RILEVATO CHE
La parte contribuente impugnava un avviso di accertamento relativo all’anno d’imposta 2002 per Irpef in relazione alla presunta distribuzione di utili non dichiarati provenienti dalla partecipazione alla società TEC Srl, di cui era socio unico.
La Commissione tributaria provinciale di Cuneo accoglieva il ricorso della parte contribuente escludendo l’applicabilità della proroga biennale degli ordinari termini accertativi di cui all’art. 10 della legge 27 dicembre 2002, n. 289.
La C.t.p. riteneva, inoltre, che l’avviso fosse illegittimo per il difetto di motivazione, in quanto l’atto impositivo notificato alla società non poteva ritenersi conoscibile da parte del socio, che non rivestiva alcuna carica amministrativa ed era residente all’estero.
La Commissione tributaria regionale del Piemonte, a sua volta, accoglieva l’appello dell’ufficio, limitatamente al recupero dell’imposta dovuta facendo applicazione dell’aliquota prevista per i soggetti residenti all’estero, affermando che sarebbe stato onere del socio conoscere gli atti notificati alla società, salva la prova di fatti impeditivi di tale conoscenza, quali l’aver adottato comportamenti per acquisirla che tuttavia siano risultati vani, oppure aver intrapreso iniziative volte a far valere la responsabilità dei gestori della società.
Rilevava la C.t.r. che il contribuente, pur sostenendo di non aver partecipato alla gestione societaria, di cui era amministratore unico il padre, aveva di fatto rinunziato a tutelarsi in sede civile.
Dunque, secondo i Giudici di Appello, il contribuente non aveva dato prova dell’interposizione fittizia, presa in considerazione dall’art. 37, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, ai fini dell’imputazione dei redditi all’effettivo possessore (che nella specie, secondo l’assunto di parte ricorrente, era l’amministratore unico).
Avverso la decisione dei Giudici di Appello, parte contribuente propone ricorso affidato ad otto motivi, cui resiste con controricorso l’Agenzia delle entrate, che spiega ricorso incidentale, affidato a due motivi.
Il ricorso è stato fissato per la Camera di Consiglio del 22 maggio 2024, ai sensi degli artt. 375, ultimo comma, e 380-bis. 1 cod. proc. civ., il primo come modificato ed il secondo introdotto dal D.L. 31.08.2016, n. 168, conv. dalla legge 25 ottobre 2016, n. 197.
In prossimità dell’udienza, parte contribuente ha depositato memoria.
CONSIDERATO CHE
1.1. Con il primo motivo, il ricorrente denunzia la nullità della sentenza per la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., per avere la C.t.r. omesso di pronunciarsi sull’eccezione relativa all’avvenuta decadenza dal potere accertativo, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.
Secondo il ricorrente, anche a voler considerare il più lungo termine decadenziale di cui all’art. 43, comma 2, D.P.R. n. 600/1973 previsto nel caso di omessa dichiarazione, la notifica dell’avviso di accertamento per maggiori redditi dell’anno 2002 sarebbe dovuta avvenire entro il 31 dicembre 2008, mentre l’avviso di accertamento era stato notificato in data 21 maggio 2009.
Ritiene parte ricorrente che alla fattispecie in esame fosse inapplicabile la proroga biennale prevista dall’art. 10 legge 27 dicembre 2002, n. 289, in quanto l’annualità 2002 non era tra quelle condonabili, né rientrava nella previsione dell’art. 2, comma 44, lett. f) della legge 24 dicembre 2003, n. 350.
1.2. Con il secondo motivo, il ricorrente denunzia la violazione dell’art. 43, comma 2, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, e dell’art. 10 legge 27 dicembre 2002, n. 289, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.
Secondo il ricorrente la C.t.r. sarebbe incorsa nella denunziata violazione di legge, in quanto la proroga biennale di cui all’art. 10 L. n. 289/2002 non era applicabile alle annualità non condonabili (nella specie il 2002) ed il successivo art. 2 L. n. 350/2003, nell’estendere la facoltà di accesso al condono all’anno 2002, subordinava tale possibilità alla presentazione entro il 31 ottobre 2003 della relativa dichiarazione.
