Massima

Le decisioni del Consiglio Nazionale Forense (CNF) in materia disciplinare sono impugnabili dinanzi alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione esclusivamente per incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge. Ne consegue che l’accertamento del fatto, l’apprezzamento della sua gravità rispetto alle imputazioni, la scelta della sanzione opportuna e, in generale, la valutazione delle risultanze processuali non possono essere oggetto del controllo di legittimità, salvo che si traducano in un palese sviamento di potere. Il controllo di legittimità si limita a verificare la congruità, l’adeguatezza e l’assenza di vizi logici della motivazione che sorregge la decisione finale, senza potersi sostituire al CNF nel giudizio di adeguatezza della sanzione, se non nei limiti di una valutazione di ragionevolezza.

Supporto alla lettura

RICORSO PER CASSAZIONE

Il ricorso per cassazione (artt. 360 e ss. c.p.c.) è un mezzo di impugnazione ordinario che consente di impugnare le sentenze pronunciate in unico grado o in grado d’appello, ma solo per errori di diritto, non essendo possibile dinanzi alla Suprema Corte valutare nuovamente il merito della controversia come in appello. Di solito è ammessa solo la fase rescindente in quanto il giudizio verte sull’accertamento del vizio e sulla sua eventuale cassazione, il giudizio rescissorio spetta al giudice di rinvio. Solo nel caso in cui non dovessero risultare necessari ulteriori accertamenti in cassazione, avvengono entrambi i giudizi.

La sua proposizione avviene nel termine (perentorio) di 60 giorni (c.d. termine breve), è previsto un ulteriore termine (c.d. lungo) che scade 6 mesi dopo la pubblicazione della sentenza.

Per quanto riguarda i motivi di ricorso l’art. 360 c.p.c dispone che le sentenze possono essere impugnate:

  • per motivi attinenti alla giurisdizione,
  • per violazione delle norme sulla competenza, quando non è prescritto il regolamento di competenza;
  • per violazione o falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro;
  • per nullità della sentenza o del procedimento;
  • per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti.

Inoltre può essere impugnata con ricorso per cassazione una sentenza appellabile del tribunale se le parti sono d’accordo per omettere l’appello (art. 360, c. 1, n. 3, c.p.c.), mentre non sono immediatamente impugnabili per cassazione le sentenze che decidono di questioni insorte senza definire, neppure parzialmente, il giudizio, in questo caso il ricorso può essere proposto senza necessità di riserva quando sia impugnata la sentenza che definisce, anche parzialmente il giudizio.

Il ricorso per cassazione è inammissibile (art. 360 bis c.p.c) quando il provvedimento impugnato ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte e l’esame dei motivi non offre elementi per confermare o mutare l’orientamento della stessa, oppure quando è manifestamente infondata la censura relativa alla violazione dei principi regolatori del giusto processo.

A pena di inammissibilità sono previsiti determinati requisiti di forma:

  • la sottoscrizione da parte di un avvocato iscritto in apposito albo e munito di procura speciale;
  • l’indicazione delle parti;
  • l’illustrazione sommaria dei fatti di causa;
  • l’indicazione della procura se conferita con atto separato e dell’eventuale decreto di ammissione al gratuito patrocinio;
  • l’indicazione degli atti processuali, dei contratti o accordi collettivi o dei documenti sui quali si fonda il ricorso;
  • i motivi del ricorso con l’indicazione delle norme di diritto su cui si fondano.

Il ricorso va depositato, a pena di improcedibilità, entro 20 giorni dall’ultima notifica fatta alle parti contro le quali è proposto.

Chi intende resistere al ricorso per cassazione può depositare controricorso e deve essere fatto entro 40 giorni dalla notificazione del ricorso, insieme agli atti e ai documenti, e con la procura speciale se conferita con atto separato.

Ambito oggettivo di applicazione

Svolgimento del processo

1. L’avvocato ricorrente impugnava dinanzi al Consiglio Nazionale Forense (CNF) la decisione del Consiglio Distrettuale di Disciplina Forense del distretto della Corte d’Appello di Messina (CDD di Messina) che ne aveva accertato la responsabilità disciplinare per le violazioni di cui ai capi di incolpazione, ad eccezione del capo di incolpazione sub n. 1, e gli aveva inflitto la sanzione disciplinare della sospensione dall’esercizio della professione per anni 1 (uno).

2. Il predetto avvocato era stato sottoposto a procedimento disciplinare sui seguenti capi di incolpazione:

“Violazione degli artt. 4 (volontarietà dell’azione), 6 (dovere di evitare incompatibilità), art. 9 (doveri di probità, dignità, decoro e indipendenza), art. 19 (doveri di lealtà e correttezza verso le istituzioni forensi), art. 24 (conflitto di interessi) del Codice Deontologico Forense:

1) per avere, nella qualità di Segretario del COA cui era iscritto, Consigliere Anziano e Responsabile dei procedimenti di iscrizione nella Sezione Speciale Avvocati Stabiliti, indotto il Consiglio a deliberare l’iscrizione di oltre duecento avocat rumeni con titolo abilitante rilasciato dalla cd. “Struttura (omissis) nonostante la consapevolezza dell’illegittimità della procedura, derivantegli dalla conoscenza della sentenza dell’Alta Corte di Cassazione e Giustizia della Romania del 21/09/2015 e delle circolari, deliberazioni e note del CNF in materia, pervenute al COA sin dal 2013. Fatti commessi da dicembre 2016 a marzo 2017;

2) per avere, pur rivestendo la carica di Consigliere del COA, promosso, avverso il Consiglio medesimo, una causa risarcitoria davanti al Tribunale civile di (omissis) in nome e per conto dell’av. (omissis) e dell’av. (omissis) In Caltagirone-Roma, dal 2016;

