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Cassazione civile sez. un., 22/09/2023, n. 27195

Massima

E’ inammissibile il ricorso per revocazione contro una decisione del Consiglio di Stato in quanto del tutto contestualizzato dall’impianto normativo di riferimento.

Supporto alla lettura

RESPONSABILITA’ AGGRAVATA

L’art. 96 c.p.c sanziona quel comportamento illecito della parte, poi risultata soccombente nel giudizio, che dia luogo alla c.d. “lite temeraria“, cioè quel comportamento della parte che nonostante sia consapevole dell’infondatezza della sua domanda o eccezione (mala fede), la propone ugualmente, costringendo la controparte a partecipare ad un processo immotivato.

Inoltre, viene sanzionata la mancanza di quel minimo di diligenza richiesta per l’acquisizione di tale consapevolezza (colpa grave).

La legge configura in tale comportamento una responsabilità aggravata, ossia una responsabilità che si aggrava in quanto, essendo fondata su un illecito, comporta l’obbligo di risarcire tutti i danni che conseguono all’aver dovuto partecipare ad un processo privo di fondamento alcuno.

Si tratta di un istituto posto a tutela dell’interesse di una delle parti a non subire pregiudizi a seguito dell’azione o resistenza dolosa o colposa dell’altra parte.

Ambito oggettivo di applicazione

FATTI DI CAUSA

1. (omissis) ha impugnato con ricorso straordinario al Presidente della Repubblica la CILA depositata dalla società (omissis) s.r.l., in data 20 luglio 2015 n. 23463, per comunicare la realizzazione di un lucernario sul tetto di uno degli edifici componenti il Condominio (omissis) domandandone l’annullamento, unitamente al parere della Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici della Liguria n. 7624 del 17 marzo 2015 e agli altri atti preparatori, presupposti e connessi.

A seguito della trasposizione in sede giurisdizionale del ricorso straordinario, la controversia è proseguita innanzi al competente TAR per la Liguria, che con la sentenza n. 706/2019, ha respinto il
ricorso, dichiarandolo in parte inammissibile ed in parte infondato.

La pronuncia era appellata dalla ricorrente e, nella resistenza del Ministero della Cultura (già Ministero per i beni e le attività culturali), unitamente alla Soprintendenza archeologia belle arti e paesaggio dell’Abruzzo, e la Soprintendenza archeologia belle arti e paesaggio per la Città metropolitana di Genova, Imperia, la Spezia e Savona, il Consiglio di Stato con la sentenza n. 3275/2021 ha confermato la sentenza di primo grado, rilevando che la reiezione della domanda proposta era corretta, in quanto:

a) l’unica forma di tutela del terzo di fronte alla CILA (Scia o Dia) è rappresentata dall’azione avverso il silenzio ex art. 31, c. 1 e 2, c.p.a.;

b) nel caso di specie, parte appellante aveva proposto un ricorso impugnatorio avverso la CILA “del tutto decontestualizzato dall’impianto normativo di riferimento”;

c) il TAR ligure “ne ha colto la inconferenza e ha dichiarato il ricorso inammissibile, anche se successivamente ha affrontato nel merito le singole censure respingendole”;

d) era infondata la tesi dell’appellante, secondo cui la domanda originariamente proposta sarebbe stata finalizzata a stigmatizzare l’inerzia dell’amministrazione, né una simile domanda sarebbe risultata ammissibile, se proposta mediante il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, che costituisce un rimedio solamente impugnatorio, sicché neppure risultava ammissibile la conversione del rito;

e) l’inammissibilità del ricorso proposto avverso la CILA “comporta l’inammissibilità anche del motivo di gravame originariamente proposto avverso gli atti (presupposti) di assenso paesaggistici, in ragione della carenza di interesse del ricorrente ad una pronuncia sui medesimi”;

f) era infondata la prospettata questione di costituzionalità, in considerazione delle recenti pronunce della Corte costituzionale del 13 marzo 2019, n. 45 e del 20 luglio 2020 n. 153.