1.3. Con il terzo motivo, il ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione dell’art. 42, comma 2, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, e dell’art 7, comma 1, Legge 27 luglio 2000, n. 212, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., per aver la Commissione ritenuto l’accertamento legittimamente motivato pur in assenza dei requisiti a tale fine imperativamente richiesti, a tutela del diritto di difesa del contribuente, dalle norme indicate.
1.4. Con il quarto motivo, il ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione dell’art. 42 D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, degli artt. 2697 e 2729 cod. civ. nonché dell’art. 53 Cost., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., nella parte in cui la C.t.r. ha ritenuto applicabile sic et simpliciter la presunzione di distribuzione degli utili extracontabili delle società a ristretta base sociale, pur in assenza di ulteriori elementi idonei a supportare tale presunzione.
1.5. Con il quinto motivo, il ricorrente denunzia l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., per aver la Commissione ignorato le significative risultanze dell’analisi condotta dal ricorrente sui conti bancari della società TEC Srl, da cui si potevano agevolmente desumere gli elementi sufficienti ad escludere l’applicazione, nel caso sub iudice, della citata presunzione.
1.6. Con il sesto motivo, il ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione dell’art. 37, comma 3, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, e dell’art. 53 Cost., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., per aver la C.t.r. disconosciuto l’interposizione fittizia del ricorrente nel possesso della partecipazione nella società TEC Srl, con ciò pretendendo di assoggettare ad imposizione in capo al medesimo maggiori redditi il cui effettivo possesso, fiscalmente rilevante, era invero riconducibile ad altri.
1.7. Con il settimo motivo, il ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1, comma 4, e 43, comma 2, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, 1, comma 1, D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, nonché 14, comma 1, D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., nella parte in cui il ricorrente è stato ritenuto inottemperante all’obbligo di presentazione della dichiarazione dei redditi – pur in presenza di una specifica fattispecie di esonero, espressamente disciplinata dalla legge, applicabile al caso de quo – con conseguente assoggettamento ai relativi effetti sanzionatori di legge.
1.8. Con l’ottavo motivo il ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione dell’art. 35 D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., per avere la C.t.r. riconosciuto la responsabilità del ricorrente per il versamento delle imposte sui supposti maggiori redditi di partecipazione, ex se assoggettabili ad imposizione sostitutiva, pur in assenza della preventiva iscrizione a ruolo del sostituto di imposta.
1.9. Con il primo motivo di ricorso incidentale, l’Agenzia delle entrate denunzia la nullità della sentenza, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., per aver omesso la pronuncia sulla legittimità delle sanzioni irrogate per la mancata dichiarazione del contribuente, limitandosi a statuire sul recupero dell’imposta.
1.10. Con il secondo motivo di ricorso incidentale, l’Agenzia delle entrate, in via subordinata, denunzia la violazione dell’art. 1 D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., per non avere la C.t.r. ritenuto di confermare la legittimità della sanzione, irrogata per l’omessa dichiarazione dei maggiori redditi accertati dall’ufficio, pur avendo ritenuto che il contribuente non avesse fornito idonea prova contraria in ordine ad essi.