3) per avere, pur rivestendo la qualità di Consigliere del COA, assunto il patrocinio, davanti al Consiglio Nazionale Forense, di n. 116 iscritti alla Sezione Speciale per l’impugnazione delle rispettive delibere di cancellazione dall’Albo Avvocati Stabiliti. In Caltagirone-Roma, dal 2018;

4) per avere, pur rivestendo la qualità di Consigliere del COA, consentito che presso il suo studio legale avesse sede un’associazione costituita allo scopo di difendere, anche in contrapposizione ai deliberati del suo stesso

Consiglio, gli asseriti diritti degli avocat abilitati presso la cd. “Struttura (omissis)”. In Caltagirone, dal 2017;

5) per avere, pur rivestendo la qualità di Consigliere del COA, assunto la rappresentanza e la difesa dell’avv. (omissis), dirigente dell’associazione avente sede presso il suo studio, nel ricorso del 9/11/2017 promosso davanti al CNF avverso l’asserito silenzio serbato dal COA sull’istanza di iscrizione della predetta all’Albo Ordinario, chiedendo la condanna del Consiglio di appartenenza al risarcimento dei danni. In Caltagirone-Roma, dal 9/11/2017;

6) per essersi, pur rivestendo la carica di Consigliere del COA, costituito contro il COA medesimo nel giudizio risarcitorio promosso davanti al Tribunale civile di Roma dalla U.N.B.R., cd. “Struttura (omissis)”; in Caltagirone-Roma, dal 14/03/2018;

7) per avere omesso, pur avendo proposto ricorso in Cassazione nell’interesse dell’av. (omissis) avverso la sentenza di rigetto del ricorso della stessa proposto contro la deliberazione del COA di Roma di cancellazione della sezione speciale per inidoneità del titolo abilitante, in sede di relazione sulla domanda della stessa di iscrizione alla sezione speciale dell’Albo, di astenersi e di riferire al Consiglio del precedente provvedimento del COA di Roma e della sentenza del CNF, proponendo anzi l’accoglimento della domanda e così intenzionalmente inducendo una iscrizione illegittima, che il COA, ove a conoscenza dei provvedimenti pregressi, non avrebbe deliberato; In Caltagirone, in data 14/04/2016;

8) per avere, nella sua qualità di Segretario, Consigliere Anziano e Responsabile del procedimento, condotto strenua opposizione al doveroso avvio dei procedimenti di verifica della legittimità dei titoli di abilitazione all’esercizio della professione rilasciata dalla cd. “Struttura (omissis)”, pur essendo a conoscenza della riconosciuta illegittimità dei predetti titoli. In Caltagirone, dal 21.01.2017;

9) per avere, quale Consigliere Segretario del COA, omesso di partecipare, sin dal mese di ottobre 2016, alle Adunanze del Consiglio dell’Ordine, con la dichiarata motivazione del conflitto di interessi con la sua qualità di patrocinatore degli avocati provenienti dalla “Struttura (omissis)”, così volontariamente pregiudicato il buon funzionamento del Consiglio stesso. In Caltagirone, da ottobre 2016 al 2018″.

3. La vicenda disciplinare traeva origine da una segnalazione presentata il 10.7.2018 dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di appartenenza del ricorrente al CDD competente.

In sintesi, il COA lamentava che il professionista incolpato, resosi fautore e sostenitore dell’accoglimento delle istanze di iscrizione all’Albo “sezione speciale avvocati stabiliti” dei soggetti in possesso di abilitazione conseguita in Romania dalla c.d. “Struttura (omissis)” si fosse contrapposto alle direttive impartite dal CNF in relazione all’acclarata inidoneità del titolo rilasciato dal citato organismo rumeno (omissis), opponendosi strenuamente in Consiglio al doveroso avvio del procedimento di revisione; inoltre lo stesso, tacendo ai Consiglieri del provvedimento di cancellazione adottato dal COA di Roma nei confronti della sua assistita avocat (omissis) e del rigetto dell’impugnazione da lui stesso patrocinata, ne avesse proposto l’iscrizione nella sezione speciale avvocati stabiliti, iscrizione che veniva deliberata nell’adunanza consiliare 14.4.2016 da lui stesso presieduta; si fosse reso referente della predetta “Struttura (omissis)” presso le istituzioni forensi, ne avesse addirittura assunto il patrocinio davanti al Tribunale contro il suo stesso Consiglio dell’Ordine e avesse consentito che presso il suo studio venisse ubicata la sede di un’associazione costituita per la tutela dei soggetti muniti del titolo abilitativo Bota de quo nonché avesse assunto il patrocinio davanti al CNF di n. 116 avocat raggiunti da provvedimento di cancellazione, impugnando le deliberazioni del suo stesso Consiglio e spingendosi sino a chiederne la condanna al risarcimento dei danni in favore dei assistiti; avesse disertato dal mese di ottobre dell’anno 2016 le adunanze consiliari, arrecando pregiudizio al buon funzionamento dell’Istituzione di cui faceva parte, anche per l’enorme contenzioso a cui l’attività professionale dello stesso avvocato ricorrente aveva dato luogo.

4. Svolta l’istruttoria, il CDD dichiarava l’incolpato responsabile degli addebiti ascrittigli, fatta eccezione per l’incolpazione sub n. 1, ed applicava allo stesso la sanzione disciplinare della sospensione dall’esercizio della professione per la durata di anni uno.

Quanto ai capi in relazione ai quali riteneva sussistente la responsabilità disciplinare dell’incolpato, evidenziava che i fatti contestati erano documentalmente comprovati dalle produzioni documentali del COA di Caltaqirone e dell’incolpato stesso, integrate dagli atti processuali del fascicolo CNF n. 194/2018 R.G. acquisito nel corso del procedimento, e le condotte pacifiche tra le parti, rimanendo controversa solamente la valenza deontologica delle stesse.

