Svolgimento del processo
1. – Il Consiglio distrettuale di disciplina forense di Roma, con decisione del 16 novembre 2023, irrogò all’avv. (omissis) la sanzione disciplinare della sospensione dall’esercizio della professione forense per anni uno in ragione della ritenuta sussistenza di quattro addebiti disciplinari sui sette originariamente contestati a seguito dell’esposto presentato da (omissis)
1.1. – In particolare, l’avv. (omissis) fu ritenuto responsabile:
a) “1. Per non aver iscritto a ruolo n. 12 giudizi per i quali aveva avuto espressa procura alle liti, così violando gli artt. 9 – comma I -, 10, 12, 26 – Comma III – del codice deontologico forense. Fatti commessi in Roma nei mesi di settembre, ottobre e novembre 2018”;
b) “3. Per aver richiesto l’emissione e comunque per aver ricevuto n. 5 assegni post datati (Euro 6.000,00 del 06.04.2019 n. (omissis) Unicredit, Euro 6.000,00 del 12.04.2019 n. (omissis) – Unicredit; Euro 12.000,00 del 18.04.2020 n. (omissis), Unicredit; Euro 19.000,00 del 02.01.2021 n. (omissis) Unicredit; Euro 6.000,00 del 02.01.2022 n. (omissis) Unicredit), e così violando gli artt. 9 – comma I -, 16 – comma I -, del codice deontologico forense. Fatto commesso in Roma a fine 2018/inizio 2019;
c) “4. Per aver incassato l’importo di Euro 33.000,00 e, precisamente, Euro 12.000,00 con assegno in data 19.09.2018; Euro 2.000,00 con assegno in data 19.09.2018; Euro 3.500,00 con assegno in data 28.11.2018; Euro 5.500,00 con assegno in data 28.11.2018; Euro 10.000,00 con bonifico bancario in data 20.09.2019 e quindi: i) senza emettere fattura, così violando gli artt. 9 – comma I -, 16 – comma I -, e 29 – comma III -, del codice deontologico forense. Fatti commessi in Roma alle date dei singoli pagamenti e ii) richiedendo una somma sproporzionata alla luce dell’effettivo mandato espletato, così violando l’art. 29 – commi I e IV – del codice deontologico forense. Fatti commessi in Roma alle date dei singoli pagamenti”;
d) “6. Per aver promosso atto di precetto su n. 2 assegni Unicredit n. (omissis) di Euro 6.000,00 del 06.04.2019 e n. (omissis) di Euro 6.000,00 del 12.04.2019, nei confronti della sig.ra (omissis), asserendo di essere creditore della somma di Euro 12.000,00 per compensi professionali, malgrado il plurimo mancato adempimento al mandato e malgrado avesse garantito di restituire alla (omissis) anche gli assegni suindicati, Così violando gli artt. 63 – Comma I e 64 – comma I del codice deontologico forense. Fatto commesso in Roma in data 31.05.2019, data dell’atto di precetto”.
2. – Il gravame avverso tale decisione veniva rigettato dal Consiglio nazionale Forense (C.N.F.), con sentenza resa pubblica in data 27 febbraio 2025.
2.1. – Il C.N.F. riteneva, anzitutto, di non poter prendere in considerazione i “due motivi nuovi e relativi alla nullità degli addebiti di cui ai capi 1 e 6 per difetto di specificità dei fatti contestati”, in quanto proposti non già con l’originario ricorso, ma soltanto con la memoria di costituzione di nuovo difensore del 13 gennaio 2025, così da essersi consumato il diritto di impugnazione.