2.1. Il primo ed il secondo motivo del ricorso principale, da esaminare congiuntamente perché connessi, sono infondati.
Costituisce un principio giurisprudenziale, reiteratamente affermato, ad esempio da Cass. n. 3782/ 2016, richiamata da Cass. n. 33775/2019, quello secondo cui “in tema di condono fiscale, la proroga biennale dei termini di accertamento, accordata agli uffici finanziari dalla L. 27 dicembre 2002, n. 289, art. 10, opera, “in assenza di deroghe contenute nella legge”, sia nel caso in cui il contribuente non abbia inteso avvalersi delle disposizioni di favore di cui alla suddetta legge, pur avendovi astrattamente diritto, sia nel caso in cui non abbia potuto farlo, perché raggiunto da un avviso di accertamento notificatogli prima dell’entrata in vigore della legge: da un lato, non potendo desumersi argomenti in contrario dalla generica locuzione normativa “i contribuenti che non si avvalgono”, venendo in ogni caso ad essere circoscritta l’iniziativa volontaria del contribuente di avvalersi della dichiarazione integrativa nell’ambito dei limiti legali previsti per il suo esercizio, dovendo quindi ricomprendersi nella indicata espressione anche la ipotesi in cui la legge non consenta di avvalersi di detta integrazione ai fini del condono (cfr. Corte Cass. 5 Sez. 23.7.2010 n. 17395); dall’altro apparendo incompatibile con il principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.) la diversa interpretazione secondo cui la norma riserverebbe – illogicamente – un trattamento differenziato ai contribuenti che non hanno inteso avvalersi del condono rispetto a quelli (che risulterebbero così avvantaggiati dal più breve termine di decadenza per l’accertamento) nei cui confronti difettano gli stessi presupposti di legge per esercitare la facoltà di integrazione della dichiarazione e fruire del condono (cfr Cass. n. 14018/2012; n. 22921 del 2014)” (conformi, Cass. n. 16964/2016, Cass. n. 3816/2018).
Nella specie, traslando i principi sopra riportati, deve ribadirsi l’irrilevanza, ai fini della proroga, della distinzione tra chi poteva e non poteva avvalersi del condono, dovendosi avere riguardo solo alla condonabilità in relazione all’annualità in contestazione (anno di imposta 2002) ed alla circostanza che il contribuente non si sia avvalso del condono (anche nel caso in cui non potesse avvalersi del condono, non avendo presentato entro il 31 ottobre 2003 la dichiarazione).
2.2. Il terzo motivo è infondato.
Come questa Corte ha avuto modo di chiarire, “in materia di accertamento tributario di un maggior reddito nei confronti di una società di capitali, organizzata nella forma della società a responsabilità limitata ed avente ristretta base partecipativa, e di accertamento conseguenziale nei confronti dei soci, l’obbligo di motivazione degli atti impositivi notificati ai soci è soddisfatto anche mediante rinvio per relationem alla motivazione dell’avviso di accertamento riguardante i maggiori redditi percepiti dalla società, ancorché solo a quest’ultima notificato, giacché il socio, ex art. 2476 c.c., ha il potere di consultare la documentazione relativa alla società e, quindi, di prendere visione dell’accertamento presupposto e dei suoi documenti giustificativi” (Cass. n. 21126/2020; principio affermato anche per le società di persone, con riferimento all’art. 2261 cod. civ., ex aliis da Cass. n. 25296/2014, n. 14275/2018, n. 30069/2018).
In tema di accertamento nei confronti del socio di società a ristretta partecipazione sociale, si è ulteriormente precisato che il socio può far valere la nullità dell’avviso di accertamento a lui indirizzato, qualora quest’ultimo manchi dell’allegazione della documentazione citata o della riproduzione dei suoi contenuti essenziali e sia motivato unicamente con il richiamo all’atto impositivo notificato alla società in un momento successivo al recesso del socio dalla compagine sociale.
Ciò in quanto verrebbe meno il requisito essenziale della conoscibilità dell’atto notificato alla società, situazione che non si verifica nella fattispecie in esame, in cui il contribuente era socio, con partecipazione totalitaria, della società TEC Srl, di cui il padre era amministratore unico.
2.3. Il quarto ed il quinto motivo, da esaminare congiuntamente perché connessi, sono fondati e vanno accolti nei sensi che la motivazione che segue chiarirà, con conseguente assorbimento del sesto motivo.
Preliminarmente, deve rilevarsi che “in materia di Giudizio Tributario, il nuovo comma 5-bis dell’art. 7 del D.Lgs. n. 546 del 1992, introdotto dall’art. 6 della L. n. 130 del 2022, secondo cui il giudice deve valutare la prova “comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale”, non si pone in contrasto con la persistente applicabilità delle presunzioni legali che, nella normativa tributaria sostanziale, impongano al contribuente l’onere della prova contraria” (Cass. n. 2746/2024).
Nessun dubbio, dunque, che l’introduzione della nuova normativa non abbia escluso l’applicabilità delle presunzioni legali previste in materia tributaria, che comportano in una serie di ipotesi l’onere per il contribuente di fornire la prova contraria (si pensi ai casi di accertamento sintetico oppure alla presunzione legale relativa di imponibilità delle operazioni risultanti dalle movimentazioni bancarie).