Sotto questo profilo, rimarcava la sussistenza di un conflitto di interessi deontologicamente rilevante nel contesto dell’esercizio delle funzioni istituzionali dei Consiglieri dell’Ordine e respingeva analiticamente le argomentazioni difensive dell’incolpato (dall’asserita buona fede, per aver confidato nella validità del titolo abilitativo rilasciato dalla struttura, all’assenza di una specifica norma incriminatrice relativa alle condotte contestate, alla negazione del carattere deontologicamente riprovevole delle stesse).

Riteneva che l’esercizio di una funzione rappresentativa dell’Avvocatura richiedesse un’applicazione particolarmente rigorosa del divieto di agire in conflitto di interessi (ex art. 24 del CDF), imponendo dunque l’astensione da tutte le situazioni in cui un Consigliere possa trovarsi, o anche solo apparire, in conflitto con gli interessi pubblici che è chiamato a tutelare in virtù della sua carica.

Quanto al trattamento sanzionatorio, giudicava grave ed idoneo a ledere l’immagine dell’Avvocatura il comportamento dell’incolpato, complessivamente valutato ai sensi dell’art. 21 CDF, e riteneva congrua la sanzione disciplinare della sospensione dall’esercizio della professione per la durata di anni 1 (uno).

5. L’avvocato impugnava tale decisione dinanzi al CNF.

6. Quest’ultimo rilevava preliminarmente d’ufficio l’intervenuta prescrizione dell’azione disciplinare ex art. 56 della L. 31.12.2012 n. 247 relativamente al capo di incolpazione sub n. 7.

Riteneva, al riguardo, che l’addebito formulato con il citato capo di incolpazione configurasse un illecito deontologico di natura istantanea che risultava consumato il 14.4.2016 e che era prescritto, essendo decorso il termine massimo di 7 anni e 6 mesi dalla commissione del fatto.

7. Respingeva, per il resto, l’eccezione di giudicato per essere stata, secondo la prospettazione del ricorrente, la questione del conflitto di interesse già trattata dal CNF nel procedimento n. 99/2017 R.G. tra le stesse parti e decisa con sentenza n. 85/2018, con conseguente formazione della cosa giudicata, tale da precludere ulteriori accertamenti in sede disciplinare.

Riteneva, infatti, che la questione del conflitto di interessi sulla quale si era pronunciato il CNF attenesse alla validità della procura processuale (e cioè alla procura alle liti conferita dagli avocat al difensore per impugnare avanti al CNF i provvedimenti di cancellazione dall’Albo – sezione speciale avvocati stabiliti emessi dal COA) e non già agli aspetti disciplinari.

8. Considerava, poi, infondato il rilievo con il quale il ricorrente aveva lamentato che le condotte contestate fossero sussumibili nel disposto tipizzato dell’art. 69, comma 1, CDF, comunque – a detta dell’incolpato – non violato nella circostanza (e neppure contestatogli).

Evidenziava, al riguardo, che la sussumibilità delle condotte tenute nel disposto tipizzato dell’art. 69, comma 1, CDF, non escludeva la responsabilità disciplinare dell’incolpato per la violazione di principii generali contenuti nel titolo I del Codice Deontologico Forense (arg. ex art. 20 CDF), come i contestati art. 9 e 19 CDF, o di disposizioni tipiche (come il contestato art. 24 CDF); secondariamente, non era indispensabile che il capo di incolpazione contenesse la contestazione specifica della norma violata (nella specie l’art. 69, comma 1, CDF), essendo sufficiente una chiara enunciazione delle condotte censurabili (che il giudice della disciplina avrebbe potuto giuridicamente inquadrare nel modo ritenuto più appropriato).

9. Riteneva, quanto agli ulteriori rilievi, che l’incolpato si fosse consapevolmente (art. 4 CDF) posto in una situazione di radicale e pervicace contrapposizione rispetto al COA di cui era Consigliere (e, sino al luglio 2016, Consigliere Segretario), in violazione degli artt. 9, 19 e 69, comma 1, CDF e in conflitto di interessi deontologicamente rilevante nel contesto dell’esercizio delle funzioni istituzionali dei Consiglieri dell’Ordine.

Contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente riteneva, poi, che le condotte dallo stesso poste in essere risultassero chiaramente connotate dal requisito della coscienza e volontà di cui all’art. 4 CDF e comunque evidenziava che gli elementi psicologici del dolo e della colpa non sono richiesti per la consumazione dell’illecito deontologico (ma rilevano, semmai, ai fini della dosimetria della sanzione ex art. 21 CDF).

Riteneva, nello specifico, corretto il trattamento sanzionatolo applicato in relazione alle accertate violazioni, ancorché al netto delle condotte sub 1 e sub 7 (prevedendo l’art. 24, comma 1, CDF la sanzione edittale della sospensione dall’esercizio della professione da uno a tre anni; l’art. 69, comma 1, CDF la sanzione edittale della censura, aggravabile, nei casi più gravi, fino alla sospensione dall’esercizio della professione per la durata non superiore a un anno).

Ad avviso del CNF il CDD di Messina aveva correttamente definito il complessivo comportamento dell’incolpato “grave ed idoneo a ledere l’immagine dell’Avvocatura”.

La prescrizione riferita ad un solo episodio non scalfiva tale convincimento atteso che il parziale accoglimento dell’impugnazione non imponeva una corrispondente riduzione della sanzione irrogata dal Consiglio territoriale, giacché questa è determinata non già per effetto di un mero computo matematico né in base ai principi codicistici in tema di concorso di reati, ma in ragione dell’entità della lesione dei canoni deontologici e della immagine della avvocatura alla luce dei fatti complessivamente valutati, sicché non sussiste violazione del divieto di reformatio in peius allorché la sanzione sia confermata in sede di gravame pur se una delle contestazioni precedentemente ritenuta sia venuta meno.

