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Cassazione civile sez. trib., 26/09/2024, n. 25761

Massima

In materia di accertamento tributario, l’Amministrazione Finanziaria che contesti la genuinità di una struttura societaria, adducendo l’esistenza di soci occulti e amministratori di fatto, è gravata da un onere probatorio stringente. La valutazione dell’adeguatezza di tale prova, compiuta dal giudice tributario di merito con motivazione non apparente né illogica, esula dal sindacato di legittimità della Corte di Cassazione, salvo che non si denunci un’erronea applicazione delle norme sull’onere della prova o sulle presunzioni.

Supporto alla lettura

ACCERTAMENTO TRIBUTARIO

L’accertamento tributario (o fiscale) è il complesso degli atti della pubblica amministrazione volti ad assicurare l’attuazione delle norme impositive.

L’attività di accertamento delle imposte da parte degli uffici finanziari ha carattere meramente eventuale, essendo prevista nel nostro sistema l’autoliquidazione dei tributi più importanti da parte del contribuente stesso, tramite l’istituto della dichiarazione. Gli uffici intervengono quindi soltanto per rettificare le dichiarazioni risultate irregolari o nel caso di omessa presentazione delle stesse.

A seconda del metodo di accertamento utilizzato, questo può essere:

  • analitico: attraverso l’analisi della documentazione contabile e fiscale;
  • analitico-induttivo: cioè misto, basato su un esame documentale e presunzioni, di norma fondate su elementi gravi, precisi e concordanti, salvo in caso di omessa dichiarazione o di contabilità inattendibile/omessa;
  • induttivo: attraverso l’utilizzo esclusivo di presunzioni che possono essere anche esclusivamente semplici;
  • sintetico: fondato su coefficienti ministeriali.

Ambito oggettivo di applicazione

(omissis)

 

CONSIDERATO CHE

Dalla sentenza e dagli atti difensivi emerge che i ricorrenti proposero impugnazione avverso gli avvisi d’accertamento con cui l’Agenzia delle entrate, sulla premessa del ruolo di soci occulti e di amministratori di fatto rivestito da (omissis) e (omissis) nella società Edil Benaco Srl, rideterminò l’imponibile relativo agli anni 2010 e 2011 ai fini Ires, Irap ed Iva, richiedendo maggiori imposte ed irrogando ai ricorrenti sanzioni ai sensi dell’art. 7 del D.L. 30 settembre 2003, n. 269.

I ricorsi riuniti avverso gli atti impositivi, con i quali i contribuenti avevano contestato tanto il ruolo di soci occulti, quanto quello di amministratori di fatto della Edil Benaco Srl, asserendo che erano solo meri referenti tecnici della società nei confronti della clientela, ebbe esito favorevole dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Brescia, che con sentenza n. 781/04/2016 accolse le loro ragioni.

La Commissione tributaria regionale della Lombardia ha respinto l’appello erariale. Il giudice regionale, dopo aver riportato le rispettive posizioni difensive, e in particolare evidenziato che nella ricostruzione operata dall’ufficio il (omissis) ed il (omissis) avrebbero utilizzato la società come schermo protettivo di una attività fraudolenta messa in atto nel loro esclusivo interesse, ha al contrario ritenuto che la Edil Benaco Srl fosse esistente ed operante, svolgente una reale attività imprenditoriale. Ha sottolineato che gli accertamenti non avevano neppure dimostrato che i vantaggi economici, perseguiti attraverso la supposta società schermo, si fossero realizzati nell’esclusivo vantaggio personale dei due contribuenti. Ha rilevato che non risultava provato neppure che il (omissis) e il (omissis) fossero stati gli amministratori di fatto della Edil Benaco. A tal fine le dichiarazioni di terzi, raccolte in sede di verifica tra i clienti della società, deponevano più per un ruolo tecnico svolto dai due controricorrenti in occasione dei lavori affidati dai clienti, che non di dominus della compagine sociale.

Per la cassazione della sentenza l’Agenzia delle entrate ha proposto ricorso, affidato a due motivi, cui hanno resistito con controricorso i contribuenti.

All’esito dell’adunanza camerale del 20 dicembre 2023 la causa è stata riservata e decisa.

 

CONSIDERATO CHE

Con il primo motivo l’ufficio ha denunciato la violazione e falsa applicazione degli artt. 36, D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, 112 e 132, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., 111, comma 7, Costituzione, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ. La sentenza sarebbe nulla per motivazione apparente.

Il motivo è infondato.

