FATTI DI CAUSA
1. Con sentenza n. 195/28/10, depositata in data 13 dicembre 2010, la Commissione tributaria regionale del Lazio, rigettava l’appello proposto dalla (omissis) s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, nei confronti dell’Agenzia delle entrate, in persona del Direttore pro tempore, avverso la sentenza n. 424/09/2007 della Commissione tributaria provinciale di Roma che aveva rigettato il ricorso proposto dalla detta società avverso l’avviso di accertamento n. RCC06061159/2005 con il quale l’Ufficio aveva recuperato, per l’anno di imposta 1998, Iva, sanzioni e interessi per un totale di euro 51.850,00, in relazione alla vendita di un complesso immobiliare ritenuto non assoggettabile al regime di esenzione Iva ex art. 10, comma 8 bis, del d.P.R. n. 633 del 1972.
1.2. Il giudice di appello, in punto di fatto, ha premesso che: 1) con l’avviso di accertamento n. RCC06061159/2005 l’Ufficio, previa rettifica della dichiarazione Iva per l’anno 1998, aveva richiesto alla (omissis) s.p.a. il pagamento della maggiore imposta non potendo essere la cessione del complesso immobiliare ubicato in Portici (NA) assoggettata al regime di esenzione Iva ex art. 10, comma 8 bis, del d.P.R. n. 633 del 1972, per mancanza del requisito oggettivo (immobile a destinazione abitativa trattandosi, nella specie, di un bene strumentale, appartenente alla categoria catastale B5- scuole/laboratori scientifici) e di quello soggettivo (rivestendo la cedente la qualifica di “impresa costruttrice”); 2) avverso l’avviso di accertamento, la contribuente aveva proposto ricorso dinanzi alla CTP di Roma che l’aveva rigettato ritenendo che: a) la cedente (omissis) s.p.a era da considerare “impresa costruttrice”, per avere acquisito il bene – oggetto della compravendita – attraverso il susseguirsi di una serie di operazioni di fusione per incorporazione, e, all’origine, in forza di conferimento -per aumento del capitale sociale- eseguito da (omissis), imprenditore edile e socio della (omissis) s.p.a. poi confluita nella società contribuente; b) la vendita era assoggettabile ad aliquota agevolata del 10% ai sensi del punto 127 undicies della Tabella A, parte II, allegata al d.P.R. 633/72, in quanto l’immobile in questione era assimilabile “a casa di abitazione non di lusso”; 3) avverso la sentenza della CTP, la società contribuente aveva proposto appello deducendo che – ferma restando il riconoscimento da parte del giudice di primo grado della sussistenza, nella specie, del requisito oggettivo per l’esenzione – la medesima non rivestiva la qualifica di “impresa costruttrice”, essendo stato il bene acquisito per effetto di un conferimento, per aumento di capitale – e non già di cessione di ramo di azienda – avvenuto precedentemente alle operazioni di fusione; 4) aveva controdedotto l’Ufficio chiedendo la conferma della sentenza di primo grado.
1.3. Per quanto di interesse, la CTR, in punto di diritto, ha osservato che la motivazione del giudice di primo grado era da condividere in quanto, dalla lettura degli atti si evinceva che il bene compravenduto non era un bene di lusso e che tra le attività svolte dalle società fuse sussisteva “uno stretto legame operativo e continuativo”.
2. Avverso la sentenza della CTR, la società contribuente ha proposto ricorso per cassazione affidato ad un unico motivo, cui ha replicato l’Agenzia delle entrate, con controricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con l’unico motivo, la ricorrente denuncia, in rubrica “l’errata interpretazione della norma e l’inesistenza dei presupposti giustificativi”, per avere la CTR, nel rigettare l’appello, riportandosi apoditticamente alle argomentazioni del giudice di primo grado, interpretato erroneamente l’art. 10, comma 8 bis del d.P.R. n. 633 del 1972, ritenendo che la società contribuente, quale cedente del complesso immobiliare in oggetto, rivestisse la qualità di “impresa costruttrice” per avere ricevuto il bene attraverso il susseguirsi di una serie di operazioni di fusione per incorporazione, e, all’origine, in forza di conferimento eseguito da (omissis), imprenditore edile e socio della (omissis) s.p.a. poi confluita nella società contribuente; con ciò erroneamente sovrapponendo il concetto di conferimento di immobile per aumento di capitale a quello di conferimento di un ramo di azienda, con il quale viene trasferito anche la qualifica di imprenditore.
2. Preliminarmente va vagliata l’eccezione di formazione del giudicato interno sollevata dall’Agenzia nel controricorso che è fondata.