Avverso la sentenza è stato proposto ricorso per revocazione, rilevando la sussistenza della fattispecie revocatoria di cui all’art. 395 n. 4 c.p.c., e ciò in quanto:

a) “innanzitutto il Giudice di appello, ha affermato che, contrariamente alla realtà processuale, la Prof.ssa Mosconi non avrebbe stimolato i poteri inibitori del Comune sulla c.i.l.a.”, il che sarebbe invece avvenuto e ciò sarebbe determinante, in quanto “…se il Giudice di appello non fosse incorso in tale “abbaglio dei sensi”, avrebbe certamente affermato l’ammissibilità dell’impugnativa di primo grado”;

b) “in secondo luogo, il Giudice di appello, ha dato atto, che, contrariamente alla realtà processuale, dell’avvenuta costituzione in giudizio, della “Soprintendenza archeologia belle arti e paesaggio dell’Abruzzo, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentati e difesi dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12” quando invece nel giudizio in oggetto è stata evocata la Soprintendenza belle arti e paesaggio per la Città metropolitana di Genova.”.

Il Consiglio di Stato con la sentenza n. 4868 del 15 giugno 2022 ha dichiarato il ricorso inammissibile.

Quanto alla sussistenza del vizio revocatorio di cui all’art. 395 n. 4, c.p.c., in base al quale è possibile l’impugnazione della sentenza pronunciata “Se la sentenza è l’effetto di un errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa. Vi è questo errore quando la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure quando è supposta l’inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita, e tanto nell’uno quanto nell’altro caso se il fatto non costituì un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare”, i giudici hanno ricordato che:

a) l’errore di fatto, idoneo a costituire un vizio revocatorio ai sensi dell’art. 395, n. 4, c.p.c., è identificabile con l’errore di percezione sull’esistenza o sul contenuto di un atto processuale, che si traduca nell’omessa pronuncia su una censura o su un’eccezione (per lo meno a far tempo da Cons. Stato, Ad. plen., 22 gennaio 1997, n. 3, ribadita da Ad. Plen., 24 gennaio 2014, n. 5; successivamente cfr. Cons. Stato, sez. IV, 1 settembre 2015, n. 4099; sez. V, 29 ottobre 2014, n. 5347; sez. IV 28 ottobre 2013, n. 5187; 6 agosto 2013, n. 4156; sez. III 29 ottobre 2012, n. 5510; sez. VI, 2 febbraio 2012, n. 587);

b) conseguentemente, non costituisce motivo di revocazione per errore di fatto la circostanza che il giudice, nell’esaminare la domanda di parte, non si sia espressamente pronunciato su tutte le argomentazioni proposte dalla parte a sostegno delle proprie censure (Cons. Stato, Ad. plen., 27 luglio 2016, n. 21);

c) non può giustificare la revocazione, inoltre, una contestazione sull’attività di valutazione del giudice, perché essa riguarderebbe un profilo diverso dall’erronea percezione del contenuto dell’atto processuale, in cui si sostanzia l’errore di fatto (Cons. Stato, sez. IV, 4 agosto 2015, n. 3852; sez. V 12 maggio 2015, n. 2346; sez. III 18 settembre 2012, n. 4934); di conseguenza, il vizio revocatorio non può mai riguardare il contenuto concettuale delle tesi difensive delle parti, come esposte negli atti di causa, perché le argomentazioni giuridiche non costituiscono «fatti» ai sensi dell’art. 395, n. 4, c.p.c. e perché un tale errore si configura necessariamente non come errore percettivo, bensì come errore di giudizio, investendo per sua natura l’attività valutativa ed interpretativa del giudice (Cass. 22 marzo 2005, n. 6198);

d) non può giustificare la revocazione, altresì, una contestazione concernente il mancato esame di un qualsivoglia documento (come, ad es., di un allegato a una relazione istruttoria) o di qualsiasi altra prova offerta dalle parti, dal momento che in casi del genere si potrebbero configurare soltanto errores in iudicando, non contemplati dall’art. 395 c.p.c. quale motivo di ricorso per revocazione (Cons. Stato, Ad. plen., 11 giugno 2001, n. 3);

