Svolgimento del processo
Con atto del 4 Febbraio 1982 (omissis) – premesso che aveva concesso in locazione, per uso non abitativo, a (omissis), un locale terraneo sino in Udine per un canone mensile di lire 33.880 da corrispondere entro i primi tre giorni di ciascun mese, e che la conduttrice era rimasta morosa nel pagamento di parte del canone del dicembre 1981 e dell’intero canone relativo al gennaio 1982 – intimava alla Picech sfratto per morosità e contestualmente la evocava in giudizio, davanti al Pretore di Udine, per la convalida.
Nella prima udienza di comparizione, in data 9 febbraio 1982, la intimata, costituitasi contestava di versare in stato di morosità e produceva ricevuta del versamento effettuato presso banca lo stesso giorno della citazione (4/2/1982) con ordine di accreditamento della somma dovuta per canoni sino ad allora maturati, sul conto corrente del locatore.
Questi controdeduceva che nessun accredito era stato eseguito e che la mora persisteva.
Il Pretore assegnava pertanto alla (omissis) termine di grazia di trenta giorni per provvedere al pagamento dei canoni scaduti maggiorati degli interessi e delle spese processuali, liquidate in lire 120.000 oltre I.V.A..
Decorso sterilmente tale termine, la causa era trattata nel merito e definitiva, con sentenza del 26 ottobre 1982, dichiarativa della risoluzione del contratto.
Osservava il Pretore che, entra il termine assegnato ai sensi dell’art. 55 della legge n. 392/1978, la conduttrice aveva sanato la morosità relativa all’importo dei canoni insoluti ma non anche al versamento degli interessi di mora e della somma liquidata per spese processuali. Osserva, ancora, che la morosità doveva essere considerata grave ai sensi dell’art. 5 della citata legge, superando i limiti temporali e quantitativa al di sopra dei quali operava la valutazione automatica della gravità dell’inadempimento.
In rigetto del gravame interposto dalla (omissis), questa decisione veniva poi confermata dal Tribunale di Udine, con sentenza del 21 settembre 1985, sui rilievi che nessun valido pagamento era stato fatto anteriormente alla notificazione della intimazione di sfratto e che anche nei riguardi delle locazioni ad uso non abitativo, si rendeva applicabile il principio di cui all’art. 5 della legge n. 392 del 1978.
Per la cassazione di tale sentenza (omissis) ha proposto ricorso, impostato su due motivi di censura.
(omissis) ha resistito con controricorso. La trattazione del ricorso è stata assegnata dal Primo Presidente a queste Sezioni Unite, involvendo la materia del contendere questione, circa la delimitazione dell’ambito di operatività dell’art. 5 citato, già decisa in senso difforme dalla Terza Sezione Civile.
Motivi della decisione
1°) Con il primo mezzo di annullamento la ricorrente, deducendo la falsa applicazione dell’art. 55 della legge N. 392 del 1978, sostiene che, avendo ella esibito nella prima udienza di comparizione la ricevuta del versamento bancario effettuato il 4/2/1982 a favore del locatore, ed essendosi oltre tutto astenuta dal richiedere un termine per la sanatoria della morosità ex adverso attribuitale, del tutto illegittimamente il Pretore aveva concesso il termine di grazia previsto dal secondo comma della citata norma affinché la convenuta provvedeva ad un pagamento in realtà già effettuato.
Questa censura è priva di fondamento.
La adozione di un mezzo di pagamento del canone locatizio diverso da quello in moneta avente corso legale presso il domicilio del locatore (nella specie: versamento a mezzo di bonifico bancario) comporta l’inadempimento del conduttore, salvo che tale diversa forma non sia consentita da espressa previsione contrattuale (cfr. Cass. N. 5182 del 1988), o dagli usi localmente vigenti, ovvero non risulti incontrastatamente tollerata per effetto del radicarsi, tra le parti, di una prassi regolatrice in quel senso della modalità del pagamento, ad integrazione o modifica delle clausole contrattuali.