2.2. – In riferimento ai singoli addebiti disciplinari, il C.N.F. osservava che il fatto di cui al capo 1 di incolpazione (non aver promosso i giudizi) era supportato da documentazione allegata all’esposto, alla cui acquisizione l’avv. (omissis) aveva “espressamente prestato consenso”. Inoltre, il “presunto accordo con la cliente sulla non necessità di promuovere i giudizi”, per averne la stessa raggiunto lo scopo, ossia “quello di risultare erede presso i pubblici uffici al fine di vendere i beni ereditari”, era smentito sia dal “fatto che ben otto degli atti introduttivi recano data successiva” alla trascrizione in Conservatoria dell’accettazione espressa dell’eredità avvenuta, in favore della cliente, in data 11 ottobre 2018, sia “dagli audio allegati da ultimo dall’esponente nei quali inizialmente l’avv. (omissis) prova a sostenere di aver iscritto tutti i giudizi per poi trovarsi impreparato dinanzi all’obiezione della (omissis) di aver appreso direttamente in cancelleria dell’esistenza di soli n. 5 giudizi”.
Quanto al capo 3 di incolpazione (aver accettato assegni post-datati), il giudice disciplinare reputava che il fatto, “nonostante alcune “incongruenze” e “ritrattazioni” dell’incolpato nel corso dell’istruttoria”, fosse chiaramente provato dalle ammissioni dell’avv. (omissis) e dalla circostanza, integrante “piena confessione”, della restituzione alla (omissis) di “tre degli assegni post-datati di cui in contestazione”.
Il C.N.F., quanto al capo 4 di incolpazione (non avere emesso le fatture ed avere richiesto compensi sproporzionati), evidenziava che le “regolari fatture”, contraddistinte ai numeri 73, 74 e 75 del 2018 e denominate “parcelle”, tali non erano, giacché non solo la numerazione era irregolare, ma, in particolare, non risultavano “conteggiate né i.v.a. né c.p.a. e si fa un generico riferimento a “spese vive” che non vengono esposte”. Inoltre, sussisteva prova “dell’incasso, da parte dell’incolpato, di compensi eccessivi e sproporzionati”, che trovava evidenza non solo nel provvedimento di archiviazione del G.I.P. del Tribunale di Roma nel procedimento n. 20615/2019 (promosso su querela della cliente per il reato di truffa), ma anche in ragione, “da una parte, del contenuto minimale e ripetitivo degli atti introduttivi dei cinque giudizi promossi e del loro esito totalmente sfavorevole e, dall’altra, dell’assenza di documentazione comprovante eventuale diversa ed ulteriore attività difensiva, sia giudiziale che stragiudiziale”.
Con riferimento all’addebito di cui al capo d’incolpazione 6 (notifica dell’atto di precetto per prestazioni non eseguite), il giudice disciplinare riteneva non verosimile la difesa dell’incolpato fondata sull’assunto che “i due assegni in forza dei quali egli ha notificato l’atto di precetto non siano stati post-datati ma emessi a pagamento delle sue spettanze dopo la revoca del mandato, dal momento che la fattura n. 17/2019, che l’incolpato assume avere emesso a fronte del pagamento delle sue spettanze mediante i due assegni, reca data anteriore a quella portata dai due assegni”.
3. – Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso l’avv. (omissis), affidando le sorti dell’impugnazione a tre motivi.
Il ricorrente ha, altresì chiesto, in via cautelare, la sospensione dell’esecutorietà della sentenza impugnata, assumendo sussistere sia il fumus boni iuris, “in ordine alla prevedibile fondatezza della censura proposta”, sia il periculum in mora, poiché la esecuzione della sanzione inflitta, pur se di durata temporanea (dodici mesi), “è idonea a produrre effetti ulteriori ed irreparabili, finendo per cagionare un pregiudizio definitivo e comunque assai difficilmente rimediabile”.
3.1. – Non ha svolto attività difensiva in questa sede l’intimato Consiglio dell’ordine degli avvocati di Roma.
Non ha depositato memoria il pubblico ministero.
Motivi della decisione
1. – Con il primo mezzo è denunciata, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., “violazione o falsa applicazione di norme di diritto, in relazione agli art. 58 e 59 L. 247/2012, dovendosi ritenere la decisione assunta con una motivazione apparente, contraddittoria ed illogica in riferimento ad un addebito che difetta di specificità, con conseguente violazione del principio di correlazione tra incolpazione e decisione (art. 522 c.p.p.), e in relazione agli artt. 24 e 111 Cost. per violazione del diritto di difesa e del giusto processo”.