e) affinché possa dirsi sussistente il vizio revocatorio contemplato dalla norma è inoltre necessario che l’errore di fatto si sia dimostrato determinante, secondo un nesso di causalità necessaria, nel senso che l’errore deve aver costituito il motivo essenziale e determinante della decisione impugnata per revocazione. È stato puntualizzato che il nesso causale non inerisce alla realtà storica, ma costituisce un nesso logico-giuridico, nel senso che la diversa soluzione della lite deve imporsi come inevitabile sul piano, appunto, della logica e del diritto, e non degli accadimenti concreti (Cons. Stato, sez. VI, 18 febbraio 2015, n. 826); la falsa percezione della realtà processuale deve dunque riguardare un punto decisivo, anche se non espressamente controverso della causa (Cons. Stato, sez. IV, 1 settembre 2015, n. 4099);

f) l’errore deve poi essere caduto su un punto non espressamente controverso della causa e in nessun modo deve coinvolgere l’attività valutativa svolta dal giudice circa situazioni processuali esattamente percepite nella loro oggettività (Cons. Stato, Ad. plen., 24 gennaio 2014, n. 5).

Posti tali principi, ha sottolineato che, quanto alla prima doglianza, doveva escludersi la sussistenza dell’errore revocatorio, e ciò in quanto la sentenza revocanda aveva confermato quella di primo grado, non già perché aveva ritenuto che la Mosconi non avesse domandato, in via stragiudiziale, al Comune l’esercizio dei suoi poteri inibitori, bensì perché “nel caso di specie parte appellante ha proposto un ricorso impugnatorio avverso la Cila del tutto decontestualizzato dall’impianto normativo di riferimento” e ciò ha reso inammissibile l’azione esperita.

Il motivo di revocazione aveva quindi travisato la ratio decidendi della sentenza impugnata e finiva per basare il ricorso per revocazione su un presupposto errato.

Quanto al secondo errore di fatto, il Collegio ne rilevava, allo stesso modo, l’insussistenza.

Infatti, la (omissis) lamentava che “aveva a suo tempo evocato in giudizio anche la Soprintendenza – ma non certo della Regione Abruzzo! – bensì quella territorialmente competente a rilasciare il parere, ovverosia la “Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per la città metropolitana di Genova e le province di Imperia, La Spezia e Savona, in persona del Soprintendente in carica”, ma che, per mero errore di fatto, la sentenza aveva poi ritenuta costituita in giudizio la “Soprintendenza archeologia belle arti e paesaggio dell’Abruzzo, in persona del legale rappresentante pro tempore) che non solo non è mai stato evocato nel presente giudizio, ma non è nemmeno mai intervenuto spontaneamente, né avrebbe potuto farlo, atteso l’evidente difetto di legittimazione passiva nel ricorso” e aveva liquidato le spese del giudizio anche in favore dell’allora Ministero dei beni e delle attività culturali, costituitosi in giudizio unitamente alla Soprintendenza archeologia belle arti e paesaggio dell’Abruzzo, malgrado sia “logicamente impossibile la condanna alle spese a favore di chi non si è costituito in giudizio, nei confronti dell’odierna ricorrente”.

Ad avviso del CDS la censura formulata da parte ricorrente concerneva una questione in diritto, attinente alla mancata estromissione dal giudizio del Ministero dei beni e delle attività culturali, piuttosto che una questione in fatto, suscettibile di essere sussunta nel novero dell’errore revocatorio di cui all’art. 395 n. 4 c.p.c.

La reiezione dei motivi di revocazione rendeva poi inammissibile l’esame dei motivi di appello riproposti, per l’eventuale fase rescissoria del giudizio.

Avverso la sentenza del Consiglio di Stato è stato proposto ricorso per cassazione da (omissis) sulla base di tre motivi.

Gli intimati non hanno svolto difese in questa fase.

La Prima Presidente in data 27 marzo 2023 ha formulato proposta di definizione del giudizio ex art. 380 bis c.p.c., nel testo novellato dal D. Lgs. n. 149/2022, avendone rilevato l’inammissibilità.

Parte ricorrente ha però chiesto la decisione del ricorso formulando apposita istanza nel termine di cui al secondo comma dell’art. 380 bis c.p.c.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso la ricorrente denuncia l’arretramento della giurisdizione in ordine alla pronuncia sull’errore di fatto dedotto in relazione alla mancata considerazione dell’esistenza della diffida del 12 agosto 2015 da parte del giudice di appello, nella sentenza del CDS n. 3275/2021, oggetto della revocazione.

