(omissis)
FATTI DI CAUSA
1. L’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso in appello contro la sentenza della Commissione tributaria provinciale che aveva accolto il ricorso della società contribuente, avente ad oggetto l’avviso di accertamento emesso in relazione alle imposte IRES, IRAP ed IVA per l’anno 2008; con l’avviso di accertamento in oggetto l’Ufficio aveva proceduto al disconoscimento dei costi relativi ad alcune fatture emesse dalla Media Stars Srl, per presunta cessione di spazi pubblicitari su autovetture da corsa con apposizione di adesivi recanti il logo con la denominazione dell’azienda stessa, in quanto indeducibili ai sensi dell’art. 109 del TUIR, oltre che al recupero della maggiore Iva dovuta ai sensi dell’art. 19 del D.P.R. n. 633/1972.
2. La Commissione tributaria regionale della Lombardia, con la sentenza indicata in epigrafe, ha accolto parzialmente l’appello proposto dall’Ufficio, osservando: i) che la società aveva dedotto costi per spese di pubblicità per Euro 150.000,00 oltre Iva al 20%, a seguito di un contratto di sponsorizzazione con la Media Stars Srl per la concessione di spazi pubblicitari su auto da corsa mediante la posizione di adesivi recanti il logo con la denominazione dell’azienda cliente; ii) che dall’esame degli atti emergeva che questa società non aveva una struttura propria, né beni strumentali, né dipendenti, e che tutta l’attività organizzativa e amministrativa era stata svolta da un tale (omissis), che non rappresentava in alcun modo la Media Stars Srl, perché non facente parte della compagine societaria; iii) ancora, che questa società aveva contabilizzato fatture emesse dalla società IGP Decaux Spa, società che non aveva intrattenuto rapporti con la predetta Media Stars Srl, e dunque emesse per operazioni oggettivamente inesistenti; iv) che per le operazioni oggettivamente o anche soggettivamente inesistenti non può riconoscersi il diritto alla detrazione dell’Iva, né sulla scorta della regolarità formale della contabilità di impresa, né sulla base del solo fatto dell’avvenuta corresponsione dell’imposta formalmente indicata in fattura, richiedendosi, altresì, il requisito dell’inerenza dell’operazione stessa all’attività di impresa e che, nella specie, era da confermare l’indetraibilita dell’Iva perche afferente ad operazioni soggettivamente insistenti; v) che perché il costo possa essere incluso tra le componenti negative del reddito occorre provare che la spesa si riferisce ad attività da cui derivano ricavi e proventi che concorrono a formare il reddito d’impresa; v) che, nel caso di specie, le sponsorizzazioni non erano idonee ad incrementare la vendita di prodotti commercializzati dall’appellativo, ma avevano lo scopo di accrescere il prestigio dell’impresa e quindi i conseguenti costi dovevano essere inquadrati fra le spese di rappresentanza e non già tra le spese pubblicitarie di propaganda, tendenti, in prevalenza, alla pubblicizzazione dell’attività svolta; vi) che così riqualificate, le spese di rappresentanza erano deducibili nella misura dell’1,3% dei ricavi e altri proventi e dunque, tenuto conto della altre deduzioni operate per tale scopo nell’anno 2008, per l’importo importo di Euro 74.167,43 e non già di Euro 150.000.
3. Avverso la predetta sentenza ricorre, con cinque motivi, illustrati con memoria difensiva depositata in data 2 settembre 2024, la EREDI SCABINI Srl.
4. L’Amministrazione finanziaria resiste con controricorso, espressamente dichiarando di non voler censurare con ricorso incidentale la statuizione dei giudici di appello che ha qualificato i costi in esame quali spese di rappresentanza, riducendone l’importo deducibile.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Preliminarmente, deve rilevarsi che, con memoria ex art. 380-bis. 1 cod. proc. civ., la società ricorrente ha eccepito l’esistenza di un giudicato esterno relativo ad analoghe violazioni, peraltro contestate in relazione a differenti anni di imposta. A tal fine ha prodotto copia della sentenza della CTR della Lombardia n. 2042/2016, che afferma non essere stata impugnata dall’Ufficio, relativa all’anno di imposta 2009, nonché copia della sentenza della Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado della Lombardia, n. 1924/2023 del 30.05.2023, relativa all’anno di imposta 2010.