Questa Corte ha chiarito che sussiste l’apparente motivazione della sentenza ogni qual volta il giudice di merito ometta di indicare su quali elementi abbia fondato il proprio convincimento, nonché quando, pur indicandoli, a tale elencazione ometta di far seguire una disamina almeno chiara e sufficiente, sul piano logico e giuridico, tale da permettere un adeguato controllo sull’esattezza e logicità del suo ragionamento (Sez. U, 3 novembre 2016, n. 22232; cfr. anche 23 maggio 2019, n. 13977; 1 marzo 2022, n. 6758). In sede di gravame, pur se la decisione può essere legittimamente motivata per relationem ove il giudice d’appello, facendo proprie le argomentazioni del primo giudice, esprima, sia pure in modo sintetico, le ragioni della conferma della pronuncia in relazione ai motivi di impugnazione proposti, sì da consentire, attraverso la parte motiva di entrambe le sentenze, di ricavare un percorso argomentativo adeguato e corretto, ovvero purché il rinvio sia operato così da rendere possibile ed agevole il controllo, dando conto delle argomentazioni delle parti e della loro identità con quelle esaminate nella pronuncia impugnata, essa va invece cassata quando il giudice si sia limitato ad aderire alla pronuncia di primo grado senza che emerga, in alcun modo, che a tale risultato sia pervenuto attraverso l’esame e la valutazione di infondatezza dei motivi di gravame (cfr. Cass., 19 luglio 2016, n. 14786; 7 aprile 2017, n. 9105). La motivazione del provvedimento impugnato con ricorso per cassazione è apparente anche quando, ancorché graficamente esistente ed eventualmente sovrabbondante nella descrizione astratta delle norme che regolano la fattispecie dedotta in giudizio, non consente alcun controllo sull’esattezza e la logicità del ragionamento decisorio, così da non attingere la soglia del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111, sesto comma, Cost. (Cass., 30 giugno 2020, n. 13248; cfr. anche 5 agosto 2019, n. 20921). È altrettanto apparente ogni qual volta evidenzi una obiettiva carenza nella indicazione del criterio logico che ha condotto il giudice alla formazione del proprio convincimento, come accade quando non vi sia alcuna esplicitazione sul quadro probatorio (Cass., 14 febbraio 2020, n. 3819).

Nel caso di specie la motivazione con cui la commissione regionale ha respinto l’appello è supportata da una ponderata analisi delle prove allegate dall’ufficio a conforto della pretesa erariale, ritenute nel complesso insufficienti a dimostrare tanto la funzione di mero schermo della società, a servizio dunque del Ga.Pa. e del Po.Ma., quanto il ruolo di amministratori di fatto, attribuito loro dall’amministrazione finanziaria. Al contrario, ad avviso del giudice d’appello, la società dimostrava vitalità, e al suo interno gli appellati svolgevano un ruolo tecnico e non quello di amministratori di fatto.

La motivazione, condivisibile o meno, esula dall’apparenza, non trovando collocazione neppure tra le motivazioni contraddittorie e perplesse, perché al contrario sorretta da logicità e analisi degli elementi ritenuti evidentemente più significativi ai fini del decidere.

Con il secondo motivo l’amministrazione finanziaria lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 2727 e 2729 cod. civ., soprattutto in riferimento all’onere probatorio riconducibile all’art. 37, comma 3, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ. Il giudice regionale avrebbe errato nel negare che il quadro probatorio allegato dall’ufficio non consentisse di dimostrare la natura artificiosa della società, cioè la sua funzione di schermo degli interessi esclusivi dei due contribuenti, così come la loro funzione di amministratori di fatto.

Il motivo è inammissibile.

In realtà, per quanto già chiarito, la motivazione della sentenza è indenne non solo dalla denuncia di apparenza, ma anche di malgoverno delle prove presuntive. Con essa il giudice regionale ha operato un accertamento in fatto, conforme peraltro alle conclusioni cui era pervenuto il giudice di primo grado. A parte la duplice conformità delle due decisioni, in realtà la critica formulata dalla difesa erariale, ripercorrendo le vicende fattuali e le dichiarazioni rese in sede di verifica da terzi, impinge nel merito, pretendendo dal giudice di legittimità una inammissibile rivalutazione, in questa sede, dei fatti già vagliati in due gradi di merito.

In conclusione, il ricorso è infondato e va rigettato. Le spese processuali seguono la soccombenza e vanno liquidate come da dispositivo.

 

P.Q.M.

Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore dei controricorrenti, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 9.000,00 per competenze, Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% delle competenze ed accessori come per legge.

Così deciso in Roma, il giorno 20 dicembre 2023.

Depositato in Cancelleria il 26 settembre 2024.

Allegati

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