In relazione alle ipotesi in cui non vi è una presunzione legale relativa (alcuni autori hanno parlato di presunzioni di “creazione giurisprudenziale”), come quella oggetto di esame, questa Corte, già nell’immediatezza dell’entrata in vigore della norma, ha affermato che “in tema di onere probatorio gravante in giudizio sull’amministrazione finanziaria in ordine alle violazioni contestate al contribuente, per le quali non vi siano presunzioni legali che comportino l’inversione dell’onere probatorio, l’art. 7, comma 5-bis, del D.Lgs. n. 546 del 1992, introdotto dall’art. 6 della L. n. 130 del 2022, non stabilisce un onere probatorio diverso, o più gravoso, rispetto ai principi già vigenti in materia, ma è coerente con le ulteriori modifiche legislative in tema di prova, che assegnano all’istruttoria dibattimentale un ruolo centrale” (Cass. n. 31878/2022).
Come questa Corte ha chiarito con le decisioni citate, la norma in oggetto non ha fatto altro che ribadire un principio già presente nell’ordinamento tributario, ossia che l’amministrazione finanziaria deve provare il fondamento delle proprie pretese, confermando in modo espresso una regola già esistente.
La nuova disposizione non pone limiti di sorta al modo attraverso cui tale prova deve essere fornita (né si ravvisano ulteriori limitazioni nell’art. 17 della legge n. 111 del 2023, cd. “legge delega”, e nella successiva disciplina attuativa), per cui senz’altro deve ritenersi consentito il ricorso alle presunzioni semplici, ossia agli indizi che, se gravi, precisi e concordanti, integrano ex artt.2727 e 2729 cod. civ. la prova richiesta dall’art. 2697 cod. civ.
La prova presuntiva è disciplinata dal codice civile, nel più ampio titolo II del Libro VI, con disposizioni non limitate al processo, ma di carattere sostanziale, come evidenziato da questa Corte in tema di presunzione di evasione sancita dall’art. 12, comma 2, del D.L. n. 78 del 2009, conv., con modif., dalla L. n. 102 del 2009, con riferimento all’omessa dichiarazione di investimenti e attività di natura finanziaria negli Stati o territori a regime fiscale privilegiato.
In quel caso, infatti, si è affermato che la presunzione legale non è suscettibile di applicazione retroattiva agli anni di imposta antecedenti alla sua entrata in vigore (prevista dal 1 luglio 2009), stante la natura sostanziale e non procedimentale delle presunzioni.
Tuttavia non si è mancato di precisare che l’ufficio può ricorrere ai medesimi fatti oggetto della suddetta presunzione legale (redditi non dichiarati occultamente detenuti in Paesi a fiscalità privilegiata) sub specie di presunzione semplice (nella specie, il giudice di merito aveva correttamente affermato l’utilizzabilità in astratto della c.d. “lista B.B.” come elemento indiziario idoneo a integrare presunzione semplice, sebbene ne avesse escluso il valore probatorio sulla base degli ulteriori elementi di fatto acquisiti; cfr. Cass. n. 33893/2019; conf. Cass. n. 2990/2024).
Con analogo ragionamento, qualora si ritenesse che la nuova norma dell’art. 7, comma 5-bis, D.Lgs. n. 546/1992 abbia escluso il ricorso alle presunzioni semplici, saremmo in presenza di una disposizione modificativa del regime probatorio previgente, con la conseguenza che essa potrebbe valere solo per i giudizi successivi alla sua entrata in vigore, ossia il 16 settembre 2022, operando invero la regola generale dell’art. 11 delle preleggi, in difetto di norme transitorie (ciò in quanto l’art. 6 della legge 130/22, che ha appunto introdotto il comma 5-bis, non rientra tra le norme per le quali l’art. 8 della medesima legge detta disposizioni transitorie rispetto ai processi).
Pertanto, ove ritenuta modificativa del precedente regime probatorio, la novella non potrebbe avere applicazione retroattiva nel caso in esame.