1.1. A tale riguardo, si osserva, in primo luogo, che, secondo la giurisprudenza di questa Corte affinché il giudicato esterno possa fare stato nel processo è necessaria la certezza della sua formazione, che deve essere provata, pur in assenza di contestazioni, attraverso la produzione della sentenza munita del relativo attestato di cancelleria (Cass., 23 agosto 2018, n. 20974); la parte che eccepisce il giudicato esterno ha, dunque, l’onere di fornirne la prova, non soltanto producendo la sentenza emessa in altro procedimento, ma anche corredandola della idonea certificazione ex art. 124 disp. att. cod. proc. civ., dalla quale risulti che la stessa non è soggetta ad impugnazione, non potendosi ritenere che la mancata contestazione di controparte sull’affermato passaggio in giudicato significhi ammissione della circostanza, né che sia onere della controparte medesima dimostrare l’impugnabilità della sentenza (cfr. Cass., 2 marzo 2022, n. 6868).
Tanto rilevato, si osserva che le prodotte copie delle sentenze menzionate, pur certificate conformi all’originale, non recano la certificazione di definitività.
1.2. Deve comunque escludersi che il giudicato intervenuto tra le stesse parti in relazione al medesimo tributo, e relativo ad un singolo periodo d’imposta, sia idoneo, ex se, a “fare stato”, in via generalizzata, per ulteriori periodi, precedenti o successivi, potendo avere un tale effetto solo in relazione a quelle statuizioni che siano relative a qualificazioni giuridiche, o ad altri eventuali elementi preliminari caratterizzati dalla durevolezza nel tempo. L’efficacia di giudicato su di un’annualità estende dunque i suoi effetti anche alle altre nel caso in cui vengano in esame fatti che, per legge, hanno durata pluriennale e sono idonei a produrre effetti lungo un arco temporale che comprende più periodi d’imposta; tali fatti sono allora suscettibili di essere considerati, ai presenti fini, come un unico periodo d’imposta (Cass., 24 maggio 2022, n. 16684).
1.3. Si è infatti precisato che la sentenza del giudice tributario che definitivamente accerti il contenuto e l’entità degli obblighi del contribuente per un determinato periodo d’imposta fa stato, quanto ai tributi dello stesso tipo da questi dovuti per gli anni successivi, solo per gli elementi che abbiano un valore “condizionante” inderogabile rispetto alla disciplina esaminata, sicché laddove risulta una situazione fattuale riferita ad uno specifico periodo d’imposta, essa non può estendere i suoi effetti automaticamente ad un’altra annualità, ancorché siano coinvolti tratti storici comuni (cfr., ex pluris, Cass. n. 20586/2019; Cass. 5210/20108; Cass. nn. 22941/2013, 1837/2014, richiamate da Cass. n. 37936 del 19.10.2021, citata dal ricorrente nella memoria difensiva e pronunciata tra le medesime parti in relazione a differente anno di imposta).
1.4. Nel caso di specie, le circostanza di fatto e di diritto poste a fondamento degli accertamenti – quali ad esempio, l’inerenza della sponsorizzazione o il concreto svolgimento dell’attività di sponsorizzazione per l’anno d’imposta oggetto di giudizio – non sono le medesime per entrambi gli anni d’imposta, essendo collegate a condotte modificabili nel tempo e nello spazio e per tale motivo non passibili di divenire immodificabili in relazione ad un determinato anno d’imposta, in relazione alle condotte dei soggetti che hanno svolto volta per volta l’attività ed in relazione alle modalità con le quali le attività sono state effettuate.
Pertanto, l’eccezione è respinta.