Senonché, anche in quest’ultimo caso, la tolleranza del locatore a ricevere il canone a mezzo banca (tramite bonifico od accredito in conto corrente), non implica affatto – salva prova contraria, il cui onere è a carico del conduttore debitore – la tolleranza ad ottenere la disponibilità giuridica della somma dovutagli oltre il termine stabilito pattiziamente per il pagamento del canone.
Di modo che, in difetto di quella prova, restando a carico del conduttore i rischi del ritardo o del disguido derivante dalla utilizzazione del servizio bancario (o postale) correttamente i giudici del merito hanno stimato che soltanto in data 23 febbraio 1982, e quindi ben oltre la data della notificazione della intimazione di sfratto e della prima udienza di comparizione, la Picech aveva adempiuto alla obbligazione del pagamento del canone e della porzione di canone arretrati, adempimento attuato con l’affettivo accredito della somma dovuto sul conto corrente bancario del locatore.
Una volta che, al tempo della prima udienza di comparizione la morosità risultava non essere stata anteriormente sanata, né nella medesima udienza la intimata aveva ritenuto di avvalersi della sanatoria ope legis prevista dal primo comma dell’art. 55, al Pretore non era dato esimersi dal valutare la importanza dell’inadempimento agli effetti della risoluzione del contratto.
Ora, la circostanza che quel giudice abbia ritenuto di concedere d’ufficio una possibilità di sanatoria della mora, ai sensi dei commi 2, 3 e 4 del citato art. 55, non può aprire varco alla doglianza di cui al primo motivo del ricorso, per manifesto difetto di interesse nella ricorrente.
Come infatti il Tribunale ha posto in evidenza, se quel termine di grazia non fosse stato assegnato e se la situazione debitoria della conduttrice fosse stata esaminata con riferimento alla consistenza che essa presentava alla data della prima udienza, la morosità della intimata sarebbe risultata ben superiore a quella riscontrata dal giudice alla scadenza del termine concesso per sua purgazione.
Con il secondo mezzo di annullamento la ricorrente, lamentando la falsa applicazione dell’art. 5 della legge n. 392 del 1978, deduce che erroneamente il Tribunale aveva ritenuto applicabile anche alle locazioni di immobili adibiti ad uso diverso da quello di abitazione il principio della valutazione automatica della gravità dell’inadempimento ai fini della risoluzione del contratto, principio stabilito invece dall’art. 5 con esclusivo riferimento alle locazioni di immobili ad uso abitativo.
La questione della estraneità della norma ora citata rispetto alla disciplina delle locazioni ad uso non abitativo – già risolta dalla Sezione III di questa Corte, nel senso propugnato dalla ricorrente, con le sentenze n. 2469 del 1981, n. 4057 del 1985 e n. 4600 del 1986 – ha ricevuto una diversa soluzione nella sentenza n. 6995 del 1986 e n. 8605 del 1987, adottate sempre dalla III Sezione.
Tale contrasto, che ha determinato la remissione del ricorso all’esame di queste Sezioni Unite, le sollecita alla verifica dell’ambito di operatività del principio della c.d. “predeterminazione legislativa della gravità dell’inadempimento” nella economia dell’intera legge n. 392 del 1978. E l’indagine approda, per quanto si dirà, al riconoscimento della impraticabilità di una applicazione estensiva del principio di cui all’art. 5 della legge al di fuori del settore della disciplina delle locazioni ad uso abitativo.
Occorre partire dalla considerazione dell’impianto strutturale dell’intera legge n. 392 del 1978, la quale si presenta sostanzialmente articolata su due piani (il titolo I , relativo alla disciplina ordinaria, ed il titolo II, relativo alla disciplina transitoria), e suddivisa poi, all’interno di ciascun piano, in tre settori riflettenti la stessa materia (capo I , la locazione di immobili adibiti ad uso di abitazione; capo II , la locazione di immobili adibiti ad uso diverso da quello di abitazione; capo III , le disposizioni processuali).
La simmetria quasi geometrica di questo impianto, se per un verso ha reso inevitabile una moltiplicazione di richiami da norma a norma, per estenderne o limitarne l’applicabilità dall’uno all’altro piano e dall’uno all’altro settore, ha per converso conferito una più stringente significatività ad ogni singolo richiamo o mancato richiamo.
