(omissis)
FATTI DI CAUSA
1. Con sentenza n. 7362/03/21 del 27/08/2021 la Commissione tributaria regionale della Sicilia (di seguito CTR) accoglieva l’appello principale proposto dall’Agenzia delle entrate (di seguito AE) avverso la sentenza n. 2209/05/17 della Commissione tributaria provinciale di Palermo, la quale aveva a sua volta accolto il ricorso proposto da Na.Gi. nei confronti di un avviso di accertamento per IRPEF relativa all’anno d’imposta 2008.
1.1. Come si evince dalla sentenza impugnata, con l’atto impositivo era stato rettificato il reddito del contribuente, socio di Aenne Press Spa (di seguito AP), in ragione dell’imputazione per trasparenza del maggior reddito di quest’ultima. In particolare, con separato avviso di accertamento relativo al medesimo anno d’imposta, alla società era stata contestata l’illegittima deduzione di costi riguardanti fatture concernenti un’intermediazione illecita di manodopera e il recupero di retribuzioni erogate in nero.
1.2. La CTR accoglieva l’appello proposto da AE evidenziando che: a) il raddoppio dei termini per l’accertamento era legittimo; b) l’atto impositivo risultava legittimamente motivato con riferimento al processo verbale di constatazione (di seguito PVC) regolarmente notificato al legale rappresentante della società contribuente; c) non sussisteva la violazione degli obblighi informativi previsti dall’art. 12, comma 2, l. n. l. 27 luglio 2000, n. 212; d) vi era la possibilità, per la società contribuente, di risalire agevolmente all’aliquota applicata in ragione dei dati contenuti nell’atto impositivo, con conseguente insussistenza della violazione dell’art. 42 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600; e) doveva ritenersi legittima l’imputazione del reddito al socio per trasparenza, che prescindeva dalle modalità di accertamento; f) doveva ritenersi ampiamente provata l’interposizione fittizia di manodopera contestata alla società, con conseguente indetraibilità dei relativi costi; g) i lavoratori erano alle dirette dipendenze di AP, con conseguente conferma della ripresa concernente le retribuzioni versate in nero; h) dovevano trovare conferma anche le sanzioni nella misura applicata.
2. Avverso la sentenza della CTR AP presentava ricorso per cassazione affidato a nove motivi, illustrati da memoria ex art. 380 bis.1 cod. proc. civ.
3. AE resisteva con controricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo di ricorso (omissis) contesta violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto e precisamente dell’art. 39, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 600 del 1973, dell’art. 54, comma 2, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 e dell’art. 2697 cod. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., per avere la CTR erroneamente ritenuto che l’avviso di accertamento impugnato sia fondato su presunzioni gravi, precise e concordanti; l’atto impositivo sarebbe invece fondato su elementi indiziari per lo più non provati, non essendo stati depositati in giudizio gli allegati al PVC.
1.1. Il motivo è infondato.
1.2. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, “In tema di accertamento tributario relativo sia all’imposizione diretta che all’IVA, la legge – rispettivamente art. 39, comma 1, del d.P.R. n. 600 del 1973 (richiamato dal successivo art. 40 per quanto riguarda la rettifica delle dichiarazioni di soggetti diversi dalle persone fisiche) ed art. 54 del d.P.R. n. 633 del 1972 – dispone che l’inesistenza di passività dichiarate, nel primo caso, o le false indicazioni, nel secondo, possono essere desunte anche sulla base di presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti, senza necessità che l’Ufficio fornisca prove “certe”. Pertanto, il giudice tributario di merito, investito della controversia sulla legittimità e fondatezza dell’atto impositivo, è tenuto a valutare, singolarmente e complessivamente, gli elementi presuntivi forniti dall’Amministrazione, dando atto in motivazione dei risultati del proprio giudizio (impugnabile in cassazione non per il merito, ma esclusivamente per inadeguatezza o incongruità logica dei motivi che lo sorreggono) e solo in un secondo momento, ove ritenga tali elementi dotati dei caratteri di gravità, precisione e concordanza, deve dare ingresso alla valutazione della prova contraria offerta dal contribuente, che ne è onerato ai sensi degli artt. 2727 e ss. e 2697, comma 2,c.c.” (Cass. n. 14237 del 07/06/2017; Cass. n. 9784 del 23/04/2010).