Può, dunque, enunciarsi il seguente principio di diritto: “in tema di distribuzione degli utili extracontabili ai soci di società a ristretta base partecipativa, le regole sul riparto dell’onere della prova non risultano mutate per effetto della nuova norma introdotta dall’art. 6 della legge n. 130/22, ovvero il comma 5-bis dell’art. 7 D.Lgs. n. 546/92, che non comporta alcuna inversione della normale ripartizione dell’onere probatorio, né preclude il ricorso alle presunzioni semplici, disciplinate dagli artt.2727 e ss. cod. civ., con norme di carattere sostanziale, la cui modifica potrebbe, comunque, valere solo per i giudizi instaurati successivamente alla sua entrata in vigore, ossia il 16 settembre 2022, operando la regola generale dell’art. 11 delle preleggi, in difetto di norme transitorie”.
Di conseguenza, nel caso in esame, in cui si controverte della distribuzione degli utili ai soci di società a ristretta base partecipativa, trattandosi di presunzione semplice (alcuni autori hanno parlato di presunzione di “creazione giurisprudenziale”), disciplinata dagli artt. 2727 e ss. cod. civ., resta invariato il procedimento logico che, attraverso il ragionamento inferenziale, consente al giudice del merito di risalire da un fatto noto a un fatto ignorato, ragionamento sul quale è ammesso il sindacato di legittimità in ordine alla corretta applicazione della disciplina codicistica.
Nell’individuare i limiti a tale sindacato, la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto ricorra la violazione delle norme citate nel caso in cui il giudice di merito abbia affermato che il ragionamento presuntivo può basarsi su presunzioni non gravi, precise e concordanti ovvero abbia fondato la presunzione su un fatto storico privo di gravità o precisione o concordanza ai fini dell’inferenza dal fatto noto della conseguenza ignota (ex multis, Cass. 9054/2022).
In tema di società a ristretta base partecipativa, costituisce un principio giurisprudenziale consolidato quello secondo cui la ristrettezza dell’assetto societario fa presumere la distribuzione degli utili extracontabili, implicando normalmente reciproco controllo e marcata solidarietà tra i soci (così Cass. n. 25271/2014, Cass. n. 15824/2016, Cass. n. 1947/2019).
Come più volte precisato da questa Corte, il fatto noto non è dato dalla sussistenza di maggiori redditi accertati induttivamente nei confronti della società, bensì dalla ristrettezza dell’assetto societario, con la conseguenza che, una volta ritenuta operante detta presunzione, spetta poi al contribuente fornire la prova contraria (Cass. n. 1947/2019).
Tale presunzione non comporta alcuna inversione del normale regime dell’onere probatorio, ma costituisce applicazione dei criteri generali in ordine alla sua ripartizione.
Invero, ove il giudice ritenga che l’amministrazione finanziaria abbia dimostrato la pretesa tributaria sulla base di presunzioni semplici, fondate su elementi indiziari gravi, precisi e concordanti (nella specie, la ristrettezza della base sociale), sarà il contribuente a dover fornire idonea prova contraria, anche presuntiva, atta a contrastare la prova avversaria.
In un primo tempo, questa Corte ha individuato il contenuto della prova contraria a carico dei soci nella dimostrazione che i maggiori ricavi dell’ente sono stati accantonati o reinvestiti (ex plurimis, Cass. n. 18032/2013, Cass. n. 24534/2017, Cass. n. 29412/2017, Cass. n. 32959/2018).
Successivamente, si è riconosciuta la possibilità per il socio di vincere la presunzione di distribuzione degli utili extra-bilancio, dando la dimostrazione della propria estraneità alla gestione e conduzione societaria (ex plurimis, Cass. n. 7170/2022, Cass. n. 24870/2021, Cass. n. 27445/2020, Cass. n. 17461/2017, Cass. n. 1932/2016, Cass. n. 26873/2016).
Nel caso in esame, trattandosi di società a ristretta base partecipativa con socio unico, i Giudici di Appello hanno ritenuto che fosse giustificato il ricorso alla presunzione di distribuzione degli utili extracontabili, sulla base di una normale modalità di valutazione, in applicazione dei principi generali, degli elementi presuntivi esistenti.