2. Con il primo motivo di ricorso, la società contribuente lamenta, in relazione all’art. 360, primo comma n. 5, cod. proc. civ., “il vizio motivazionale che inficia la sentenza della CTR di Milano in considerazione delle incoerenti ragioni con cui il Giudice di Secondo Grado ritiene non completamente deducibili le spese di sponsorizzazione”.
3. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia la “Violazione e falsa applicazione di legge ai sensi dell’art. 360 comma primo n. 3 c.p.c. in relazione all’art. 2697 c.c.”, affermando che, contrariamente a quanto sostenuto dalla CTR di Milano, la contribuente ha adempiuto all’onere probatorio, dimostrando non solo la congruità dei costi sostenuti ai fini della sponsorizzazione in rapporto all’attività caratteristica ed al volume d’affari che ne costituiva il risultato, ma pure la loro idoneità ad ampliare le prospettive di crescita dell’impresa nell’ambito territoriale beneficiato dalle attività di sponsorizzazione.
4. Con il terzo strumento di impugnazione, con cui denuncia l'”errore di diritto ai sensi dell’art. 360 comma primo n. 3 cpc nell’applicazione dell’art. 109 comma 5 TUIR”, la ricorrente si duole del mancato riconoscimento della detrazione dell’Iva, allegando che il giudice di secondo grado, non solo non avrebbe considerato come l’Amministrazione non avesse fornito alcuna prova dell’inesistenza dell’operazione, ma avrebbe anche completamente ignorato le prove di segno contrario fornite dal contribuente ponendosi così in contrasto con il dettato della norma di cui all’art. 109 TUIR, così come interpretato dalla consolidata giurisprudenza.
5. Con il quarto motivo di ricorso, si denuncia l'”omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio” in relazione all’art. 360, primo comma. n. 5 cpc, per non avere la CTR di Milano deliberato in merito alla sollevata nullità in primo grado dell’avviso di accertamento per vizio del potere rappresentativo in capo al funzionario che ha sottoscritto, “su delega del direttore provinciale Ag.An.”, l’avviso di accertamento impugnato.
6. Con il quinto motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 primo comma, n. 3 cod. proc. civ. la errata applicazione dell’art. 42, D.P.R. n. 600/1973 e dell’art. 56 D.P.R. 633/1972, per non avere la CTR rilevato la nullità dell’avviso di accertamento impugnato, sottoscritto per delega da uno dei dirigenti dell’Agenzia delle Entrate decaduti ex tunc in seguito alla pronuncia della Corte costituzionale n. 37 del 17/03/2015.
7. Il primo motivo di ricorso è inammissibile.
La ricorrente, infatti, sembra dolersi più della scelta argomentativa adottata dai giudici d’appello a sostegno della loro decisione che non del mancato esame di una specifica circostanza, come palesa la stessa intestazione del motivo, che censura “il vizio motivazionale che inficia la sentenza della CTR di Milano in considerazione delle incoerenti ragioni…”.
Anche ove si indicano elementi fattuali specifici, ed in particolare il fatto che la sponsorizzazione prevedeva l’apposizione di adesivi sulle automobili da corsa, la contribuente, in concreto, si limita a proporre una differente interpretazione di tali elementi rispetto a quella espressa dai giudici di appello.
7.1. La deduzione deve ritenersi non più consentita alla luce dell’insegnamento reso da questa Corte a Sezioni Unite (si veda la sentenza n. 8053/2014, ove è affermato che il sindacato di cui all’art. 360, comma primo, n. 5, cod. proc. civ., deve oggi ritenersi circoscritto al cd. “minimo costituzionale”, limitato ai casi di “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, di “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e di “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione).
8. Anche il secondo motivo non supera il vaglio di ammissibilità.
8.1. La disamina operata dalla CTR esclude la fondatezza della doglianza della società contribuente, la quale, ancorché proposta in termini di violazione di legge, si risolve in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento del giudice, tesa all’ottenimento di una nuova pronuncia di fatto, certamente estranea alla natura e ai fini del giudizio di cassazione (Cass., Sez. U., 25/10/2013, n. 24148).