Si deduce che è stato erroneamente dichiarato inammissibile il primo motivo di revocazione, senza tenere conto che già in occasione del ricorso straordinario, poi trasposto in sede giurisdizionale, era stata depositata una diffida della ricorrente con la quale sollecitava l’amministrazione all’attivazione dei poteri inibitori e sanzionatori, rispetto alla quale la stessa amministrazione aveva serbato un atteggiamento di inerzia.

Ciò consente quindi di affermare, a differenza di quanto opinato dal giudice di appello, che l’azione proposta rientri nell’impianto normativo di riferimento.

Il motivo è inammissibile.

Già nella proposta di definizione presentata in corso di causa, è stato sottolineato che è inammissibile il ricorso per cassazione, proposto ai sensi degli artt. 362 c.p.c. e 111 Cost., con il quale si censura la valutazione delle condizioni di ammissibilità dell’istanza di revocazione da parte del Consiglio di Stato, giacché con esso non viene posta una questione di sussistenza o meno del potere giurisdizionale di operare detta valutazione e, dunque, dedotta una violazione dei limiti esterni alla giurisdizione del giudice amministrativo, rispetto alla quale soltanto è consentito ricorrere in sede di legittimità in base alle anzidette norme (Cass. S.U. n. 1603 del 19/01/2022).

Correttamente è stato evidenziato che il motivo di ricorso in esame, senza contestare la violazione dei limiti esterni della giurisdizione, si risolve nella contestazione alla correttezza della valutazione da parte del CDS delle condizioni legittimanti l’ammissibilità della richiesta di revocazione.

In tal senso va dato seguito a quanto affermato da Cass. S.U. n. 8588/2022, che ha ribadito che, sebbene con riferimento all’eccesso di potere giurisdizionale, denunziabile con il ricorso per cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione, è censurabile il solo difetto assoluto di giurisdizione – che si verifica quando un giudice speciale affermi la propria giurisdizione nella sfera riservata al legislatore o alla discrezionalità amministrativa (cosiddetta invasione o sconfinamento), ovvero, al contrario, la neghi sull’erroneo presupposto che la materia non possa formare oggetto in assoluto di cognizione giurisdizionale (cosiddetto arretramento) -, nonché di difetto relativo di giurisdizione, riscontrabile quando detto giudice abbia violato i c.d. limiti esterni della propria giurisdizione, pronunciandosi su materia attribuita alla giurisdizione ordinaria o ad altra giurisdizione speciale, ovvero negandola sull’erroneo presupposto che appartenga ad altri giudici, senza che tale ambito possa estendersi, di per sé, ai casi di sentenze “abnormi”, “anomale” ovvero di uno “stravolgimento” radicale delle norme di riferimento. Sicché, tale vizio non è configurabile per errores in procedendo o in iudicando, i quali non investono la sussistenza e i limiti esterni del potere giurisdizionale dei giudici speciali, bensì solo la legittimità dell’esercizio del potere medesimo (tra le molte, successivamente alla sentenza n. 6 del 2018 della Corte costituzionale, cfr.: Cass., S.U., n. 7926/2019, Cass., S.U., n. 8311/2019, Cass., S.U., n. 29082/2019, Cass., S.U., n. 7839/2020, Cass., S.U., n. 19175/2020, Cass., S.U., n. 18259/2021).

Una volta richiamati i suesposti principi, ed essendo incontestato dalla stessa ricorrente che sulla revocazione dovesse pronunciarsi il GA, il motivo contesta la correttezza della decisione del giudice amministrativo che ha ritenuto che il primo motivo di revocazione non fosse centrato rispetto al contenuto della sentenza d’appello, che aveva riscontrato l’erronea impugnazione della CILA, dovendosi per converso agire nei confronti del silenzio ex art. 31, co. 1 e 2 c.p.a.

E’ stato poi evidenziato che l’esito del giudizio sfavorevole per la ricorrente non derivava dall’avere ignorato che la (omissis) avesse domandato al Comune di attivare i propri poteri inibitori e repressivi, ma in ragione dell’erronea individuazione del bersaglio attinto dal ricorso straordinario, individuato come detto nella CILA.