10. Contro tale sentenza l’Avv. (omissis) ha proposto ricorso per cassazione affidato a cinque motivi.

11. Gli intimati non hanno svolto attività difensiva.

12. L’Ufficio della Procura generale della Corte di cassazione ha presentato memoria chiedendo che questa Corte di cassazione voglia rigettare il ricorso dichiarandolo inammissibile o infondato.

13. Il ricorrente ha depositato memoria.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia: “Efficacia riflessa del giudicato – violazione del principio del giudicato esterno, ne bis in idem”.

Sostiene che nella sentenza del CNF n. 85 del 23.07.2018 (resa su ricorso di laureati in Giurisprudenza, tutti in possesso del titolo di “avocat” rilasciato in Romania dall’U.N.B.R. – “Struttura (omissis)”, avverso i provvedimenti del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Caltagirone con i quali era stata

disposta la loro cancellazione amministrativa dalla Sezione speciale Avvocati Stabiliti dell’Albo degli Avvocati tenuto da quell’Ordine, difesi dal ricorrente), confermata dalla Corte di Cassazione, il CNF ha escluso, con riferimento alla difesa dei ricorrenti, la sussistenza di un conflitto di interessi tale da comportare l’invalidità delle procure alle liti de quibus.

Tanto comporta, ad avviso dell’odierno ricorrente, che la sentenza passata in giudicato, non solo ha efficacia diretta tra le parti, ed i loro aventi causa, ma ha anche “efficacia riflessa” nei confronti di soggetti rimasti estranei al processo in cui è stata resa, se titolari di diritti dipendenti dalla (o comunque subordinati alla) situazione definita in quella lite.

La mancata efficacia del giudicato esterno al caso in oggetto determina, pertanto, la violazione del principio del ne bis in idem.

2. Il motivo è infondato.

Il fatto che sia stata esclusa con sentenza del CNF passata in giudicato -l’inammissibilità della procura (in ipotesi conferita in presenza di un conflitto di interessi) non preclude l’accertamento, in sede disciplinare, dell’esistenza di tale conflitto di interessi.

De resto, la stessa sentenza del CNF – confermata, poi, da questa Corte a Sezioni Unite -, là dove si è pronunciata sulla eccezione proposta dal Consiglio dell’Ordine relativa alla inammissibilità di molti dei ricorsi, per essere difensore negli stessi l’avv. A.A. , già Consigliere Segretario e poi Consigliere nel Consiglio dell’Ordine di Caltagirone, la cui volontà avrebbe contribuito a formare, se pure con voto dissenziente rispetto a quello della maggioranza, si riferisce solo alla validità, in sé, della procura processuale e non già agli aspetti disciplinari che restano, evidentemente, impregiudicati (tratto dalla sentenza del CNF n. 85 del 2018/ “Secondo i principi del codice del processo civile, cui il giudizio davanti al CNF si deve conformare, il comportamento dell’avv. (omissis) potrebbe rilevare ai sensi dell’art. 88 cod. proc. civ. ed ai conseguenti profili disciplinari: ma nessuna sanzione d’inammissibilità per gli atti difensivi compiuti in queste circostanze è prevista dalla legge”).

3. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia: “Eccesso di potere -violazione dell’art. 35 comma 1 lett. f) legge professionale”.

Censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto l’inapplicabilità del parere CNF n. 57/2019, citato dal ricorrente, parere che così recita: “È legittima e non sanzionabile ai sensi della legge 247/12 e del codice deontologico forense la condotta dell’avvocato consigliere dell’Ordine che assuma una difesa davanti al consiglio di disciplina del distretto al quale appartiene il consiglio dell’ordine del quale egli fa parte”.

Sostiene che il CNF in piena violazione dell’art. 35 della Legge professionale ha affermato che “detto parere non potrebbe giammai vincolare il giudice della disciplina chiamato in questa sede a decidere sulla fattispecie concreta (peraltro non sovrapponibile a quella dedotta in sede consultiva)”.

4. Il motivo è infondato.

Come condivisibilmente evidenziato dal PG, il CNF nell’esercizio del suo potere interpretativo, ha ritenuto, da un canto, di non essere vincolato in sede giurisdizionale ai pareri resi in via amministrativa; e, dall’altro, ancora prima, che comunque il parere nello specifico richiamato dal ricorrente riguardava fattispecie diversa e non sovrapponibile al caso al suo esame.

Nella pronuncia del CNF, dunque, non è ravvisabile alcuno sconfinamento dalle sue funzioni ma un giudizio di fatto e di diritto che rientra nelle sue prerogative in sede giurisdizionale.

5. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia: “Violazione e falsa applicazione dell’art. 24 Codice disciplinare forense”.

Rileva che, contrariamente a quanto affermato dal CNF, nessuna delle ipotesi di conflitto previste espressamente dal citato art. 24 (contenuta in un titolo che si riferisce ai rapporti avvocato-cliente) può configurarsi nella condotta contestata e sostiene che andasse fatta applicazione del secondo comma dell’art. 20 del Codice deontologico forense il quale prevede espressamente che alle violazioni ove non riconducibili alle ipotesi tipizzate di cui ai Titoli del Codice medesimo si applicano le sanzioni da determinarsi con i criteri di cui ai successivi artt. 21 e 22.