1.3. Orbene, il contribuente, con il presente motivo, mira a infirmare la valutazione compiuta dal giudice di merito in ordine alla gravità, precisione e concordanza degli elementi indiziari posti a base dell’avviso di accertamento a supporto delle riprese, senza considerare che: a) gli indizi offerti dall’Amministrazione finanziaria non devono assumere i connotati di prove certe, così come sostanzialmente affermato in ricorso; b) la CTR ha specificamente elencato gli elementi indiziari sulla base dei quali fonda il proprio convincimento, indicati nel PVC e nelle dichiarazioni del legale rappresentante della società contribuente e di un terzo; c) la valutazione degli elementi indiziari va effettuata complessivamente e non atomisticamente, come correttamente fatto dalla CTR, che ha legittimamente effettuato la propria valutazione di merito in ordine alla congruità delle presunzioni poste a fondamento dell’avviso di accertamento.
1.4. Né è corretto contestare la violazione dell’art. 2697 cod. civ., avendo la CTR pienamente rispettato i principi concernenti la ripartizione dell’onere della prova: invero, in presenza di un avviso di accertamento fondato su valide presunzioni, grava sulla società contribuente fornire la prova contraria dei fatti dedotti dall’Amministrazione finanziaria, senza che ci si possa limitare ad una atomistica contestazione degli elementi presuntivi allegati dall’Ufficio.
2. Con il secondo motivo di ricorso si deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., l’omesso esame di fatti decisivi per il giudizio che sono stati oggetto di discussione tra le parti, non essendosi il giudice di appello confrontato con numerosi elementi dedotti dal contribuente.
2.1. Il motivo è inammissibile.
2.2. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, “L’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., riformulato dall’art. 54 del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, primo comma, n. 6, e 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. S.U. n. 8053 del 07/04/2014; conf. Cass. n. 21257 del 08/10/2014; Cass. n. 23828 del 20/11/2015; Cass. n. 23940 del 12/10/2017; Cass. n. 22598 del 25/09/2018).
2.3. Nel caso di specie, il fatto storico è stato preso in considerazione integralmente dal giudice di merito, cui spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza e di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (cfr. Cass. n. 331 del 13/01/2020; Cass. n. 19547 del 04/08/2017; Cass. n. 24679 del 04/11/2013; Cass. n. 27197 del 16/12/2011; Cass. n. 2357 del 07/02/2004).
2.4. Il contribuente denuncia, infatti, l’omesso esame di circostanze di fatto (assenza di una sede e dei mezzi in capo ai cd. padroncini; uso spregiudicato di lavoratori in nero; ingerenza nella gestione dei rapporti di lavoro da parte di AP; sovraffatturazione e inesistenza delle operazioni; sentenza del giudice del lavoro che ha deciso in ordine ad un accertamento INPS e INAIL che trae le mosse dallo stesso PVC) che riguardano fatti (fittizietà dei soggetti con cui è stato stipulato il contratto di appalto di manodopera e conseguente insussistenza di detto appalto) ampiamente esaminati dal giudice di appello, che ha legittimamente espresso la propria valutazione di merito, senza dover dare necessariamente conto di tutti gli elementi dedotti dalle parti.
2.5. La censura proposta da Na.Gi. mira, dunque, a contestare non già l’omesso esame di fatti rilevanti per come ritenuto dalla S.C., ma l’insufficienza motivazionale della sentenza della CTR, insufficienza non più denunciabile in sede di legittimità.
3. Con il terzo motivo di ricorso si deduce violazione e/o falsa applicazione dell’art. 109 del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Testo Unico delle Imposte sui Redditi – TUIR) e dell’art. 14, comma 4 bis, della l. 24 dicembre 1993, n. 537, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., per avere la CTR ritenuto indeducibili i costi a fini IRES sostenuti per i lavoratori ritenuti alla dipendenza diretta di AP in ragione della nullità del contratto di appalto di manodopera.