8.2. La violazione del precetto di cui all’art. 2697 cod. civ. si configura unicamente nell’ipotesi in cui il giudice di merito abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era gravata in applicazione di detta norma, non anche quando il ricorrente intenda lamentare che, a causa di una incongrua valutazione delle acquisizioni istruttorie, la sentenza impugnata abbia ritenuto erroneamente che la parte onerata non avesse assolto tale onere (Cass., Sez. 2, 21/3/2022, n. 9055), come invece sostanzialmente preteso oggi dalla ricorrente.
9. Il terzo motivo è infondato.
9.1. La CTR ha confermato la indetraibilità dell’Iva “perché afferente ad operazioni soggettivamente inesistenti”.
La statuizione è conforma all’orientamento di questa Suprema Corte, che ha affermato che “L’operazione soggettivamente inesistente si configura, invero, sia quando l’emittente della fattura non sia un soggetto passivo di imposta, sia quando la falsità delle fatture riguarda operazioni avvenute tra soggetti diversi da quelli che appaiano nella documentazione; segnatamente, nel caso in cui l’Amministrazione ritenga che la fattura attenga ad operazioni solo soggettivamente inesistenti, e cioè che la fattura sia stata emessa da soggetto diverso da quello che ha effettuato la cessione o la prestazione in essa rappresentata (e della quale il cessionario o il committente sia stato realmente destinatario), la detraibilità dell’IVA deve essere, in linea di principio, esclusa, venendo a mancare lo stesso principale presupposto della detrazione, costituito dall’effettuazione di un’operazione ai sensi dell’art. 19, comma 1, D.P.R. n. 633 del 1972, presupposto da ritenersi carente anche nel caso in cui i termini soggettivi dell’operazione non coincidano con quelli della fatturazione (Cass., 13 novembre 2009, n. 23987 del 2009; Cass. 12 marzo 2007, n. 5719; Cass. n. 7066 del 15/03/2024). In tal caso, infatti, come evidenziato da questa Corte, l’imposta viene versata ad un soggetto non legittimato alla rivalsa, né assoggettato all’obbligo di pagamento dell’imposta, in quanto le fatture sono emesse da un soggetto che non è stato controparte nel rapporto relativo alle operazioni fatturate, da ritenersi “inesistenti” (Cass., 30 ottobre 2013, n. 24426).
9.2. In sostanza, in caso di emissione di fattura per operazioni inesistenti, l’IVA versata (come previsto dall’art. 21, comma 7, D.P.R. 6 n. 633 del 1972) alla non genuina controparte, va considerata (proprio per le finalità del complessivo sistema IVA) come “fuori conto”, e cioè “isolata” dalla massa di operazioni effettuate ed “estraniata” dal meccanismo di compensazione tra IVA “a valle” ed IVA “a monte” che presiede alla detrazione d’imposta di cui all’art. 19 D.P.R. n. 633 del 1972 (Cass.,13 marzo 2013, n. 6229; Cass., 20 luglio 2020, n. 15369, in motivazione).
9.3. È pur vero che questa Corte ha peraltro affermato che “In tema di IVA relativa ad operazioni soggettivamente inesistenti, il contribuente ha il diritto di detrarre l’imposta solo provando, ai sensi dell’art. 2697 c.c., di non aver saputo o di non poter sapere di aver preso parte ad un’operazione fraudolenta” (cfr. Cass. n. 25474 del 29/08/2022), ma nulla si deduce nel motivo di ricorso in merito a tali profili. La società lamenta esclusivamente che la CTR non abbia correttamente valutato gli elementi addotti al fine di dimostrare l’esistenza oggettiva delle operazioni e l’inerenza dei relativi costi, con argomenti che pertanto non contrastano efficacemente la ratio decidendi espressa dalla Commissione territoriale.
10. Il quarto motivo è inammissibile e comunque manifestamente infondato.
10.1. è inammissibile in quanto denuncia la violazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ., senza individuare il fatto storico di cui la CTR avrebbe pretesamente omesso l’esame.