6. Il motivo è infondato.

L’art. 24 del Codice di disciplina forense disciplina il conflitto di interessi e prevede espressamente che: “1. L’avvocato deve astenersi dal prestare attività professionale quando questa possa determinare un conflitto con gli interessi della parte assistita e del cliente o interferire con lo svolgimento di altro incarico anche non professionale. 2. L’avvocato nell’esercizio dell’attività professionale deve conservare la propria indipendenza e difendere la propria libertà da pressioni o condizionamenti di ogni genere, anche correlati a interessi riguardanti la propria sfera personale. 3. Il conflitto di interessi sussiste anche nel caso in cui il nuovo mandato determini la violazione del segreto sulle informazioni fornite da altra parte assistita o cliente, la conoscenza degli affari di una parte possa favorire ingiustamente un’altra parte assistita o cliente, l’adempimento di un precedente mandato limiti l’indipendenza dell’avvocato nello svolgimento del nuovo incarico. 4. L’avvocato deve comunicare alla parte assistita e al cliente l’esistenza di circostanze impeditive per la prestazione dell’attività richiesta. 5. Il dovere di astensione sussiste anche se le parti aventi interessi confliggenti si rivolgano ad avvocati che siano partecipi di una stessa società di avvocati o associazione professionale o che esercitino negli stessi locali e collaborino professionalmente in maniera non occasionale. 6. La violazione dei doveri di cui ai commi 1, 3 e 5 comporta l’applicazione della sanzione disciplinare della sospensione dall’esercizio dell’attività professionale da uno a tre anni. La violazione dei doveri di cui ai commi 2 e 4 comporta l’applicazione della sanzione disciplinare della censura”.

Rientra, dunque, nell’ambito di tale previsione anche l’ipotesi in cui l’attività professionale interferisca “con lo svolgimento di altro incarico, anche non professionale” (comma 1), che consente di ritenere integrata la violazione sulla base delle condotte contestate all’avvocato.

Nello specifico il conflitto di interesse non si è determinato tanto per in fatto, in sé, di avere l’avv. (omissis)difeso parti contrapposte al COA ma per la situazione complessiva venutasi a creare all’interno dell’organo professionale a causa del chiaro ruolo svolto dall’avv. (omissis) di patrocinatore degli avocat provenienti dalla “Struttura (omissis)” (la cui “AE Associazione Avvocati Europei” aveva sede presso lo stesso studio del predetto avvocato in Caltagirone), per avere egli, in sede di consiglio, condotto una strenua opposizione al doveroso avvio dei procedimenti di verifica della legittimità dei titoli di abilitazione all’esercizio della professione rilasciati dalla “Struttura (omissis)”, per aver intralciato “volontariamente pregiudicato” – il regolare funzionamento del Consiglio omettendo di partecipare, quale Consigliere Segretario del COA, alle relative adunanze sin dal 2016 con la dichiarata motivazione del conflitto di interessi con la sua qualità di patrocinatore degli avocat.

Insomma, il complessivo comportamento dell’avv. (omissis) è stato tale da evidenziare un atteggiamento poco lineare ed opportunistico, così da essere significativo della volontà di trarre vantaggio da due situazioni diverse contemporaneamente, a discapito della chiarezza, della lealtà e della trasparenza delle azioni (per dirla in senso figurato, un “giocare su due tavoli”).

Si aggiunga che il CNF ha anche ravvisato la rispondenza delle condotte contestate all’avvocato alle previsioni di cui agli artt. 9 (doveri di probità, dignità, decoro e indipendenza), 19 (doveri di lealtà e correttezza verso i colleghi e le Istituzioni forensi) e 69 (obbligo per l’avvocato chiamato a far parte delle Istituzioni forensi di adempiere l’incarico con diligenza, indipendenza e imparzialità), oltre che dell’art. 24.

Come da questa Corte già affermato, peraltro, la mancata o erronea indicazione delle norme deontologiche che si assumono violate non incide sulla validità della contestazione, ai fini della quale è sufficiente una chiara individuazione dei fatti addebitati, tale da consentire all’incolpato di far valere le proprie ragioni (v. Cass., Sez. Un., n. 13456 del 29 maggio 2017 secondo cui: “Nel procedimento disciplinare a carico degli esercenti la professione forense, ai fini della contestazione, si deve aver riguardo alla specificazione del fatto più che all’indicazione della norma violata, sicché, ove il primo sia descritto in modo puntuale, neppure la mancata individuazione degli articoli di legge violati determina una nullità, nonostante l’art. 59, comma 1, lett. b), della L. n. 247 del 2012 prescriva che la comunicazione all’incolpato debba contenere in forma chiara e precisa gli addebiti, con le indicazioni delle disposizioni violate”; Cass., Sez. Un., n. 8313 del 25 marzo 2019 secondo cui: “Le previsioni del codice deontologico forense hanno natura di fonte meramente integrativa dei precetti normativi e possono ispirarsi legittimamente a concetti diffusi e generalmente compresi dalla collettività. Ne consegue che, al fine di garantire l’esercizio del diritto di difesa all’interno del procedimento disciplinare che venga intrapreso a carico di un iscritto al relativo albo forense è necessario che all’incolpato venga contestato il comportamento ascritto come integrante la violazione deontologica e non già il ‘nomen juris’ o la rubrica della ritenuta infrazione, essendo libero il giudice disciplinare di individuare l’esatta configurazione della violazione tanto in clausole generali, quanto in diverse norme deontologiche o anche di ravvisare un fatto disciplinarmente rilevante in condotte atipiche non previste da dette norme”).

In definitiva, l’adozione di iniziative professionali manifestamente incompatibili ed in frontale contrapposizione con la contraria esplicita volontà maggioritaria del Consiglio dell’Ordine di cui l’incolpato stesso era componente ma soprattutto le correlate evidenti interferenze nello svolgimento dell’incarico consiliare, chiaramente collegate e ‘piegatè alle suddette iniziative, hanno concretizzato il confitto di interessi ed altresì integrato la violazione del dovere di lealtà e correttezza verso le istituzioni forensi e dell’obbligo del componente di una istituzione forense di adempiere l’incarico con diligenza.