3.1. In particolare, il ricorrente sostiene che anche qualora le operazioni descritte nelle fatture non siano riconducibili al contratto di appalto ma siano ascrivibili ad un rapporto di lavoro dipendente intrattenuto direttamente dai lavoratori con AP, la pretesa “inesistenza” delle operazioni rileverebbe esclusivamente ai fine di negare la detraibilità dell’IVA sugli acquisti e la deduzione del costo ai fini dell’IRAP.
3.1.1. Diversamente, in materia di imposte sui redditi il costo effettivamente sostenuto sarebbe sempre ammesso in deduzione, anche se relativo ad un rapporto che l’Ufficio ritiene di dover “qualificare” giuridicamente in modo diverso. Se, infatti, i costi documentati dalle fatture emesse dai fornitori nel 2008 sono stati effettivamente sostenuti, tali costi non possono che essere ammessi in deduzione ai fini dell’IRES, ai sensi dell’art. 109 del TUIR.
3.2. Il motivo è infondato.
3.3. La CTR ha escluso il diritto alla deducibilità dei costi a fini IRES in ragione della invalidità del titolo giuridico dal quale detti costi scaturiscono, vale a dire il contratto di appalto di manodopera stipulato da AP in qualità di appaltante.
3.4. Orbene, i costi che il ricorrente ha dedotto sono proprio quelli rappresentati dalle fatture emesse a seguito del menzionato contratto di appalto di manodopera e Na.Gi. non ha fornito alcun elemento per dimostrare che detti costi siano esattamente gli stessi che sarebbero stati sostenuti nel caso di assunzione diretta dei lavoratori alle proprie dipendenze, sicché detti costi difettano del necessario requisito della certezza. Invero, una volta venuta meno l’efficacia giuridica della fatturazione, per la nullità dei contratti fra la società interponente e la società interposta, viene meno anche la deducibilità dei costi così fatturati e l’onere della prova rigorosa delle componenti di costo riferibili in concreto alla sola forza lavoro incombe su colui che invoca la deduzione (Cass. n. 22020 del 17/10/2014).
3.5. Vale, altresì, la pena di evidenziare che la disciplina introdotta dal D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276 (che ha sostituito l’art. 1, ultimo comma, della l. 23 ottobre 1960, n. 1369) prevede che, in caso di somministrazione, di appalto o di distacco in violazione di legge, si determini la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze del soggetto che ha utilizzato la prestazione solo in presenza di un’esplicita richiesta del lavoratore interessato (Cass. n. 25014 del 11/12/2015; Cass. n. 31720 del 07/12/2018; Cass. n. 7440 del 08/03/2022), sicché, in assenza della prova della instaurazione di detto rapporto, nemmeno può dirsi legittima la deduzione dei costi conseguenti.
3.6. Infine, sotto altro profilo, nemmeno può giovare al ricorrente il richiamo dell’art. 14, comma 4 bis, della l. n. 537 del 1993.
3.6.1. Invero, in materia di fatture emesse per operazioni inesistenti, la deducibilità dei costi va verificata alla luce dell’art. 8 del D.L. 2 marzo 2012, n. 16, conv. con modif. nella L. 26 aprile 2012, n. 44.
3.6.2. Il comma 1 della menzionata disposizione ha sostituito l’art. 14, comma 4 bis, della L. n. 537 del 1993, nel modo che segue: “Nella determinazione dei redditi di cui all’art. 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, non sono ammessi in deduzione i costi e le spese dei beni o delle prestazioni di servizio direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo per il quale il pubblico ministero abbia esercitato l’azione penale o, comunque, qualora il giudice abbia emesso il decreto che dispone il giudizio ai sensi dell’art. 424 cod. proc. pen., ovvero sentenza di non luogo a procedere ai sensi dell’art. 425 del citato codice fondata sulla sussistenza della causa di estinzione del reato prevista dall’art. 157 cod. pen. Qualora intervenga una sentenza definitiva di assoluzione ai sensi dell’art. 530 cod. proc. pen., ovvero una sentenza definitiva di non luogo a procedere ai sensi dell’art. 425 c.p.p., fondata sulla sussistenza di motivi diversi dalla causa di estinzione indicata nel periodo precedente, ovvero una sentenza definitiva di non doversi procedere ai sensi dell’art. 529 cod. proc. pen., compete il rimborso delle maggiori imposte versate in relazione alla non ammissibilità in deduzione prevista dal periodo precedente e dei relativi interessi”.