In particolare, la C.t.r. ha ritenuto che fosse fondata la presunzione della distribuzione al socio unico degli utili societari non contabilizzati, concludendo nel senso che il contribuente non avesse fornito una prova contraria adeguata.
Tuttavia, il contribuente non contesta il conseguimento di utili extrabilancio da parte della società, ma sostiene che tali utili non sono stati distribuiti in suo favore, in quanto, pur rivestendo la qualità di socio unico, è sempre rimasto estraneo alla gestione sociale, affidata interamente al padre, che rivestiva la carica di amministratore unico ed era anche l’unico socio effettivo.
A tal proposito, il ricorrente ritiene che nella specie sia configurabile un’ipotesi riconducibile all’interposizione fittizia di persona, in quanto solo il padre era interessato alla società e la gestiva nel proprio esclusivo interesse, percependo tutti gli utili.
Il ricorrente sottolinea di essere residente negli Stati Uniti, di non aver pagato nulla al precedente socio per l’acquisizione della partecipazione sociale totalitaria, di essere venuto solo pochissime volte in Italia e di non aver mai avuto notizie della gestione societaria, di cui si disinteressava completamente.
A riprova del proprio assunto, il ricorrente deduce di aver prodotto una dichiarazione sostitutiva di atto notorio del padre, datata 23 ottobre 2009, che affermava l’estraneità del figlio alla gestione societaria, nonché i conti correnti societari, dai quali non risultavano operazioni in favore del socio unico, mentre erano presenti versamenti, per operazioni prive di qualsiasi inerenza con l’attività sociale, in favore dei conti personali dell’amministratore o dei conti di società nelle quali quest’ultimo aveva la partecipazione di maggioranza.
La C.t.r., nella sentenza impugnata, ha completamente omesso l’esame degli elementi istruttori forniti dal contribuente, limitandosi a rilevare apoditticamente che quest’ultimo non aveva fornito adeguata prova contraria né assunto iniziative per affermare la responsabilità civile dell’amministratore.
Il Giudice di Appello avrebbe dovuto verificare se il contribuente avesse provato la sua totale estraneità alla gestione sociale o la sottrazione degli utili da parte dell’amministratore, non risultando a tal fine sufficiente la mera considerazione della mancata azione per la responsabilità civile, anche considerando i rapporti di parentela intercorrenti tra il socio e l’amministratore.
2.4. Il settimo e l’ottavo motivo, da trattare congiuntamente perché connessi, sono infondati e vanno rigettati.
La C.t.r., con statuizione alla quale l’amministrazione finanziaria risulta aver prestato acquiescenza, ha ritenuto che il socio fosse responsabile nei confronti del fisco solo nei limiti della ritenuta d’imposta, che non era stata operata e versata dalla società, nella misura dell’aliquota del 27 per cento, all’epoca prevista a carico dei soggetti residenti all’estero.
Questa Corte ha già affermato il principio, secondo cui il sostituito sarebbe fin dall’inizio solidalmente responsabile con il sostituto ed esposto all’azione del fisco, sia in caso di ritenuta d’acconto, sia in caso di ritenuta d’imposta (in tal senso, ex multis, Cass. n. 9933/2015; Cass. n. 23121/2013).
Tale impostazione non risulta smentita da Cass. S. U. n. 10378/2019, la quale, nell’affermare che il sostituito non è tenuto in solido con il sostituto in sede di riscossione nel caso di ritenute d’acconto effettuate da quest’ultimo e non versate, richiama comunque la precedente giurisprudenza sulla solidarietà tra sostituito e sostituto nel caso in cui la ritenuta (d’acconto o d’imposta) non sia stata operata.
In particolare, secondo l’orientamento maggioritario di questa Corte, l’art. 64, comma 1, D.P.R. n. 600 del 1973, nel definire il sostituto d’imposta come colui che “in forza di disposizioni di legge è obbligato al pagamento di imposte in luogo di altri… anche a titolo di acconto”, non esclude che anche il sostituito debba ritenersi, già originariamente (e non solo in fase di riscossione, come espressamente ribadito dall’ art. 35 D.P.R. n. 602/1973), obbligato solidale al pagamento dell’imposta, soggetto perciò egli stesso all’accertamento ed a tutti i conseguenti oneri.