7. Con il quarto motivo il ricorrente denuncia: “Violazione dell’art. 21 Codice di disciplina forense per insussistenza del dolo e per mancata proporzionalità della sanzione applicata”.

Censura la sentenza impugnata là dove ha affermato che condotta dell’avvocato può configurare illecito disciplinare anche in assenza di dolo o colpa.

Assume che nessuna condotta deontologicamente scorretta è stata compiuta da esso ricorrente proprio con riferimento ai presupposti necessari per la configurazione del conflitto di interessi previsti dall’art. 24, comma 3.

Insiste per l’insussistenza delle circostanze soggettive ed oggettive per l’applicazione dell’art. 21 CDF e sottolinea la condotta precedente ai fatti dell’incolpato che in oltre 40 anni di professione non ha mai dato adito ad alcuna problematica disciplinare avendo rivestito cariche importanti sia presso il COA per oltre 10 anni, sia presso il Consiglio Giudiziario presso la Corte di Appello di Catania, avendo rivestito la carica di Vice Pretore per oltre un decennio e ricoperto la carica di Direttore della Scuola Forense dell’Ordine di Caltagirone.

Evidenzia che una sanzione, pur se comunque ingiusta, avrebbe dovuto essere proporzionata alla caratura professionale dell’incolpato per una condotta basata su una scelta giuridica (idoneità del titolo romeno) condivisa da altri COA.

8. Il motivo è infondato.

Si osserva che oggetto dei rilievi disciplinari non è, in sé, l’aver sostenuto l’avv. (omissis) giudizialmente l’idoneità del titolo in possesso dei soggetti dal medesimo difesi (e cioè una questione di mero diritto) ma l’essersi il predetto posto, con tale iniziativa giudiziale e soprattutto con le posizioni assunte in sede di riunioni consiliari posizioni ‘strenuamentè intese a ritardare i doverosi accertamenti afferenti l’illegittimità del titolo rilasciato dalla “Struttura (omissis)” (la cui “AE Associazione Avvocati Europei”, come sopra ricordato, aveva sede presso lo stesso studio) con ciò rendendo palese il conflitto di interessi che si era tradotto in una chiara interferenza con lo svolgimento dell’attività dell’organo consiliare con evidente pregiudizio per il funzionamento e l’immagine dello stesso.

Oggetto di contestazione è stato, del resto, il comportamento violativo dell’art. 24, nella parte in cui individua il conflitto di interessi anche là dove l’attività professionale interferisca “con lo svolgimento di altro incarico, anche non professionale” (comma 1) oltre che violativo delle disposizioni di cui agli artt. 9, 19 e 69 del medesimo Codice deontologico.

Si consideri che la previsione di cui all’art. 24 (in tutte le sue declinazioni) risponde all’esigenza di conferire protezione e garanzia non solo al bene giuridico dell’indipendenza effettiva e dell’autonomia dell’avvocato, ma, altresì, alla loro apparenza (in quanto l’apparire indipendenti è tanto importante quanto esserlo effettivamente), dovendosi in assoluto proteggere, tra gli altri valori, anche la dignità dell’esercizio professionale e l’affidamento della collettività sulla capacità degli avvocati di fare fronte ai doveri che l’alta funzione esercitata impone, quindi a tutela dell’immagine complessiva della categoria forense, in prospettiva ben più ampia rispetto ai confini di ogni specifica vicenda professionale.

L’art 24, evidentemente, va letto in combinato disposto con l’art. 9, rubricato “doveri di probità, dignità, decoro e indipendenza”, il quale dispone che l’avvocato debba esercitare l’attività professionale con indipendenza, lealtà, correttezza, probità, dignità, decoro, diligenza e competenza, tenendo conto del rilievo costituzionale e sociale della difesa, rispettando i principi della corretta e leale concorrenza. I suddetti doveri vanno osservati anche al di fuori dell’attività professionale.

Si osserva, poi, che l’art. 21 del Codice deontologico (potestà disciplinare) stabilisce che “spetta agli Organi disciplinari la potestà di applicare, nel rispetto delle procedure previste dalle norme, anche regolamentari, le sanzioni adeguate e proporzionate alla violazione deontologica commessa”, valutando “il comportamento complessivo dell’incolpato” ed irrogando un’unica sanzione anche quando siano contestati più addebiti nell’ambito del medesimo procedimento. La sanzione deve essere commisurata alla gravità del fatto, al grado della colpa, all’eventuale sussistenza del dolo ed alla sua intensità, al comportamento dell’incolpato, precedente e successivo al fatto, avuto riguardo alle circostanze, soggettive e oggettive, nel cui contesto è avvenuta la violazione.

Nella individuazione e graduazione della sanzione si deve altresì tenere conto del pregiudizio eventualmente subito dalla parte assistita e dal cliente, della compromissione dell’immagine della professione forense, della vita professionale, dei precedenti disciplinari.

La determinazione dell’entità della sanzione disciplinare adeguata e proporzionata, così come l’applicazione dell’aumento per i casi più gravi, ai sensi dell’art. 22, comma 2, del codice deontologico forense, costituiscono tipici apprezzamenti di merito, insindacabili in sede di legittimità, ove sorrette da motivazione congrua e immune da vizi logico-giuridici (Cass., Sez. Un., n. 21311 del 19 luglio 2023Cass., Sez. Un., n. 1609 del 24 gennaio 2020).