3.6.3. L’art. 8, comma 2, del D.L. n. 16 del 2012 prevede, altresì, che “ai fini dell’accertamento delle imposte sui redditi non concorrono alla formazione del reddito oggetto di rettifica i componenti positivi direttamente afferenti a spese o altri componenti negativi relativi a beni o servizi non effettivamente scambiati o prestati, entro i limiti dell’ammontare non ammesso in deduzione delle predette spese o altri componenti negativi”, applicandosi in tal caso solo una sanzione amministrativa.
3.6.4. Le disposizioni in parola trovano applicazione nel caso di operazioni sia soggettivamente sia oggettivamente inesistenti.
3.6.5. Nel primo caso, questa Corte ha già avuto occasione di rilevare, anche sulla scorta della relazione al disegno di legge di conversione del D.L. n. 16 del 2012, che, poiché nel caso di operazioni soggettivamente inesistenti i beni acquistati – di regola (e salvo il caso, ad esempio, in cui il “costo” sia consistito nel “compenso” versato all’emittente il falso documento) – non sono stati utilizzati direttamente per commettere il reato ma, nella maggior parte dei casi, per essere commercializzati, non è più sufficiente il coinvolgimento, anche consapevole, dell’acquirente in operazioni fatturate da soggetto diverso dall’effettivo venditore perché non siano deducibili, ai fini delle imposte sui redditi, i costi relativi a dette operazioni; ferma restando, tuttavia, la verifica della concreta deducibilità dei costi stessi in relazione ai requisiti generali di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità (cfr. Cass. n. 10167 del 20/06/2012; Cass. n. 24426 del 30/10/2013; Cass. n. 26461 del 17/12/2014; Cass. n. 25249 del 07/12/2016; Cass. n. 27566 del 2018, cit.; Cass. n. 32587 del 12/12/2019; Cass. n. 4645 del 21/02/2020).
3.6.6. Con riguardo alle operazioni oggettivamente inesistenti grava sul contribuente l’onere di provare la fittizietà di componenti positivi che, ai sensi dell’art. 8, comma 2, del D.L. n. 16 del 2012, ove direttamente afferenti a spese o altri componenti negativi relativi a beni e servizi non effettivamente scambiati o prestati, non concorrono alla formazione del reddito oggetto di rettifica, entro i limiti dell’ammontare non ammesso in deduzione delle predette spese o altri componenti negativi (Cass. n. 7896 del 2016, cit.; Cass. n. 22430 del 2014, cit.; Cass. n. 25967 del 20/11/2013).
3.7. Nel caso di specie, trattasi indubbiamente di operazioni oggettivamente inesistenti, in quanto l’appalto di servizi è stato escluso dalla CTR con statuizione confermata in questa sede. E a fronte di operazioni oggettivamente inesistenti il contribuente non ha fornito la prova richiesta dalla legge ai fini della deducibilità dei costi sostenuti.
4. Con il quarto motivo di ricorso si deduce la nullità della sentenza, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., per violazione e/o falsa applicazione dell’art.132, n. 4, cod. proc. civ. e dell’art. 36, n. 4, del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, per avere la CTR reso motivazione contraddittoria nella parte in cui ha ritenuto la corresponsione di compensi in nero a diciassette lavoratori, sebbene si sia ritenuto che detti lavoratori siano alle dirette dipendenze di AP.
4.1. Il motivo è infondato.
4.2. La valutazione del giudice di merito fa riferimento ad accertamenti compiuti dalla Guardia di finanza e riprodotti nel PVC e si riferisce a prestazioni rese dai menzionati lavoratori direttamente alla società contribuente, prestazioni da quest’ultima erogate in nero.
4.3. Trattasi di valutazione di merito legittima e per nulla contraddittoria o apparente.
5. Con il quinto motivo di ricorso si contesta violazione e/o falsa applicazione dell’art. 43 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 e dell’art. 57 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., per avere la CTR erroneamente applicato le disposizioni in materia di raddoppio dei termini di accertamento.