La censura del ricorrente investe la decisione del C.N.F. di ritenere inammissibile l’esame dei “motivi di impugnazione dedotti nella memoria di costituzione di nuovo difensore, ulteriori e diversi rispetto ai motivi contenuti nel ricorso”.
L’avv. (omissis) sostiene che non si tratti “di motivi nuovi, bensì di eccezione di nullità della decisione di primo grado, per difetto di correlazione tra incolpazione e decisione, eccepibile in qualunque stato e grado di merito”, giacché la violazione dell’art. 522 c.p.p., verificatasi in primo grado, configura una nullità della sentenza a regime intermedio, che “può essere dedotta fino alla deliberazione della sentenza nel grado successivo”, come affermato dalla giurisprudenza penale di legittimità “(Cass. pen., sez. IV, 29 marzo 2017, n. 19043; Cass. pen., sez. VI, 12 luglio 2012, n. 31436)”.
Ciò posto, il ricorrente – nel rammentare che ai sensi dell’art. 21 del Regolamento CNF 2/2014 la citazione notificata all’incolpato deve contenere “l’enunciazione in forma chiara e precisa degli addebiti” – assume che il capo 1 di incolpazione risulterebbe “del tutto privo del requisito di specificità, così come la conseguente motivazione, non comprendendosi quali siano le azioni giudiziarie in concreto omesse”.
Del pari “incerto e privo di specificità” sarebbe anche il capo 6 di incolpazione, avendo esso incolpato, in base alla disciplina recata dall’art. 1193 c.c. – secondo la quale, in presenza di una pluralità di rapporti obbligatori, “se il debitore non si avvale della facoltà di dichiarare quale debito intenda soddisfare la scelta spetterà al creditore” – “imputato il pagamento alle prestazioni oggetto della fattura n. 17 del 2019, non contestata dalla cliente in quanto la prestazione è stata effettivamente svolta, il pagamento è stato correttamente chiesto, ma mai effettuato”.
Inoltre, il ricorrente afferma essere sussistente la violazione dell’art. 522 c.p.p. poiché “il capo di incolpazione relativo alla prosecuzione dei giudizi era del tutto generico, non indicando di quali giudizi si trattasse”, né vi erano “elementi agli atti da cui desumere che l’incolpato si sia potuto difendere su tutti i singoli atti di citazione, in quanto imprecisati”. E su tali aspetti – conclude l’avv. (omissis) – “le motivazioni dei giudici di merito sono del tutto assenti”.
1.1. – Il motivo è infondato.
1.1.1. – Va, anzitutto, precisato che, nonostante il ricorrente evochi la violazione del principio di correlazione tra contestazione e sentenza (ex art. 521 c.p.p.), richiamando la sanzione della nullità di cui all’art. 522 c.p.p., la doglianza – come emerge dalla sostanza delle ragioni poste a sostegno del motivo di impugnazione e innanzi sintetizzate – attiene, piuttosto, al difetto di specificità della contestazione, di cui al (pur richiamato) art. 59 della legge n. 247/2012, che al comma 2, lett. d) n. 2, richiede che la citazione a giudizio disciplinare deve contenere (per quanto interessa in questa sede) “l’enunciazione in forma chiara e precisa degli addebiti, con le indicazioni delle norme violate”.
Del resto, è in siffatti termini – coerentemente con la sostanza delle veicolate censure – la decisione del C.N.F. impugnata in questa sede, che, come già evidenziato, ha escluso di poter pronunciare sui “due motivi nuovi e relativi alla nullità degli addebiti di cui ai capi 1 e 6 per difetto di specificità dei fatti contestati” (p. 6 sentenza C.N.F.).
Nondimeno, anche quanto rappresentato dall’avv. (omissis) a p. 8 del ricorso si presta ad una inequivoca lettura in questo stesso senso, avendo egli evidenziato che “(i)l 13 gennaio 2025, perveniva memoria di costituzione di nuovo difensore, con la quale si insisteva per l’accoglimento del ricorso e, a parere del Consiglio Nazionale Forense, venivano proposti due motivi nuovi e relativi alla nullità dell’addebito disciplinare sub 1) e sub 6) per difetto di specificità, essendovi assoluta incertezza sui fatti oggetto di contestazione, tale da impedire ogni facoltà difensiva”.