2.1. Ai sensi dell’art. 10, comma 8 bis cit., nella versione vigente ratione temporis, vanno esenti dal Iva:«le cessioni di fabbricati, o di porzioni di fabbricato, a destinazione abitativa, effettuate da soggetti diversi dalle imprese costruttrici degli stessi o dalle imprese che vi hanno eseguito, anche tramite imprese appaltatrici, gli interventi di cui all’articolo 31, primo comma, lettere c), d) ed e), della legge 5 agosto 1978, n. 457, ovvero dalle imprese che hanno per oggetto esclusivo o principale dell’attività esercitata la rivendita dei predetti fabbricati o delle predette porzioni».
I presupposti per godere del regime di esenzione Iva sono, dunque, uno di carattere oggettivo, ravvisabile nella destinazione ad uso abitativo del fabbricato o porzione di fabbricato oggetto di cessione e l’altro di carattere soggettivo concretantesi nella assenza in capo al cedente della qualità di “impresa costruttrice”. In particolare, tre sono le ipotesi cui il legislatore ricollega, dal punto di vista soggettivo, l’esclusione del beneficio in questione: le imprese di costruzione, quelle esecutrici di lavori di manutenzione straordinaria, restauro o ristrutturazione, nonché quelle che svolgono attività di intermediazione – che sia caratterizzata da prevalenza- nel mercato delle vendite immobiliari.
La ratio della norma, infatti, assolve (trovando il proprio riferimento nei principi di cui agli artt. 2 e 42 Cost.) a finalità sociali, correlate al godimento delle case di abitazione e, dunque, non allo svolgimento di attività di natura commerciale (Cass. 30806 del 2017).
Nella specie, come si evince dalla sentenza della CTR e dallo stesso ricorso per cassazione, il giudice di primo grado, nel rigettare il ricorso della contribuente aveva, da un lato, escluso la sussistenza del requisito soggettivo in capo alla società cedente – per essere quest’ultima da considerare “impresa costruttrice”- essendo il bene pervenuto alla stessa tramite successivi atti di fusione e, all’origine, in forza di un conferimento, per aumento di capitale sociale, da parte di un socio, imprenditore edile, di una delle società poi confluita, per fusione, nella società cedente – e, dall’altro, ritenuto il complesso immobiliare oggetto della vendita assimilabile alle “case di abitazione non di lusso” e, pertanto, assoggettabile all’aliquota agevolata del 10% ai sensi del n. 127 undicies della Tabella A, parte II, allegata al d.P.R. 633/72. Con ciò, quindi, il giudice di primo grado, lungi dal riconoscere la sussistenza, nella specie, del requisito oggettivo (destinazione abitativa del fabbricato ceduto) ai fini del regime di esenzione Iva, aveva semplicemente equiparato l’immobile oggetto della cessione a “casa di civile abitazione non di lusso” ai fini agevolativi per l’applicazione dell’aliquota del 10%.
Al riguardo, infatti, i due concetti di “fabbricati, o di porzioni di fabbricato, a destinazione abitativa” ai fini dell’esenzione Iva ex art. 10, comma 8 bis del d.P.R. n. 633 del 1972 e di “casa di abitazione non di lusso” ai fini del regime agevolativo ai sensi del n. 127 undicies della Tabella A, parte II, allegata al d.P.R. 633/72, non coincidono. E, invero, mentre la nozione di “casa di abitazione non di lusso” si desume, a contrario, dal Decreto Ministeriale dei lavori pubblici del 2 agosto 1969, che elenca le abitazioni di lusso, il concetto di fabbricato – o porzione di esso – “a destinazione abitativa”, implica l’uso in concreto dello stesso a finalità abitative. Ciò corrisponde alla diversa ratio sottesa alle due discipline, l’una in tema di esenzione Iva preposta a fini sociali, correlata a favorire il godimento delle case di abitazione (trattandosi di “vendita di fabbricato ad uso non strumentale da parte di impresa non costruttrice” v. Cass. 17299/2014), l’altra, in tema di agevolazione con riduzione dell’aliquota di imposta (al 10%), finalizzata a promuovere lo sviluppo dell’edilizia abitativa ovvero delle costruzioni edilizie con destinazione funzionale prevalente abitativa. Infatti, ai fini delle agevolazioni tributarie nel settore dell’edilizia, ex art. 13 della legge n. 408 del 1949 (c.d. Legge Tupini) rileva il concetto di «case di abitazione, anche se comprendono uffici e negozi, che non abbiano il carattere di abitazione di lusso (…)». L’articolo 1 della legge n. 1493 del 1962 stabilisce che «(…) le agevolazioni fiscali previste per le case di abitazione non di lusso dalle leggi 2 luglio 1949, n. 408, (…) sono applicabili anche ai locali destinati ad uffici e negozi, quando, a questi ultimi, sia destinata una superficie non eccedente il quarto di quella totale nei piani sopra terra (…)». Successivamente, la legge n. 1212 del 1967, con un unico articolo, ha fornito l’interpretazione autentica del predetto articolo 1, disponendo che, ai fini della concessione delle agevolazioni fiscali in esame, è necessario e sufficiente che ricorrano, congiuntamente, le seguenti condizioni: a) almeno il 50% più uno della superficie totale dei piani sopra terra sia destinata ad abitazioni; b) non più del 25% della superficie totale dei piani sopra terra sia destinato a negozi (Cass. 10213 del 2018). La ratio della previsione dell’aliquota Iva agevolata del 10% di cui al punto 127-undecies della tabella A del d.P.R. n. 633 del 1972 è dunque quella di favorire l’incremento delle costruzioni edilizie con riguardo agli edifici che, complessivamente considerati, abbiano come destinazione funzionale prevalente quella abitativa secondo il rapporto fissato dalle norme integratrici e interpretative di cui all’art. 1 della legge n. 1493 del 1962 e all’articolo unico della legge n. 1212 del 1967.