5.1. Il motivo e fondato nei limiti di quanto subito si dirà, con esclusivo riferimento all’IRAP.
5.2. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, “i termini previsti dagli artt. 43 del D.P.R. n. 600 del 1973 per l’IRPEF e 57 del d.P.R. n. 633 del 1972 per l’IVA, nella versione applicabile “ratione temporis”, sono raddoppiati in presenza di seri indizi di reato che facciano insorgere l’obbligo di presentazione di denuncia penale, anche se questa sia archiviata o presentata oltre i termini di decadenza, senza che, con riguardo agli avvisi di accertamento per i periodi d’imposta precedenti a quello in corso alla data del 31 dicembre 2016 e già notificati, incidano le modifiche introdotte dall’art. 1, commi da 130 a 132, della L. n. 208 del 2015, attesa la disposizione transitoria ivi introdotta, che richiama l’applicazione dell’art. 2 del D.Lgs. n. 128 del 2015, che fa salvi gli effetti degli avvisi già notificati” (Cass. n. 16728 del 09/08/2016; Cass. n. 22337 del 13/09/2018; Cass. n. 11620 del 14/05/2018; Cass. n. 26037 del 16/12/2016; Cass. n. 11171 del 30/05/2016; Cass. n. 22587 del 11/12/2012).
5.3. Il superiore indirizzo giurisprudenziale, ormai consolidato, ha ampiamente tenuto conto di Corte cost. n. 247 del 2011 ed è stato correttamente applicato dalla CTR, essendo chiaro che il periodo d’imposta di riferimento è il 2009 (indipendentemente dalla circostanza che la dichiarazione sia intervenuta nell’anno successivo).
5.4. Peraltro, “il cd. “raddoppio dei termini”, previsto dall’art. 43 del D.P.R. n. 600 del 1973, non può trovare applicazione anche per l’IRAP, poiché le violazioni delle relative disposizioni non sono presidiate da sanzioni penali” (Cass. n. 10483 del 03/05/2018; conf. Cass. n. 14204 del 24/05/2019; Cass. n. 10973 del 18/04/2019; Cass. 2862 del 31/01/2019; Cass. n. 28713 del 09/11/2018).
5.5. Il motivo va, dunque, accolto in parte qua, ivi comprese le relative sanzioni.
6. Con il sesto motivo di ricorso si contesta la violazione dell’art.7, comma 1, della l. 27 luglio 2000, n. 212, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., per avere la CTR erroneamente ritenuto la legittimità della motivazione dell’avviso di accertamento effettuata per relationem ad un PVC non allegato.
6.1. Il motivo è infondato.
6.2. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, “nel regime introdotto dall’art. 7 della legge 27 luglio 2000, n. 212, l’obbligo di motivazione degli atti tributari può essere adempiuto anche “per relationem”, ovverosia mediante il riferimento ad elementi di fatto risultanti da altri atti o documenti, che siano collegati all’atto notificato, quando lo stesso ne riproduca il contenuto essenziale, cioè l’insieme di quelle parti (oggetto, contenuto e destinatari) dell’atto o del documento necessarie e sufficienti per sostenere il contenuto del provvedimento adottato, la cui indicazione consente al contribuente -ed al giudice in sede di eventuale sindacato giurisdizionale – di individuare i luoghi specifici dell’atto richiamato nei quali risiedono le parti del discorso che formano gli elementi della motivazione del provvedimento” (Cass. n. 1906 del 29/01/2008; Cass. n. 28058 del 30/12/2009; Cass. n. 6914 del 25/03/2011; Cass. n. 13110 del 25/07/2012; Cass. n. 9032 del 15/04/2013; Cass. n. 9323 del 11/04/2017; si veda anche Cass. n. 21066 del 11/09/2017).
6.2.1. Pertanto, la riproduzione del contenuto essenziale dell’atto richiamato dall’avviso di accertamento non si realizza, necessariamente, con la pedissequa trascrizione delle sue parti rilevanti nel contesto dell’atto impositivo, ma anche con la semplice indicazione, in forma riassuntiva, del suo contenuto essenziale, per come apprezzato e valutato dall’Amministrazione finanziaria e, quindi, posto a sostegno della pretesa impositiva.