Non è, pertanto, scrutinabile il motivo come volto a denunciare la violazione del principio di correlazione tra contestazione e sentenza, mutuato dal rito penalistico, alle cui norme rinvia il citato art. 59, comma 2, lett. n), nei limiti della compatibilità, che, a tal riguardo, è senz’altro configurabile.
Questa Corte ha, infatti, affermato, in più di un’occasione (tra le altre, Cass., S.U., n. 412/2020), che nel procedimento disciplinare a carico degli avvocati trovano applicazione, quanto alla procedura, le norme particolari che, per ogni singolo istituto, sono dettate dalla legge professionale e, in mancanza, dal codice di procedura civile, mentre le norme del codice di procedura penale si applicano soltanto nelle ipotesi in cui la legge professionale vi faccia espresso rinvio, ovvero allorché sorga la necessità di applicare istituti che hanno il loro regolamento esclusivamente nel codice di procedura penale.
1.1.2. – La giurisprudenza penale di legittimità ha precisato che ai fini della contestazione dell’accusa ciò che rileva è la compiuta descrizione del fatto, non già l’indicazione degli articoli di legge che si assumono violati (analogamente queste stesse Sezioni Unite civili in tema di disciplinare avvocati: tra le altre, Cass., S.U., n. 13456/2017), altresì puntualizzando che il requisito della “enunciazione del fatto”, imposto a pena di nullità dall’art. 555, comma 1, lett. c), e comma secondo, c.p.p., per il decreto di citazione a giudizio, “ha la funzione di informare l’imputato circa il tenore delle accuse che gli vengono mosse al fine di consentirgli l’esercizio del diritto di difesa. Esso, pertanto, può dirsi soddisfatto quando il fatto addebitato sia enunciato in modo tale che l’interessato ne abbia immediata e compiuta conoscenza” (così Cass., S.U. pen., n. 18/2000; successivamente, tra le molte, Cass. pen. n. 30141/2019; cfr. anche Corte EDU, Drassich c. Italia, 22 febbraio 2018, n. 65173/09).
Quanto, invece, al principio di correlazione tra l’imputazione contestata e la sentenza (art. 521 c.p.p.) ciò che ne determina la violazione è la diversità del fatto accertato rispetto a quello contestato (tra le molte, Cass. pen. n. 43336/2016; cfr. anche Corte EDU, Drassich c. Italia, 12 novembre 2007, n. 25575/2004). Sicché, ciò che viene in rilievo a tal fine non è la contestazione di un fatto in maniera generica e tale da non rendere edotto l’imputato del tenore delle accuse rivoltegli, bensì, sulla scorta di un fatto contestato in modo specifico (o, comunque, tale da non comportare il citato vulnus informativo, incidente sul diritto di difesa), l’addebito di un fatto diverso rispetto a quello oggetto della contestazione.
In altri termini, la genericità colpisce l’atto di accusa (richiesta di rinvio a giudizio, decreto che dispone il giudizio, citazione diretta), per carenza di “chiarezza e precisione” nella descrizione del fatto (tempo, luogo, modalità, circostanze e norme violate). È un vizio dell’atto che pregiudica la conoscenza dell’accusa e si traduce in nullità a regime intermedio (artt. 417, 429, 552 c.p.p., in relazione all’art. 178, lett. c), c.p.p.) da far valere tempestivamente (art. 181, co. 3, c.p.p., in limine iudicii per il decreto che dispone il giudizio; entro il primo grado per la citazione diretta).
La correlazione attiene, invece, al rapporto tra accusa cristallizzata e decisione: essa è violata se la sentenza condanna per un fatto diverso (o per aggravante/reato concorrente) non formalmente contestato secondo gli artt. 516–518 c.p.p., salvo mera riqualificazione in iure che non leda la difesa (art. 521 c.p.p.).
Diverso è, dunque, nei casi menzionati il regime delle nullità.
La violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza integra una nullità a regime intermedio (artt. 180 e 522 c.p.p.) che, in quanto verificatasi in primo grado, può essere dedotta fino alla deliberazione della sentenza nel grado successivo o, comunque, rilevata d’ufficio dal giudice d’appello ogni qual volta è investito, con l’atto di impugnazione, della richiesta di verificare la sussistenza dell’addebito, ma non può essere dedotta per la prima volta in sede di legittimità (Cass. pen. n. 43336/2016; Cass. pen. n. 19043/2017).
La generica enunciazione del fatto integra, invece, una ipotesi di nullità relativa dell’atto di vocatio (decreto che dispone il giudizio o citazione), da dichiararsi se tempestivamente dedotta (art. 181, comma 3, c.p.p.), altrimenti restando sanata (Cass. pen. n. 28512/2014).
Va, peraltro, osservato, in relazione al capo di imputazione generico, che nel corso del giudizio l’oggetto dell’accusa può essere specificato fisiologicamente (ad es. per chiarimenti istruttori).
Se ciò avviene senza trasformare il nucleo storico del fatto, non si pone un problema di violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza: si tratta di specificazione lecita, con controllo in concreto sul pregiudizio difensivo.
Se, invece, la sentenza introduce per la prima volta circostanze essenziali (modi dell’azione, regole cautelari, tempi/luoghi decisivi) che modificano gli elementi identificativi del fatto e sorprendono la difesa, allora si configura mutamento del fatto e violazione del principio di correlazione (artt. 521–522 c.p.p.; Cass., S.U. pen., n. 36551/2010).
Il vaglio, quindi, resta concreto: occorre verificare se l’imputato abbia avuto concrete possibilità di difendersi su tali profili nel corso del processo (Cass., S.U. pen., n. 36551/2010; cfr. anche Corte EDU, Pélissier e Sassi c. Francia, 25 marzo 1999).
1.1.3. – Ciò posto, nella specie, il regime applicabile è quello della nullità relativa per denuncia di genericità della contestazione mossa con la citazione a giudizio, ex art. 59, comma 2, lett. d), n. 2, della legge n. 247/2012, che, dunque, rinviene la propria disciplina dell’art. 181, comma 3, c.p.p.
Pertanto, l’avv. (omissis) avrebbe dovuto eccepire detta nullità dinanzi al C.D.D. di Roma o, comunque, farne oggetto di tempestivo motivo di impugnazione della decisione resa dal C.D.D. dinanzi al C.N.F., ove si è instaurata la fase giurisdizionale del procedimento disciplinare, non potendo lo stesso C.N.F. rilevare d’ufficio l’anzidetta nullità relativa.
È, quindi, corretta la decisione del C.N.F. di non esaminare i motivi di nullità della contestazione per difetto di specificità veicolati dall’incolpato soltanto con la memoria del 13 gennaio 2025, successiva alla proposizione del ricorso.
Va, infatti, ribadito il principio per cui, in tema di procedimento disciplinare a carico degli avvocati, la prima fase avanti al consiglio distrettuale di disciplina ha carattere amministrativo, mentre il successivo ricorso al Consiglio nazionale forense assume natura e funzione propriamente giurisdizionali e l’atto deve contenere la specifica indicazione dei motivi sui quali si fonda, con la conseguenza che non possono proporsi motivi nuovi di impugnazione con atti successivi al ricorso e che i medesimi, se proposti, devono essere dichiarati inammissibili anche d’ufficio (Cass., S.U., n. 9949/2024).
1.1.4. – Il Collegio ritiene, in ogni caso, di evidenziare che il fondo delle doglianze proposte dal ricorrente è privo di consistenza.
Va, infatti, rammentato che, in tema di giudizio disciplinare nei confronti di professionista, la formale incolpazione non richiede una minuta, completa e particolareggiata esposizione delle modalità dei fatti che integrano l’illecito e l’indagine volta ad accertare la correlazione tra addebito contestato e decisione disciplinare non va fatta alla stregua di un confronto meramente formale, dovendosi piuttosto dare rilievo all’iter del procedimento e alla possibilità che l’incolpato abbia avuto di avere conoscenza dell’addebito e di discolparsi, potendo essere valorizzati anche elementi non desumibili direttamente dal testo della formale incolpazione, sebbene di essi è necessaria una adeguata ricognizione e una valutazione della loro idoneità ad esplicitare ed integrare il capo di incolpazione (Cass., S.U., n. 17827/2007; Cass., S.U., n. 13456/2017).