Ciò in quanto il rapporto che si costituisce tra il sostituto d’imposta e il sostituito è quello dell’obbligazione solidale passiva nei confronti del fisco, con conseguente applicabilità della relativa disciplina, operando nella specie la presunzione, stabilita dall’art. 1294 cod. civ., secondo la quale i condebitori sono ritenuti obbligati in solido, in ragione dell’unicità della prestazione, se dalla legge o dal titolo non risulta diversamente (cfr. Cass. n. 19034/2014).
Da tali principi discende che, nel caso di specie, l’amministrazione non aveva l’obbligo di iscrivere a ruolo preventivamente nei confronti della società, quale sostituto d’imposta, ma poteva esercitare la propria pretesa anche direttamente nei confronti del socio.
Con riferimento ai termini di decadenza per l’accertamento, il ricorrente sostiene che, non essendo tenuto agli obblighi dichiarativi ex art. 1, comma 4, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (norma che esonera dall’obbligo della dichiarazione chi percepisce redditi soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta), sarebbe applicabile nei suoi confronti il più breve termine decadenziale previsto dall’art. 43, comma 1, D.P.R. n. 600/1973 e non quello più lungo previsto dal comma 2 per il caso di contribuente inadempiente agli obblighi di dichiarazione.
Tuttavia deve rilevarsi che nella specie, considerata la proroga biennale, l’accertamento relativo all’anno di imposta 2002, notificato in data 21 maggio 2009, sarebbe stato tempestivo anche applicando il termine di cui al primo comma dell’art. 43, D.P.R. n. 600/1973 vigente ratione temporis.
2.5. Infine, deve rilevarsi che i due motivi di ricorso incidentale sono infondati.
Con riferimento al primo motivo, ci si può limitare a dare seguito al principio di diritto che “non ricorre il vizio di omessa pronuncia, nonostante la mancata decisione su un punto specifico, quando la decisione adottata comporti una statuizione implicita di rigetto sul medesimo” (v. in tal senso, tra le molte, Cass. n. 29191/2017).
In ordine alla dedotta violazione di legge, come si è detto in precedenza, il Giudice di Appello ha ritenuto che il socio rispondesse dell’obbligazione tributaria fino a concorrenza della ritenuta non operata e non versata dalla società in qualità di sostituto d’imposta, limitando la pretesa tributaria all’aliquota del 27% prevista all’epoca per la ritenuta d’imposta nei confronti dei soggetti residenti all’estero.
Tale statuizione non è stata impugnata dall’ufficio, che sul punto ha prestato acquiescenza, riconoscendo sostanzialmente che il contribuente fosse obbligato, in qualità di sostituito, nei limiti della ritenuta d’imposta.
Da ciò discende che il contribuente non era tenuto agli obblighi dichiarativi, a mente dell’art. 1, comma 4, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, che esonera dall’obbligo della dichiarazione chi percepisce redditi soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta.
Di conseguenza non può essere esposto alle relative sanzioni previste per l’inadempimento.
3.1. Per quanto fin qui detto, vanno accolti, nei sensi di cui in motivazione, il quarto ed il quinto motivo del ricorso principale, assorbito il sesto e rigettati gli altri.
Va rigettato il ricorso incidentale e la sentenza impugnata va cassata in relazione ai motivi accolti, con rinvio alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado del Piemonte, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del presente giudizio.
Rilevato che risulta soccombente l’Agenzia delle Entrate, ricorrente incidentale, ammessa alla prenotazione a debito del contributo unificato per essere amministrazione pubblica difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, non si applica l’art. 13 comma 1-quater, D.P.R. 30 maggio 2002 n. 115 nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della L. n. 228 del 2012, (Cass. 29/01/2016, n. 1778).
P.Q.M.
La Corte accoglie il quarto ed il quinto motivo del ricorso principale, assorbito il sesto e rigettati gli altri.
Rigetta il ricorso incidentale.
Cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia alla Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado del Piemonte, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del presente giudizio.
Così deciso in Roma il 22 maggio 2024.
Depositato in Cancelleria il 9 luglio 2024.