6.2.2. Ne consegue che l’obbligo di allegazione riguarda i soli atti che non siano stati riprodotti nella loro parte essenziale nell’avviso di accertamento, con esclusione, altresì: a) di quelli cui l’Ufficiò abbia fatto comunque riferimento, i quali, pur essendo considerati irrilevanti ai fini della motivazione, sono comunque utilizzabili per la prova della pretesa impositiva (Cass. n. 24417 del 05/10/2018); b) di quelli di cui il contribuente abbia già integrale o legale conoscenza (Cass. 9323 del 2017, cit.; Cass. n. 407 del 14/01/2015; Cass. n. 18073 del 02/07/2008), tra i quali rientrano certamente anche quelli comunicati al contribuente poi fallito, dovendosi presumere la conoscenza degli stessi da parte del curatore (Cass. n. 24254 del 27/11/2015; Cass. n. 20166 del 07/10/2016; Cass. n. 27628 del 30/10/2018).
6.3. Nel caso di specie, come accertato dalla CTR, l’avviso di accertamento è motivato per relationem al PVC ben noto al contribuente, essendo stato lo stesso a lui comunicato in copia integrale, ivi compresi gli allegati.
6.4. La circostanza, poi, che vi siano atti che non sono stati né prodotti né allegati dall’Ufficio, da un lato, non è in alcun modo dimostrata e, dall’altro, è irrilevante ai fini della motivazione del provvedimento, posto che lo stesso ricorrente riferisce che di detti atti è stata ampiamente fatta menzione nel PVC (documento, peraltro, nemmeno trascritto in ricorso nelle sue parti rilevanti e allegato solo per stralcio).
7. Con il settimo motivo di ricorso si contesta la violazione dell’art. 12, comma 2, della L. n. 212 del 2000, nonché dell’art. 52, primo comma, del D.P.R. n. 633 del 1972, richiamato anche dall’art. 33, primo comma, del D.P.R. n. 600 del 1973, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., per avere la CTR erroneamente ritenuto che il contribuente sia stato perfettamente a conoscenza dei presupposti di fatto e di diritto su cui si basa l’atto impugnato. In particolare, il ricorrente sostiene la carenza, nell’autorizzazione alla verifica rilasciata dal comandante della Guardia di finanza competente, dell’indicazione delle ragioni della medesima.
7.1. Il motivo e inammissibile e, comunque, infondato.
7.2. Il motivo è inammissibile perché non è stata trascritta né allegata l’autorizzazione alla verifica cui si fa riferimento, sicché questa Corte non è nelle condizioni di effettuare alcuna valutazione al riguardo.
7.3. Il motivo è, altresì, infondato in quanto “ove non siano state indicate al contribuente, in sede di verifica, le specifiche ragioni per le quali la stessa è iniziata, motivando gli accessi con generici riferimenti agli indirizzi di programma annuali ovvero al settore economico di particolare interesse, non si configura la nullità dell’atto impositivo per violazione dell’art. 12, comma 2, della L. n. 212 del 2000, atteso che, non essendo tale sanzione espressamente prevista dalla legge, è onere del contribuente dedurre e dimostrare il concreto pregiudizio derivato alla sua difesa dalla denunciata violazione” (Cass. n. 28692 del 09/11/2018; si vedano anche Cass. n. 992 del 21/01/2015; Cass. n. 1299 del 22/01/2020; sull’inesistenza di una espressa sanzione di nullità si veda Cass. n. 13501 del 29/05/2018).
7.4. Nella specie, il contribuente non ha fornito alcuna indicazione concernente il concreto pregiudizio derivato dalla segnalata violazione, tanto più che l’autorizzazione del capo dell’Ufficio ai sensi dell’art. 52 del D.P.R. n. 633 del 1972 non deve essere nemmeno specificamente motivata, trattandosi di mero presupposto procedimentale.
8. Con l’ottavo motivo di ricorso si deduce la violazione dell’art. 42 del D.P.R. n. 600 del 1973, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., per avere la CTR ritenuto l’avviso di accertamento sufficientemente motivato.
8.1. Il motivo è infondato.
8.2. Come già illustrato con riferimento al sesto motivo – e indipendentemente da qualsiasi riferimento del giudice di appello, eventualmente erroneo, all’aliquota – l’avviso di accertamento è stato legittimamente motivato per relationem al PVC regolarmente notificato al contribuente e da quest’ultimo conosciuto.