Per quanto concerne in particolare il problema in esame, costituiscono pertanto dati non soltanto testuali, ma prima ancora sistematici ed involgenti la ripartizione organica delle discipline dettate dal legislatore, i seguenti: a) anzitutto la collocazione della disposizione relativa alla c.d. predeterminazione legislativa della gravità dell’inadempimento (art. 5) nell’ambito del regolamento delle locazioni ad uso abitativo (titolo I , capo I ); b) in secondo luogo, la mancata inclusione della predetta disposizione nel novero di quelle (ex art. da 7 ad 11) la cui vigenza è espressamente estesa all’altro settore attinente alle locazioni di immobili per uso non abitativo (titolo I, capo 2 , art. 41).
Poiché lettera della legge, collocazione della norma e suddivisione delle materie sono talmente chiare da condannare come assurda l’ipotesi di un mero difetto di coordinamento, imputabile a disattenzione dei conditores, altro itinerario non resta, per saggiare la possibilità di espansione del principio di cui all’art. 5 dall’ambito del regime previsto per le locazioni ad uso abitativo all’ambito del regime previsto per le locazioni ad uso non abitativo, se non quello della ricerca di una trascendente ed unificante “ratio legis”.
È questo il tentativo praticato dalla sentenza n. 8605 del 1987, ma destinato – a giudizio di queste Sezioni Unite e contrariamente a quanto in quell’occasione ritenuto – all’insuccesso.
La dottrina ha, invero, già da tempo acquisito per pacifico il concetto che locazioni di immobili ad uso di abitazione, da un lato, e locazioni di immobili ad uso diverso, dall’altro, costituiscono, secondo la bipartizione sistematica tracciata dalla legge n. 392 del 1978, oggetto di due ben distinti filoni normativi, sorretti ciascuno da una propria e diversa “ratio”, e comunque da una diversa accentuazione di questo o di quel principio ispiratore della legge stessa.
Dal suo canto la Corte Costituzionale non ha mancato di ammonire e di ribadire che il trattamento differenziato, rinvenibile riguardo a numerosi istituti (durata, recesso, prelazione, ecc.) tra le locazioni ad uso abitativo e le locazioni ad uso non abitativo, secondo le rispettive discipline dettate dalla legge predetta, non vulnera il principio dell’eguaglianza ex art. 3 della Costituzione, in quanto non vi è omogeneità di situazioni, in caso di rapporti locatizi dell’uno e dell’altro tipo, ed in quanto rientra nella discrezionalità del legislatore il regolare diversamente le due categorie di rapporti, in armonia con il diverso rilievo economico e sociale che esse presentano (cfr. sentenze n. 111 del 1981, n. 128 e 252 del 1983, n. 116 del 1987).
Dalla stessa Corte Costituzionale proviene, poi, la precisazione che la non vigenza, per le locazioni ad uso diverso di quello di abitazione, del regime di “equo canone” già di per sé esclude la configurabilità di una parità di situazioni, tra le due categorie di rapporti, da mettere a raffronto per verificare se vi corrisponda una parità di trattamento.
Ciò premesso, non sembra meritevole di essere sorretta la forzatura ermeneutica volta ad estendere l’applicabilità della valutazione automatica della gravità dell’inadempienza ad ogni tipo di locazione prevista nella legge n. 392 del 1978, per pretesi fini perequativi, nel senso che, altrimenti, soltanto i conduttori di immobili destinati ad uso abitativo resterebbero, irragionevolmente, colpiti da una misura di maggior rigore.