10.2. Quand’anche, poi, si avesse a ritenere che in realtà la denuncia sia volta a far constare un’omessa pronuncia, rilevante, tuttavia, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, cod. proc., come parrebbe lasciar intendere lo sviluppo motivazionale del motivo, il motivo sarebbe comunque inammissibile perché disattende il costante principio secondo cui, “nel giudizio di legittimità, la deduzione del vizio di omessa pronuncia, ai sensi dell’art. 112 c.p.c., postula, per un verso, che il giudice di merito sia stato investito di una domanda o eccezione autonomamente apprezzabili e ritualmente e inequivocabilmente formulate e, per altro verso, che tali istanze siano puntualmente riportate nel ricorso per cassazione nei loro esatti termini e non genericamente o per riassunto del relativo contenuto, con l’indicazione specifica, altresì, dell’atto difensivo e/o del verbale di udienza nei quali l’una o l’altra erano state proposte, onde consentire la verifica, innanzitutto, della ritualità e della tempestività e, in secondo luogo, della decisività delle questioni prospettatevi. Pertanto, non essendo detto vizio rilevabile d’ufficio, la Corte di cassazione, quale giudice del “fatto processuale”, intanto può esaminare direttamente gli atti processuali in quanto, in ottemperanza al principio di autosufficienza del ricorso, il ricorrente abbia, a pena di inammissibilità, ottemperato all’onere di indicarli compiutamente, non essendo essa legittimata a procedere ad un’autonoma ricerca, ma solo alla verifica degli stessi” (cfr. Cass. Sez. 2, 14 ottobre 2021, n. 28072).
10.2.1. Ciò tanto più in quanto “la parte che, in sede di ricorso per cassazione, deduce che il giudice di appello sarebbe incorso nella violazione dell’art. 112 c.p.c. per non essersi pronunciato su un motivo di appello o, comunque, su una conclusione formulata nell’atto di appello, è tenuta, ai fini dell’astratta idoneità del motivo ad individuare tale violazione, a precisare – a pena di inammissibilità – che il motivo o la conclusione sono stati mantenuti nel giudizio di appello fino al momento della precisazione delle conclusioni” (Cass., Sez. 3, 22 dicembre 2021, n. 41205), onere che non è stato adempiuto, in quanto la società ricorrente si è limitata ad allegare (v. p. 12 del ricorso) che la questione era stata ritualmente sollevata nella memoria integrativa di primo grado depositata avanti alla CTP di Pavia, senza nulla precisare in merito alla sua deduzione anche in appello.
10.3. Ad ogni modo, neppure si versa in ipotesi di omessa pronuncia, ricorrendo invece un’ipotesi di implicita pronuncia di rigetto.
10.4. Deve richiamarsi, in proposito, l’orientamento di questa Corte secondo cui “il vizio di omessa pronuncia su una domanda o eccezione di merito, che integra una violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e il pronunciato ex art. 112 cod. proc. civ., si ha quando vi sia omissione di qualsiasi decisione su di un capo di domanda, intendendosi per capo di domanda ogni richiesta delle parti diretta ad ottenere l’attuazione in concreto di una volontà di legge che garantisca un bene all’attore o al convenuto e, in genere, ogni istanza che abbia un contenuto concreto formulato in conclusione specifica, sulla quale deve essere emessa pronuncia di accoglimento o di rigetto” (Cass., 26 gennaio 2021, n. 1616; Cass., 27 novembre 2017, n. 28308).
10.5. Inoltre, secondo costante giurisprudenza, “ad integrare gli estremi del vizio di omessa pronuncia non basta la mancanza di un’espressa statuizione del giudice, ma è necessario che sia stato completamente omesso il provvedimento che si palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto: ciò non si verifica quando la decisione adottata comporti la reiezione della pretesa fatta valere dalla parte, anche se manchi in proposito una specifica rigetto quando la pretesa avanzata col capo di domanda non argomentazione, dovendo ravvisarsi una statuizione implicita di espressamente esaminato risulti incompatibile con l’impostazione logico-giuridica della pronuncia” (Cass., 4 ottobre 2011, n. 20311; Cass., 10 maggio 2007, n. 10696; Cass., 26 novembre 2013, n. 26397; Cass., 18 giugno 2018, n. 15936).