Pertanto, si deve intendere che, nella specie, il giudice di primo grado abbia rigettato il gravame della contribuente, sul presupposto della insussistenza di entrambi i requisiti (soggettivo e oggettivo) richiesti per la fruizione del regime di esenzione Iva, assimilando, solo ai fini dell’applicazione dell’aliquota ridotta del 10%, l’immobile oggetto della cessione alla “casa di abitazione non di lusso” ai sensi del punto 127-undecies della tabella A del d.P.R. n. 633 del 1972 (v. pagg. 8-9 del controricorso, in cui è riportato lo stralcio, sul punto, della sentenza della CTP secondo cui “detti immobili sono da considerarsi strumentali (…) in quanto appartenenti alla categoria catastale B5, ma oggettivamente agevolabili in quanto assimilati a case di abitazione non di lusso“).
Non essendo stata l’autonoma ratio decidendi della sentenza di prime cure (concernente la ritenuta mancanza anche del requisito oggettivo per l’esenzione Iva) oggetto di gravame da parte del contribuente – per avere quest’ultimo ritenuto sovrapponibili i concetti di “fabbricato a destinazione abitativa” e di “casa di abitazione non di lusso”- si è formato, sul punto, il giudicato interno che non è stato, peraltro, rilevato d’ufficio dal giudice di appello.
Questa Corte ha già affermato il seguente principio: “qualora una questione abbia formato oggetto di decisione del giudice di primo grado e tale decisione non sia stata impugnata, né sotto il profilo della violazione delle norme del processo, né sotto quello della violazione delle norme di diritto, ed il giudice dell’impugnazione, altrimenti adito, non abbia rilevato d’ufficio il fatto che si era formato un giudicato interno per cui l’appello avrebbe dovuto essere dichiarato inammissibile, spetta alla Corte di cassazione, adita con ricorso, rilevare d’ufficio il giudicato, cassando senza rinvio la sentenza di secondo grado, perché il processo non poteva essere proseguito” (Cass. sez. 5, Sentenza n. 1284 del 22/01/2007).
Pertanto, si può affermare il seguente principio di diritto: “allorquando la decisione del giudice di primo grado, basata su due autonome e distinte rationes decidendi– ognuna della quali sufficiente da sola a sorreggerla – sia stata oggetto di gravame solo per una di esse, la formazione del giudicato interno sull’altra, non rilevato dal giudice di appello, comporta la rilevabilità anche d’ufficio del giudicato da parte del giudice di legittimità, con cassazione senza rinvio della sentenza di secondo grado, perché il processo non poteva essere proseguito”.
3. Ne consegue che, essendosi trattato, nella specie, di due, distinte ed autonome, rationes decidendi poste a fondamento della decisione di primo grado (l’una concernente il ritenuto difetto del requisito soggettivo e l’altra concernente l’assunta mancanza del requisito oggettivo), ed essendo sceso il giudicato interno su una delle due (quella attinente al requisito oggettivo) per essere stato il gravame proposto esclusivamente avverso l’altra ratio decidendi (afferente il requisito soggettivo), peraltro, non rilevato dal giudice di secondo grado, va cassata la sentenza della CTR senza rinvio, perché il processo non poteva essere proseguito.
4. Stante la peculiarità della vicenda processuale, si ravvisano giusti motivi per compensare integralmente le spese del giudizio di legittimità tra le parti.
P.Q.M.
la Corte
Cassa senza rinvio la sentenza impugnata; compensa tra le parti le spese del giudizio di legittimità;
Così deciso il 12 dicembre 2018.