Al contrario, se l’orientamento di base del legislatore è stato quello di conciliare i contrapposti interessi delle parti del rapporto locatizio, tenendo presenti le peculiari esigenze cui essi sopperiscono e soppesando vincoli e benefici a seconda che i rapporti stessi abbiano ad oggetto immobili destinati ad abitazione e ad uso diverso, appare del tutto ragionevole che alla diversa incisività del sistema normativo sull’autonomia negoziale privata, in punto di misura del canone (predeterminato in misura fissa per la prima categoria di locazioni, pattuita contrattualmente per la seconda) si sia fatto corrispondere un diverso metro di valutazione della gravità dell’inadempimento della obbligazione correlativa: metro da rinvenire, ai fini della risoluzione del rapporto, nell’art. 5 della legge, per quanto attiene alla morosità del conduttore di immobile destinato ad uso abitativo, e da rinvenire nell’art. 1455 del cod. civ., per quanto riguarda la morosità del conduttore di immobile adibito ad uso non abitativo.
Non può meravigliare, infatti, che ad un criterio di rigidità, nella determinazione legale della misura del canone (e quindi ad un beneficio per il conduttore) corrisponda, in funzione di riequilibrio, un criterio di rigidità nella determinazione legale della misura della morosità bastevole a legittimare la risoluzione del rapporto (e quindi un più preciso vincolo per il conduttore stesso).
Per la corretta soluzione da dare al problema in esame, l’argomentazione secondo cui l’indiscriminata applicazione del principio di cui all’art. 5 a tutti i rapporti ridurrebbe il contenzioso in materia di locazioni urbane, risulta poi ininfluente, risolvendosi in una considerazione di mera opportunità rimessa alla sensibilità del legislatore ma di valore nullo per l’interprete del dato normativo vigente.
Ma poiché la funzione di contenimento del contenzioso è assegnata, essenzialmente, ai benefici della purgazione della mora e della concessione del termine di grazia, previsti dall’art. 55 della legge, resta da esaminare se il richiamo all’art. 5 contenuto in quest’ultima disposizione abbia una forza attrattiva tale da assegnare al principio della valutazione automatica dell’importanza dell’inadempimento, ex art. 5, un capo di applicazione, rispetto alle categorie dei rapporti locatizi in crisi, corrispondente al campo di applicazione del principio della sanabilità della mora ex art. 55.
Per giustificare tale effetto estensivo è stato osservato: a) che la giurisdizione di questa Corte ha ritenuto applicabile la disposizione per ultima citata sia alle locazioni abitative, che a quelle non abitative; b) che la disposizione medesima (laddove configura la sanatoria quale fatto impeditivo della risoluzione del contratto) non ha mero carattere processuale; c) che il pagamento successivo all’inadempimento ed alla costituzione in mora può operare come sanatoria in senso tecnico solo postulandosi che la gravità o l’importanza dell’inadempimento siano da considerare scontate già nella fase preliminare del processo, in base ad un criterio di valutazione non discrezionale, ma legale e di inequivoca percezione, quale quello indicato nell’art. 5.
Anche queste considerazioni non possono essere condivise.
A tacere delle riserve che parte della dottrina e della giurisprudenza di merito ha sollevato in ordine alla validità della premessa sub a) ed alle conseguenze esatte da trarre dal rilievo sub b), l’assunto conclusivo indicato sub c) si manifesta di per sé gratuito ed erroneo nella ipotizzata interdipendenza tra valutabilità della gravità dell’inadempimento secondo il metro legale fornito dall’art. 5 e funzionalità dei meccanismi di sanatoria ex art. 55.
Le due disposizioni operano, invero, automaticamente e sulla base di presupposti diversi, anche se non alternativamente, nel senso che l’applicabilità della prima non esclude quella della seconda (come palesa la proposizione “salvo quanto previsto nell’art. 55”, posta ad esordio dell’art. 5).
In ipotesi di locazione ad uso abitativo, infatti, qualora non concorrano entrambi i requisiti d’ordine quantitativo e d’ordine temporale ai quali è ancorato il parametro della predeterminazione legale della gravità, l’inadempimento è considerato ex lege di scarsa importanza (cfr. Cass. n. 4598 del 1986), ed il locatore è avvertito ex ante di non disporre di un motivo valido per ottenere la risoluzione del contratto ex art. 1455 del cod. civ.: ma se ciò non ostante un procedimento per convalida di sfratto venga intrapreso, nulla osta a che il conduttore provveda, nella prima udienza, a sanare la morosità ai sensi dell’art. 55, primo comma, dal momento che una situazione di inadempienza oggettivamente esiste e l’ordinamento positivo appresta i modi per rimuoverla. Sempre in ipotesi di locazione ad uso di abitazione, qualora l’inadempimento sia, secondo il metro di valutazione legale, da considerarsi grave, il legislatore segnala, nel citato esordio dell’art. 5, che è pur sempre possibile rimuovere il motivo di risoluzione, sempreché il conduttore si avvalga dei meccanismi di sanatoria e di assegnazione del termine di grazia regolati nei diversi commi dell’art. 55.