9. Con il nono motivo di ricorso si contesta la violazione degli artt. 7,16 e 17 del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., per avere la CTR omesso di rilevare che: a) le sanzioni collegate al tributo andrebbero irrogate con atto contestuale all’avviso di accertamento o di rettifica; b) nell’avviso di accertamento non sarebbero richiamati i criteri di calcolo delle sanzioni concretamente applicati e pertanto è impossibile comprendere come l’Agenzia delle Entrate sia pervenuta alla determinazione delle sanzioni amministrative irrogate.
9.1. Il motivo è infondato.
9.2. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, “l’obbligo di motivazione dell’atto di contestazione della sanzione collegata al tributo, imposto dall’art. 16, comma 2, D.Lgs. n. 472 del 1997, opera soltanto quando essa sia irrogata con atto separato e non contestualmente e unitamente all’atto di accertamento o di rettifica, in quanto, in quest’ultimo caso, viene assolto “per relationem” se la pretesa fiscale è definita nei suoi elementi essenziali” (Cass. n. 11610 del 04/05/2021).
9.3. Ne consegue che, sotto il primo profilo, le sanzioni ben possono essere irrogate contestualmente all’avviso di accertamento, come avvenuto nel caso di specie.
9.4. Sotto il secondo profilo, correttamente il giudice di appello ha ritenuto che l’obbligo di motivazione sia stato compiutamente assolto, derivando evidentemente l’aumento della sanzione applicata dalla gravità della condotta.
9.5. Va, comunque ricordato in questa sede che il parziale accoglimento del quinto motivo implica l’annullamento delle sanzioni concernenti l’IRAP.
10. Va, da ultimo, rilevato che il contribuente ha prodotto, unitamente alla memoria ex art. 380 bis.1 cod. proc. civ., la sentenza penale di assoluzione che lo riguarda perché il fatto non sussiste, sentenza sottoposta genericamente alla valutazione del Collegio.
10.1. Orbene, secondo la giurisprudenza di questa Corte, “è producibile in cassazione ex art. 372 c.p.c. la sentenza penale irrevocabile di assoluzione, relativa ai medesimi fatti oggetto della sanzione tributaria controversa, ove il contribuente intenda far valere l’improcedibilità, l’improponibilità o, comunque, l’estinzione, in tutto o in parte, del giudizio tributario per violazione – pur dedotta per la prima volta in sede di legittimità e sempreché pertinente alle questioni ritualmente in giudizio – di principi di ordine pubblico unionale (nella specie, del “ne bis in idem”); diversamente, tale produzione non è ammissibile ai fini delle contestazioni in materia di imposte dirette, per le quali non viene in rilievo l’esigenza di effettività del diritto unionale” (Cass. n. 21694 del 08/10/2020).
10.2. Ne consegue l’inammissibilità della produzione, non costituendo detta sentenza un giudicato esterno in materia tributaria (ma potendo solo costituire una fonte di prova: cfr. Cass. n. 17258 del 27/06/2019) e non avendo il contribuente svolto alcuna osservazione in merito a quanto appena evidenziato.
11. In conclusione, va accolto nei limiti di cui sopra, il quinto motivo di ricorso, rigettati gli altri; la sentenza impugnata va cassata in relazione al motivo accolto e, non essendovi ulteriori questioni di fatto da esaminare, la causa può essere decisa nel merito, con l’accoglimento dell’originario ricorso di Na.Gi. con esclusivo riferimento alla ripresa IRAP e alle conseguenti sanzioni.
11.1. La reciproca soccombenza giustifica l’integrale compensazione tra le parti delle spese dell’intero giudizio.
P.Q.M.
La Corte accoglie il quinto motivo di ricorso nei limiti di cui in motivazione, rigettati gli altri; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e, decidendo nel merito, accoglie l’originario ricorso del ricorrente limitatamente alla ripresa IRAP e alle conseguenti sanzioni; compensa tra le parti le spese dell’intero giudizio.
Così deciso in Roma il 23 maggio 2023.
Depositato in Cancelleria il 19 aprile 2024.