E’ evidente, quindi, che la censura avverso la sentenza pronunciata dal giudice amministrativo in materia di revocazione – prevista nella giustizia amministrativa dall’art.106 c.p.a. con il richiamo ai casi ed ai modi di cui agli artt. 395 e 396 c.p.c. – nella quale la contestazione investe modalità di esercizio del potere giurisdizionale, è inammissibile ove, come nella fattispecie si prospetti l’esercizio del detto potere al di fuori dei casi consentiti dall’ordinamento, in quanto si risolve nella doglianza circa il suo erroneo esercizio, come tale rientrante nei limiti propri della giurisdizione del giudice amministrativo (Cass. S.U. n. 29082/2019).

La censura, pertanto, non è idonea ad evidenziare un’ipotesi di arretramento della giurisdizione ma mira piuttosto a lamentare un erroneo esercizio della potestà giurisdizionale pacificamente attribuita al GA, in ragione del rimedio impugnatorio avanzato dalla ricorrente.

2. Il secondo motivo lamenta l’arretramento della giurisdizione in ordine all’apprezzamento dell’errore di fatto circa la costituzione nel giudizio di appello della Soprintendenza archeologia e belle arti e paesaggio dell’Abbruzzo e del Ministero dei Beni Culturali.

Si deduce che il Consiglio di Stato aveva inizialmente riferito di una parziale fondatezza del ricorso per revocazione, ma a tale enunciazione non ha fatto seguire una pronuncia, avendo concluso in dispositivo per la generica inammissibilità del ricorso per revocazione.

Il CDS, pur avendo mostrato di aver correttamente inteso il senso del secondo motivo di revocazione, e pur avendolo ritenuto in parte fondato, non ha esaminato lo stesso, avendo quindi eluso il proprio dovere di pronunciarsi.

Anche tale motivo è inammissibile.

In disparte il rilievo che, come si ricava dalla lettura della sentenza n. 3275/2021 del Consiglio di Stato, il riferimento alla Soprintendenza archeologia, belle arti e paesaggio dell’Abbruzzo è frutto evidentemente di un mero refuso contenuto solo nell’intestazione della sentenza, intestazione che reca anche la corretta indicazione della Soprintendenza della Città Metropolitana di Genova, in favore della quale unicamente sono state poste le spese di lite, le considerazioni espresse in merito ai limiti alla denuncia del difetto di giurisdizione nei confronti della sentenza pronunciata dal GA in sede di revocazione, rendono evidente come anche in questo caso la denuncia della ricorrente investa le modalità di esercizio del potere giurisdizionale, e non legittimi la configurazione di un’ipotesi di arretramento.

In effetti il riferimento alla parziale fondatezza del ricorso per revocazione appare frutto anche in questa ipotesi di un refuso, e ciò in quanto la specifica doglianza che investiva la presenza in giudizio della Soprintendenza per l’Abbruzzo, ha trovato una risposta nella sentenza impugnata, che lungi dall’omettere di dare risposta alla domanda di giustizia della ricorrente, ha evidenziato le ragioni per le quali, a suo giudizio, non ricorreva un’ipotesi di errore di fatto revocatorio, ma era dedotto un errore di giudizio (evidenziando che, stante la avvenuta costituzione del Ministero, ove anche si fosse ritenuto che non era avvenuta la costituzione della detta Soprintendenza, l’errore che si era ripercosso sul capo relativo alle spese di lite, doveva passare per la denuncia di un errore di diritto, rappresentato dalla mancata estromissione del Ministero, in favore del quale erano state effettivamente liquidate le spese).

3. L’inammissibilità anche del secondo motivo di ricorso rende poi palese come si palesi del tutto priva di rilevanza la questione pregiudiziale, proposta in via subordinata, ai sensi dell’art. 267 TFUE ( ex art. 234 del TCE), con riferimento all’art. 47 della Carta di Nizza, in quanto, una volta escluso che vi sia stato un arretramento di giurisdizione, e che in realtà la sentenza abbia esaminato il secondo motivo di revocazione, pervenendo alla sua declaratoria di inammissibilità, risultano prive di fondamento le deduzioni della ricorrente circa il denunciato diniego di giustizia (che però è fondato sull’erroneo rilievo per il quale il CDS avrebbe in realtà reputato fondato il motivo de quo).