10.6. Anche di recente, questa Corte ha affermato che “Non ricorre il vizio di mancata pronuncia su una eccezione di merito sollevata in appello qualora essa, anche se non espressamente esaminata, risulti incompatibile con la statuizione di accoglimento della pretesa dell’attore, deponendo per l’implicita pronunzia di rigetto dell’eccezione medesima, sicché il relativo mancato esame può farsi valere non già quale omessa pronunzia, e, dunque, violazione di una norma sul procedimento (art. 112 c.p.c.), bensì come violazione di legge e difetto di motivazione, in modo da portare il controllo di legittimità sulla conformità a legge della decisione implicita e sulla decisività del punto non preso in considerazione” (cfr. Cass. 19 gennaio 2023 n. 1636; Cass., 12 aprile 2022, n. 11717; Cass., 6 novembre 2020, n. 24953).
10.7. Il vizio di mancata corrispondenza tra chiesto e pronunciato, di cui all’art. 112 cod. proc. civ., riguarda, dunque, soltanto l’ambito oggettivo della pronunzia e non anche le ragioni di diritto e di fatto assunte a sostegno della decisione (Cass., 26 gennaio 2021, n. 1616).
11. Il quinto motivo di ricorso, che richiama, sotto il diverso profilo della violazione di legge, con riflessi sulla validità dell’atto, la censura relativa alla delega di firma al funzionario dell’Agenzia delle entrate, è infondato.
11.1. Incontestato (per stessa ammissione del ricorrente – v. p. 13 del ricorso) che l’atto impugnato sia stato sottoscritto da funzionario ritualmente delegato dal Direttore dell’Ufficio, va premesso che sul tema della sottoscrizione degli atti impositivi tributari questa Corte, con decisione condivisa (Cass. n. 11013/2019; conf. ex multis Cass. n. 11778/2023), ha affermato che la delega alla sottoscrizione dell’avviso di accertamento ad un funzionario diverso da quello istituzionalmente competente ex art. 42 del D.P.R. n. 600 del 1973 ha natura di delega di firma – e non di funzioni – poiché realizza un mero decentramento burocratico senza rilevanza esterna, restando l’atto firmato dal delegato imputabile all’organo delegante, con la conseguenza che, nell’ambito dell’organizzazione interna dell’ufficio, l’attuazione di detta delega di firma può avvenire anche mediante ordini di servizio, senza necessità di indicazione nominativa, essendo sufficiente l’individuazione della qualifica rivestita dall’impiegato delegato, la quale consente la successiva verifica della corrispondenza tra sottoscrittore e destinatario della delega stessa (v. di recente Cass. n. 6678/2023).
11.2. Il principio è stato precisato anche in rapporto all’intervento della Consulta in ordine alla decadenza del firmatario nell’inquadramento nella dirigenza dell’Agenzia delle entrate, affermando che in tema di accertamento tributario, ai sensi dell’art. 42, primo e terzo comma, del D.P.R. n. 600 del 1973, gli avvisi di accertamento in rettifica e gli accertamenti d’ufficio devono essere sottoscritti a pena di nullità dal capo dell’ufficio o da altro funzionario delegato di carriera direttiva, cioè da un funzionario di area terza di cui al contratto del comparto agenzie fiscali per il quadriennio 2002-2005, di cui non è richiesta la qualifica dirigenziale, con la conseguenza che nessun effetto sulla validità di tali atti può conseguire dalla declaratoria d’incostituzionalità dell’art. 8, comma 24, del D.L. n. 16 del 2012, convertito dalla L. n. 44 del 2012 (cfr. ex multis Cass. Sez. 5, n. 5177/2020).
12. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato, con conseguente condanna della ricorrente al rimborso, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 5.600,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito. Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 18 settembre 2024.
Depositato in Cancelleria l’11 novembre 2024.