Essendo allora previsto espressamente che la sanzione comminata vada commisurata proprio alla sussistenza del dolo e della colpa, nessun rilievo può muoversi alla sentenza impugnata lì dove ha affermato che, ai sensi del suddetto art. 21, il grado della colpa e l’intensità del dolo sono rilevanti ai fini della commisurazione della sanzione, una volta che, come nel caso al suo esame, le condotte contestate risultino “chiaramente connotate dal requisito della coscienza e volontà” richiesti dall’art. 4, comma 1, del Codice deontologico – volontarietà dell’azione – (“La responsabilità disciplinare discende dalla inosservanza dei doveri e delle regole di condotta dettati dalla legge e dalla deontologia, nonché dalla coscienza e volontà delle azioni od omissioni”).

Per integrare un illecito disciplinare sotto il profilo soggettivo, è sufficiente la c.d. suitas ovvero la volontà consapevole dell’atto che si compie, non risultando necessaria, ai fini dell’imputabilità dell’infrazione disciplinare, l’elemento intenzionale del dolo e da quello della colpa, essendo sufficiente la volontarietà dell’azione che ha dato luogo al compimento di un atto deontologicamente scorretto.

La giurisprudenza di questa Corte ha, infatti, affermato che in tema di responsabilità disciplinare dell’avvocato, in base all’art. 4 del nuovo codice deontologico forense, la coscienza e volontà consistono nel dominio anche solo potenziale dell’azione o omissione, per cui vi è una presunzione di colpa per l’atto sconveniente o vietato a carico di chi lo abbia commesso, il quale deve dimostrare l’errore inevitabile, cioè non superabile con l’uso della normale diligenza, oppure la sussistenza di una causa esterna, mentre non è configurabile l’imperizia incolpevole, trattandosi di professionista legale tenuto a conoscere il sistema delle fonti (che la coscienza e volontà consistono nel dominio anche solo potenziale dell’azione o omissione, per cui vi è una presunzione di colpa per l’atto sconveniente o vietato a carico di chi lo abbia commesso. Quest’ultimo deve dimostrare l’errore inevitabile, cioè non superabile con l’uso della normale diligenza, oppure la sussistenza di una causa esterna, mentre non è configurabile l’imperizia incolpevole, trattandosi di professionista legale tenuto a conoscere il sistema delle fonti (Cass., Sez. Un., n. 13456 del 21 marzo 2017Cass., Sez Un., n. 8242 del 28 aprile 2020Cass., Sez. Un., n. 20877 del 9 luglio 2024).

Inoltre, è stato precisato che la valutazione del Consiglio nazionale forense in ordine alla sussistenza dell’elemento sia materiale che psicologico (concretantesi, di norma, nella coscienza e volontarietà dell’azione o dell’omissione) dell’illecito disciplinare addebitato al professionista è incensurabile in sede di legittimità, in quanto sorretta da motivazione adeguata ed immune da errori (Cass., Sez. Un., n. 12140 del 2 luglio 2004).

Secondo la giurisprudenza consolidata (Cass., Sez. Un., n. 24285 del 10 settembre 2024Cass., Sez. Un., 18395, del 20 settembre 2016; Cass., Ssez. Un., n. 15203 del 22 luglio 2016), le decisioni del Consiglio nazionale forense in materia disciplinare sono impugnabili dinanzi alle Sezioni Unite della Corte di cassazione soltanto per incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge, con la conseguenza che l’accertamento del fatto, l’apprezzamento della sua rilevanza rispetto alle imputazioni, la scelta della sanzione opportuna e, in generale, la valutazione delle risultanze processuali non possono essere oggetto del controllo di legittimità, salvo che si traducano in un palese sviamento di potere, ossia nell’uso del potere disciplinare per un fine diverso da quello per il quale è stato conferito (cfr. anche Cass., Sez. Un., n. 2637 del 4 febbraio 2009).

È stato, altresì, puntualizzato che: “nei procedimenti disciplinari a carico di avvocati, l’apprezzamento della gravità del fatto e della condotta addebitata all’incolpato, rilevante ai fini della scelta della sanzione opportuna, ai sensi dell’art. 22 del codice deontologico forense, è rimesso all’Ordine professionale, ed il controllo di legittimità sull’applicazione di tale norma non consente alla Corte di cassazione di sostituirsi al Consiglio nazionale forense nel giudizio di adeguatezza della sanzione irrogata, se non nei limiti di una valutazione di ragionevolezza, che attiene non alla congruità della motivazione, ma all’individuazione del precetto e rileva, quindi, ex art. 360, n. 3, cod. proc. civ.” (Cass., Sez. Un., n. 6967/2017Cass., Sez. Un., n. 24647/2016) ed aggiunto che: “il giudice innanzi al quale è impugnata la sanzione irrogata non può sostituirsi al Consiglio dell’Ordine nella valutazione della sua adeguatezza, se non nei limiti della ragionevolezza, nei casi in cui il potere disciplinare sia stato usato per un fine diverso da quello per il quale è stato conferito (Cass., Sez. Un., n. 2032/2023)”.

Posti nei termini indicati i limiti del giudice di legittimità (v. anche Cass., Sez. Un., n. 24181 dell’8 agosto 2023), deve ritenersi che nel caso in esame non soltanto non è possibile per il Giudice di legittimità rivalutare, in termini di adeguatezza della sanzione inflitta, la decisione assunta dal CNF, ma che la stessa risulta peraltro coerente con l’intera motivazione della sentenza impugnata così da resistere alle censure di cui al motivo di ricorso che, sotto le mentite spoglie della violazione delle norme deontologiche, tende, in realtà, lamentando anche il difetto di proporzionalità tra condotta e sanzione, ad ottenere dalla Corte una inammissibile rivalutazione nel merito della fattispecie.

9. Con il quinto motivo il ricorrente denuncia la violazione dell’art. 21 del Codice deontologico forense sotto il profilo della violazione del “principio di colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio”.