Sicché, ai fini della palese infondatezza delle doglianze di genericità della contestazione degli illeciti disciplinari, è sufficiente rilevare: a) quanto al capo 1) di incolpazione, che gli atti di citazione non iscritti a ruolo erano allegati all’esposto della (omissis) e l’avv. (omissis) aveva espressamente acconsentito alla relativa acquisizione in giudizio (p. 8 della sentenza del C.N.F.); b) quanto al capo 6) di incolpazione, il rilievi difensivi che fanno leva sulla disciplina dell’imputazione di pagamento (art. 1193 c.c.) sono in diritto e non attengono al profilo fattuale della contestazione, che nel suo confezionamento risulta affetto specifica, recando l’indicazione del numero e dell’importo degli assegni oggetto dell’atto di precetto.
2. – Con il secondo mezzo è dedotta, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., “violazione o falsa applicazione di norme di diritto, in relazione all’art. 36 L. 247/2012, dovendosi ritenere la decisione assunta con una motivazione apparente, contraddittoria ed illogica, in violazione degli artt. 24 e 111 Cost. avendo ritenuto il CNF, con omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, che “l’accettazione espressa dell’eredità venne trascritta in Conservatoria, in favore della cliente, l’11 ottobre 2018, come risulta dal certificato di denuncia di successione depositato dallo stesso incolpato”, quando, in realtà, si legge nel medesimo atto che la dichiarazione di successione sostitutiva era stata registrata all’Ufficio Registro Successioni di Roma 3 – Settebagni in data 11 novembre 2019 al n. 344741 vol. 88888, trascritta presso la Conservatoria dei Registri Immobiliari di Roma 2 il 3 dicembre 2019, ai n. 59522/41632. Eccesso di potere per travisamento dei fatti”.
Il ricorrente sostiene che la decisione del C.N.F. in riferimento all’addebito disciplinare di cui al capo 1 di incolpazione si fonderebbe su “un dato radicalmente travisato, avendo preso, quale parametro della credibilità dell’incolpato, la iniziale denuncia di successione ((effettivamente, trascritta l’11 ottobre 2018)) e non quella rettificata (in data 3 dicembre 2019) dalla stessa esponente”; rettifica che, pertanto, rendeva “inutile la attivazione dei giudizi per i quali era stato conferito il relativo mandato” e, quindi, costituiva anche prova dell’accordo in tal senso intervenuto tra esso legale e la cliente.
2.1. – Il motivo è in parte infondato e in parte inammissibile.
È infondato quanto alla censura di motivazione “apparente”, giacché la decisione del C.N.F. è sorretta da un apparato argomentativo – riportato al par. 2.2. dei “fatti di causa”, cui si rinvia (cfr. anche pp. 8 e 9 sentenza C.N.F.) – ben al di sopra del c.d. “minimo costituzionale” e che si appalesa privo di intrinseche aporie, non potendo la dedotta censura fondarsi sul richiamo di elementi estrinsechi alla motivazione della sentenza (Cass., S.U., n. 8053/2014).
Per il resto, sono veicolate doglianze inammissibili, che non danno evidenza ad alcun travisamento probatorio (che ricorre solo in caso di svista concernente il fatto probatorio in sé e non di verifica logica della riconducibilità dell’informazione probatoria al fatto probatorio: Cass., S.U., n. 5792/2024), bensì sono rivolte a criticare la valutazione del complessivo compendio documentale operata dal C.N.F., avendo il giudice disciplinare dato rilievo all’accettazione originaria di eredità, successiva al mandato per la proposizione dei giudizi, e non alla rettifica della denuncia di successione, di cui il ricorrente, in violazione del principio di specificità dei motivi di impugnazione (art. 366, primo comma, n. 4, c.p.c.), non rende noto (neppure in sintesi) il contenuto.