4. Il ricorso deve quindi essere dichiarato inammissibile.

5. Nulla a disporre quanto alle spese nei confronti delle parti intimate.

Considerato che la trattazione del ricorso è stata chiesta ai sensi dell’art. 380 bis cpc ultimo comma a seguito di proposta di inammissibilità a firma del Primo Presidente, la Corte, avendo definito il giudizio in conformità della proposta, deve applicare il terzo e il quarto comma dell’articolo 96, come previsto dal citato art. 380 bis ultimo comma.

Trattasi di una novità normativa (introdotta dall’art. 3, comma 28, lett. g), D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, a decorrere dal 18 ottobre 2022, ai sensi di quanto disposto dall’art. 52, comma 1, del medesimo D.Lgs. n. 149/2022) che contiene, nei casi di conformità tra proposta e decisione finale, una valutazione legale tipica, ad opera del legislatore, della sussistenza dei presupposti per la condanna di una somma equitativamente determinata a favore della controparte (art. 96 terzo comma) e di una ulteriore somma di denaro non inferiore ad euro 500,00 e non superiore ad euro 5.000,00 (art. 96 quarto comma).

In tal modo, risulta codificata una ipotesi di abuso del processo, peraltro da iscrivere nel generale istituto del divieto di lite temeraria nel sistema processuale.

Quanto alla disciplina intertemporale sull’applicazione ai giudizi di cassazione delle disposizioni di cui all’art. 96 terzo e quarto comma per effetto del rinvio operato dall’ultimo comma dell’art. 380 bis nel testo riformato, rileva la Corte che la predetta normativa – in deroga alla previsione generale contenuta nell’art. 35 comma 1 del Lgs. n. 149/2022 – è immediatamente applicabile a seguito dell’adozione di una decisione conforme alla proposta, sebbene per giudizi già pendenti alla data del 28 febbraio 2023.

Ed infatti la norma di cui all’art. 380 bis c.p.c. (che nella parte finale richiama l’art. 96 commi 3 e 4) è destinata a trovare applicazione, come espressamente previsto dal co. 6 dell’art. 35 del D. Lgs. n. 149/2022, anche nei giudizi introdotti con ricorso già notificato alla data del 1° gennaio 2023 e per i quali non è stata ancora fissata udienza o adunanza in camera di consiglio (come appunto quello in esame).

Una diversa interpretazione (volta ad applicare la normativa in esame ai giudizi iniziati in data successiva al 28 febbraio 2023) finirebbe, a ben vedere, per depotenziare fortemente la funzione stessa della norma e contrastare con la sua ratio, che mira ad apprestare uno strumento di agevolazione della definizione delle pendenze in sede di legittimità, anche tramite l’individuazione di strumenti dissuasivi di condotte rivelatesi ex post prive di giustificazione, e quindi idonee a concretare ipotesi di abuso del diritto di difesa.

Sottrarre al corredo di incentivi e di fattori di dissuasione contenuto nella norma in esame (che sono finalizzati a rimarcare, come chiarito nella relazione illustrativa al D. Lgs. n. 149/2022, la limitatezza della risorsa giustizia, essendo giustificato che colui che abbia contribuito a dissiparla, nonostante una prima delibazione negativa, sostenga un costo aggiuntivo) proprio la condanna al pagamento di una somma in favore della controparte e di una ulteriore somma in favore della cassa delle ammende, verrebbe a fortemente limitare la portata applicativa della norma, che dovrebbe attendere verosimilmente diversi anni per vedere riconosciuta la sua piena efficacia, in contrasto con il chiaro intento del legislatore di offrire nell’immediato uno strumento di agevole e rapida definizione dei ricorsi che si palesino inammissibili, improcedibili ovvero manifestamente infondati, e consentendo alla Corte di concentrarsi su quelli che invece si presentino meritevoli di un intervento nomofilattico o che all’inverso meritino un attento esame.

Sulla scorta di quanto esposto, ed in assenza di indici che possano far propendere per una diversa applicazione della norma, la parte ricorrente va condannata al pagamento della somma di €. 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende. 6.

Poiché il ricorso è dichiarato inammissibile, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1-quater dell’art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

P.Q.M.

Dichiara il ricorso inammissibile;

Condanna la ricorrente al pagamento in favore della cassa delle ammende della somma di € 2.000,00;

Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 -bis dello stesso art. 13, se dovuto.

Così deciso, in Roma, nella camera di consiglio del 12 settembre 2023.

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