento tributario (“Essa [Guardia di finanza] inoltre previa autorizzazione dell’autorità giudiziaria … utilizza e trasmette agli uffici documenti, dati e notizie acquisiti, direttamente o riferiti ed ottenuti da altre Forze di polizia, nell’esercizio dei poteri di polizia giudiziaria).
2.3. Anche la censura relativa alla pretesa nullità dell’avviso di accertamento come conseguenza della illegittimità delle acquisizioni effettuate dalla Guardia di finanza (2º motivo di censura), è superato dalle considerazioni già svolte.
2.4. Sulle questioni di merito, la sentenza impugnata appare puntualmente motivata.
In relazione alla indebita detrazione di imposta relativa ad una fattura per prestazioni fornite ad una società che non è quella ricorrente, la Consulfin lamenta vizi di motivazione e violazione di legge (motivo n. 3)
Osserva il Collegio
a) che la circostanza di fatto è pacifica
b) che i giudici di appello hanno evidenziato, seguendo la pronuncia di primo grado, che eventuali collegamenti tra la società ricorrente e la società fruitrice della prestazione fatturata è irrilevante;
c) che in presenza di tale situazione di fatto la prova della inerenza della prestazione doveva essere fornita dalla società ricorrente;
d) che il motivo di ricorso non indica quale sarebbe la prova in tal senso offerta, eventualmente ignorata dai giudici di appello.
La censura relativa alla omessa autofatturazione dell’acquisto di un immobile (motivo n. 4) che erroneamente sarebbe stata imputata all’anno 1992 invece che all’anno 1991 è infondata perché i trattandosi di cessione realizzata con rogito notarile del 4 novembre 1991, il termine (di quattro mesi più 30 giorni per autofatturare, previsto dall’art. 41, comma 6, lett. a), del D.P.R. n. 633 del 1972) scadeva il 3 aprile 1992 e, quindi, in tale data si è perfezionata la omissione.
Con il quinto motivo la società eccepisce che il giudice “a quo” avrebbe omesso di esaminare gli elementi in base ai quali risultava evidente che talune operazioni ritenute imponibili, in realtà erano inesistenti, in quanto simulate. Tuttavia, la stessa società ricorrente non indica specificamente quali sarebbero gli elementi ignorati dalla Commissione Regionale. È noto che “il ricorrente per Cassazione il quale deduca l’omessa o insufficiente motivazione della sentenza impugnata in relazione alla valutazione di una decisiva risultanza processuale ha l’onere di indicare in modo adeguato e specifico la risultanza medesima, dato che per il principio dell’autosufficienza del ricorso per Cassazione il controllo deve essere consentito alla Corte sulla base delle sole deduzioni contenute nell’atto, alle cui lacune non è possibile sopperire con indagini integrative” (Cass., n. 4754/1999, n. 5945/1999, n. 802/1999).
Con il sesto motivo, la società lamenta la carenza di motivazione e di valutazione della documentazione prodotta, intesa a dimostrare che correttamente aveva applicato l’aliquota agevolata del 4% su due vendite di immobili. Sul punto la Commissione Regionale ha così, esaurientemente, motivato: “nell’appello si ripropone l’argomento che verte sul diritto del contribuente ad usufruire di un’aliquota agevolata in relazione a due vendite di immobili, argomento che il giudice di primo grado aveva rigettato così motivando ‘la parte ricorrente ha solo affermatola (*) effettuazione di rilevanti lavori di ristrutturazione sul solo fabbricato ceduto in via Oberdan in Padova, cui sarebbe conseguito il diritto all’applicazione della aliquota agevolata, producendo poi, in uno con il ricorso, fatture per lavori eseguiti sullo stesso fabbricato per importi esigui e comunque per opere di scarso valore, tali da non potersi considerare finalizzate alla generale ristrutturazione del fabbricato … Malgrado una esplicita riserva di ulteriore produzione in merito, null’altro ha prodotto la parte ricorrente … per lavori asseritamente eseguiti nell’altro immobile ceduto’. Nulla viene detto nell’appello per dimostrare l’infondatezza del giudizio espresso” (della sentenza impugnata). Non resta da aggiungere che nemmeno il ricorso appare corredato di considerazioni che possano inficiare gli argomenti utilizzati dai giudici di merito.
Con l’ultimo motivo la società ricorrente lamenta che erroneamente l’amministratore sarebbe stato chiamato a rispondere delle sanzioni comminate alla società in forza dell’art. 12 della legge 7 gennaio 1929, n. 4, ritenendolo erroneamente obbligato solidale. Anche questa censura è totalmente infondata. Nella motivazione della sentenza impugnata non si fa alcun riferimento al vincolo di solidarietà di cui all’art. 12 citato. Si precisa, invece, correttamente che nella specie, trattandosi di società in nome collettivo, la responsabilità dell’operato della società ricade direttamente in capo al socio amministratore.
2.5. Con la memoria depositata ai sensi dell’art. 378 c.p.c., la società invoca, in materia di sanzioni lo “jus superveniens”. Come è noto, “in tema di sanzioni tributarie, l’art. 29, comma 1, lett. a), del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 427, ha abrogato l’art. 20 della legge 7 gennaio 1929, n. 4, recante il c.d. principio di ultrattività delle disposizioni sanzionatorie, e contemporaneamente l’art. 3 del medesimo D.Lgs. ha introdotto il principio del “favor rei”, disponendo che nessuno può essere assoggettato a sanzioni per un fatto che secondo una legge posteriore non costituisce violazione punibile (comma 2) e che, se la legge in vigore al momento in cui è stata commessa la violazione e le leggi posteriori stabiliscono sanzioni di entità diverse, si applica la legge più favorevole [al contribuente] . Tale principio, in forza delle disposizioni transitorie contenute nell’art. 25 del citato D.Lgs. si applica anche ai procedimenti in corso alla data del primo aprile 1998, il che per i procedimenti pendenti presso la Corte di Cassazione, impone la cassazione della sentenza impugnata nella parte relativa alla applicazione delle sanzioni, con rinvio al giudice “a quo” per la determinazione della stessa in base alla nuova disciplina sanzionatoria” (Cass. Civ., 1945/20019).(*)
Nella specie, non è esclusa la possibilità di applicare disposizioni di principio che possono attenuare la pena complessiva (si veda l’art. 12 del D.Lgs. n. 472 del 1997) e, comunque, i giudici di merito dovranno valutare se, anche con riferimento alle singole fattispecie di illecito contestate, non vi sia la possibilità di applicare un trattamento sanzionatorio meno gravoso, alla stregua delle disposizioni contenute nel D.Lgs. n. 471 del 1997.
2.6. Conseguentemente, applicando lo “jus superveniens”, la sentenza impugnata deve essere cassata, con rinvio al giudice “a quo”, che provvederà anche per le spese.
P.Q.M.
La Corte rigetta i motivi del ricorso e applicando lo “jus superveniens”, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, ad altra sezione della Commissione Tributaria Regionale del Veneto.
Così deciso in Roma il 10 aprile 2001.
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IN DATA 19 GIUGNO 2001.
(*) n.d.r. così nel testo.