3. – Con il terzo mezzo è prospettata, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., “violazione o falsa applicazione di norme di diritto, in relazione all’art. 36 L. 247/2012, dovendosi ritenere la decisione assunta con una motivazione apparente, contraddittoria ed illogica, in violazione degli artt. 24 e 111 Cost. avendo ritenuto il CNF che l’incolpato non avesse emesso fattura per gli importi dal medesimo ricevuti, nonostante avesse depositato le parcelle n. 73, 74, e 75 del 2018. Eccesso di potere per travisamento dei fatti”.
Il ricorrente sostiene, anzitutto, che il dato dirimente è quello della “intervenuta emissione delle parcelle, a prescindere dalla irregolarità contestate, in quanto la sommatoria degli importi corrisponde alle somme effettivamente percepite dal ricorrente “e le parcelle risultano effettivamente inviate alla propria ex cliente, “tanto è che la medesima, pur dubitando della natura delle stesse, le deposita quali allegati dell’esposto”.
In ogni caso, l’avv. (omissis) assume che, pur se irregolari, “le fatture risultano emesse, mentre la contestazione ne predica l’omissione, ragione per la quale, oltre ad esservi il vizio di motivazione risultante dalla stessa sentenza impugnata, sussiste, altresì, il difetto di correlazione tra la contestazione e la decisione gravata”.
3.1. – Il motivo è (manifestamente) infondato.
Giova, anzitutto, ribadire che, come affermato da Cass., S.U., n. 16252/2023, che il “l’avvocato ha l’obbligo, previsto dagli artt. 16 e 29, terzo comma, del codice deontologico, di emettere fattura tempestivamente e contestualmente alla riscossione di ogni pagamento ricevuto, anche quando l’attribuzione patrimoniale effettuata in favore del medesimo costituisca adempimento del “palmario” convenuto in sede di conferimento del mandato difensivo. L’inosservanza di questo precetto ha rilevanza disciplinare. L’obbligo di fatturazione costituisce, infatti, espressione dei doveri di solidarietà e correttezza fiscale, cui l’avvocato è tenuto, non soltanto – in funzione della giusta redistribuzione degli oneri, ma anche a tutela della propria immagine e, più in generale, della credibilità della classe forense. Il dovere di lealtà e correttezza fiscale nell’esercizio della professione è un canone generale dell’agire di ogni avvocato, che mira a tutelare l’affidamento che la collettività ripone nell’avvocato stesso quale professionista leale e corretto in ogni ambito della propria attività”.
Tanto premesso, non è affatto apprezzabile un vizio di motivazione irrispettosa del c.d. “minimo costituzionale” avendo il C.N.F. dato adeguata e logica contezza delle ragioni per le quali l’incolpato non ha fornito prova di aver emesso regolari fatture in relazione ai compensi ricevuti per l’attività professionale (cfr. par. 2.2. dei “Fatti di causa”, cui si rinvia; si veda anche pp. 9 e 10 sentenza C.N.F.).
Per contro, il ricorrente argomenta confondendo l’emissione delle parcelle, con le quali si chiede al cliente l’onorario per la prestazione, con le fatture quali documenti fiscali da emettere in ragione del corrispettivo ricevuto per la prestazione resa, neppure contestando, altresì, che le fatture fossero irregolari e, dunque, inidonee allo scopo per le quali dovevano essere emesse come documento fiscale.
4. – Il ricorso va, dunque, rigettato.
Resta assorbita l’istanza di sospensiva cautelare proposta con il medesimo ricorso.
5. – Non occorre provvedere alla regolamentazione delle spese del giudizio di legittimità non avendo l’intimato Consiglio dell’ordine degli avvocati di Roma svolto attività difensiva in questa sede.
P.Q.M.
rigetta il ricorso.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della L. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso art. 13, se dovuto.
Dispone che, in caso di utilizzazione del presente provvedimento in qualsiasi forma, sia omessa l’indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi di (omissis) ivi riportati.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio delle Sezioni Unite civili della Corte Suprema di Cassazione, il 23 settembre 2025.
Depositato in Cancelleria il 26 settembre 2025.