D’altro canto, in ipotesi di locazione per uso diverso da quello di abitazione, pur essendo rimesso al giudice di procedere, in ogni caso, alla valutazione dell’importanza dell’inadempimento secondo i principi generali posti dagli artt. 1453 e 1455 del cod. civ., tale vaglio, il conduttore in mora potrà comunque e sempre stornare avvalendosi, sia nella prima udienza sia nell’assegnato termine di grazia, della facoltà di “purgazione”, posto che il pagamento dell’importo dovuto per tutti i canoni scaduti e per gli onorari accessori maturati sino alla data di prima udienza, maggiorati degli interessi legali e delle spese processuali liquidate in tale sede dal giudice, esclude la risoluzione del contratto ed impedisce l’accoglimento della correlativa domanda.
Ora, è evidente che un tale effetto impeditivo prescinde totalmente da un previo accertamento della gravità dell’inadempimento, e postula soltanto che ad opera del giudice adito sia quantificato l’importo complessivo della somma da pagare (somma alla cui formazione concorrono addendi eterogenei, la maggior parte dei quali, inerendo alla maturazione di oneri accessori e di interessi fino ad una certa data od alla liquidazione di spese processuali, solo in sede processuale possono essere calcolati).
Ancor più evidente è che gli eventuali metri di valutazione – ope legis od ope judicis – della importanza dell’inadempimento non hanno attinenza alcuna con il ben diverso problema dell’accertamento della entità della morosità e della quantificazione della somma complessiva occorrente per sanarla: sicché va respinto l’assunto secondo cui “sanatoria” in senso tecnico potrebbe aversi solo in presenza di una situazione di inadempienza la gravità della quale sia stata sottratta alla valutazione del giudice e sia definita secondo il metro legale indicato nell’art. 5.
Orbene, una volta escluso che fra le due citate norme sussista un nesso di interdipendenza tale da condizionare l’applicabilità dei benefici ex art. 55 alla vigenza, rispetto alla stessa fattispecie contenziosa, del criterio valutativo posto dall’art. 5, cede l’ultimo appiglio argomentativo volto a sostenere la estensione della imperatività di detto criterio al di fuori del settore delle locazioni ad uso di abitazione.
Conclusione, questa, che peraltro non preclude al giudice, chiamato a valutare ai sensi dell’art. 1455 cod. civ. l’importanza dell’inadempimento in caso di locazione per uso non abitativo, di richiamarsi anche al principio posto dall’art. 5 della legge n. 392 del 1978, quale criterio latamente ispiratore ed orientativo del proprio giudizio, sempreché le peculiarità della res judicanda giustifichino tale discrezionale considerazione e di essa sia fornita una motivazione logicamente corretta.
In definitiva, il secondo motivo del ricorso deve essere accolto e, cassata la sentenza impugnata, la causa deve essere rimessa per il riesame al giudice del rinvio.
Questi, che si designa nel Tribunale di Pordenone, si atterrà ai principi di diritto sopra esposti circa i limiti di applicabilità della previsione normativa posta dall’art. 5 citato e provvederà altresì a regolare le spese relative al giudizio di legittimità ora definito.
P.Q.M.
La Corte suprema di Cassazione: rigetta il primo motivo ed accoglie il secondo motivo del ricorso; cassa la impugnata sentenza e rinvia, anche per le spese, al Tribunale di Pordenone.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle Sezioni Unite civili il 30 giugno 1990.
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 28 DICEMBRE 1990.