Sostiene che, ai fini della condanna disciplinare la prova della responsabilità dell’incolpato deve essere raggiunta oltre ogni ragionevole dubbio (CNF sentenza n. 139 del 18.04.2024).

Assume, riportandosi a quanto già illustrato in riferimento al quarto motivo di ricorso, che, nello specifico: – non risulta alcuna inosservanza cosciente e volontaria delle regole di condotta di cui all’art. 24 CDF, come previsto dall’art. 4 CDF; – nessuna attività posta in essere dall’incolpato configura attività incompatibili con la permanenza dell’iscrizione all’albo, di cui al contestato art. 6 CDF, atteso che nessuna delle condotte di cui al capo di incolpazione rientra tra quelle espressamente previste dall’art. 18 della L. 247/12; – nessuna delle condotte contestate all’avv. A.A. configura la violazione dell’art. 24 CDF, e conseguente non si ravvisa alcuna violazione dei di cui ai contestati artt. 9 CDF e 19 CDF.

10. Il motivo è infondato.

Oltre a quanto considerato ai punti sub 6. e sub 8. che precedono, va ricordato che, secondo la giurisprudenza consolidata di queste Sezioni Unite le decisioni del CNF in materia disciplinare, quanto all’accertamento del fatto, all’apprezzamento della sua rilevanza rispetto alle imputazioni, alla scelta della sanzione opportuna e, in generale, alla valutazione delle risultanze processuali non possono essere oggetto del controllo di legittimità, salvo che si traducano in un palese sviamento di potere, ossia nell’uso del potere disciplinare per un fine diverso da quello per il quale è stato conferito; e non è quindi consentito alle Sezioni Unite sindacare, sul piano del merito, le valutazioni del giudice disciplinare, dovendo la Corte limitarsi ad esprimere un giudizio sulla congruità, sulla adeguatezza e sulla assenza di vizi logici della motivazione che sorregge la decisione finale (cfr. Cass., Sez. Un., n. 11519 del 2 maggio 2025Cass., Sez. Un., n. 20344 del 31 luglio 2018).

Pertanto, l’accertamento del fatto e l’apprezzamento della sua gravità ai fini della concreta individuazione della condotta costituente illecito disciplinare e della considerazione dell’adeguatezza della sanzione irrogata non possono essere oggetto del controllo di legittimità, se non nei limiti di una valutazione di ragionevolezza.

La censura, più che concretare una ipotesi di violazione di legge, attinge l’accertamento del fatto, la sua gravità e la valutazione dell’adeguatezza della sanzione irrogata, rimessi all’Ordine professionale. Nella specie, tuttavia non sono ravvisabili vizi in ordine a tali profili, atteso che la sentenza del CNF ha esaminato in modo coordinato e con ampia motivazione la pluralità di elementi storici risultanti dagli atti di causa ed illustrati dalle parti, e ha indicato in modo argomentato e specifico le fonti di convincimento provvedendo a determinare la sanzione con riguardo al caso concreto.

Come già sopra ricordato, il controllo di legittimità sull’applicazione di tali norme non consente alla Corte di cassazione di sostituirsi al CNF nel giudizio di adeguatezza della sanzione irrogata, essendo positiva la valutazione di ragionevolezza in ordine all’individuazione del precetto, alla gravità del fatto ed alla adeguatezza all’accertata gravità della sanzione.

Nello specifico la sentenza impugnata ha proceduto ad una puntuale disamina degli elementi di prova ed ha dato conto, seguendo un rigoroso e coerente percorso logico giuridico, delle ragioni fondanti la sussistenza degli illeciti disciplinari. Dalla motivazione adottata si evincono in modo chiaro le ragioni che hanno indotto il CNF, pur con la dichiarata intervenuta prescrizione dell’azione disciplinare con riferimento al capo di incolpazione n. 7, a confermare l’applicazione della sanzione della sospensione dall’esercizio della professione per anni 1 (uno).

A fronte di tale impianto argomentativo, le censure mosse si limitano a criticare la valutazione del materiale probatorio come eseguita dal CNF e a sollecitare un diverso apprezzamento, peraltro veicolato in maniera astratta e ipotetica. In tal modo, esse si collocano all’esterno del perimento di cui all’art. 360 n. 5 cod. proc. civ., come definito da questa S.C. (cfr. Cass., Sez. Un., n. 8053 e n. 8054 del 2014) e neppure attingono la violazione dell’art. 132 n. 4 c.p.c. nella misura del mancato rispetto, nell’obbligo di motivazione, del c.d. minimo costituzionale.

Le censure sono inammissibili anche nella parte in cui investono l’accertamento della gravità del fatto e la valutazione di adeguatezza della sanzione, profili entrambi rimessi all’Ordine professionale e sui quali il controllo di legittimità può svolgersi solo nei limiti di una valutazione di ragionevolezza (Cass., Sez. Un., n. 20344 del 3 luglio 2018), nella specie certamente positiva alla luce dello svolgimento argomentativo della decisione impugnata.

11. Per le ragioni esposte, il ricorso deve essere rigettato.

12. Non occorre provvedere sulle spese del giudizio di cassazione, in quanto l’intimato Ordine degli Avvocati di Caltagirone non ha svolto difese.

13. Il rigetto del ricorso costituisce presupposto processuale per il raddoppio del contributo unificato, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115 del 2002 (cfr. Cass. S.U. n. 4315 del 2020).

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; nulla per le spese.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.

Dispone che, ai sensi dell’art. 52 D.Lgs. n. 196 del 2003, siano omessi le generalità e gli altri dati identificativi del ricorrente, in caso di diffusione del presente provvedimento.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 27 maggio 2025.

Depositato in cancelleria il 26 settembre 2025.

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