• Home
  • >
  • Cassazione civile sez. trib., 10/09/2025, n. 24937

Cassazione civile sez. trib., 10/09/2025, n. 24937

Massima

In sede di ricorso per Cassazione contro la sentenza di merito che annulla il diniego dell’istanza di condono tombale (ex articolo 9 della L. n. 289/2002), è inammissibile il motivo di ricorso proposto in via sussidiaria ai sensi dell’articolo 360, comma primo, numero 5, del codice di procedura civile, laddove esso lamenti l’omesso esame di punti di fatto decisivi, specificamente se l’istanza di condono fosse viziata per costituire atto in frode alla legge.

Supporto alla lettura

RICORSO PER CASSAZIONE

Il ricorso per cassazione (artt. 360 e ss. c.p.c.) è un mezzo di impugnazione ordinario che consente di impugnare le sentenze pronunciate in unico grado o in grado d’appello, ma solo per errori di diritto, non essendo possibile dinanzi alla Suprema Corte valutare nuovamente il merito della controversia come in appello. Di solito è ammessa solo la fase rescindente in quanto il giudizio verte sull’accertamento del vizio e sulla sua eventuale cassazione, il giudizio rescissorio spetta al giudice di rinvio. Solo nel caso in cui non dovessero risultare necessari ulteriori accertamenti in cassazione, avvengono entrambi i giudizi.

La sua proposizione avviene nel termine (perentorio) di 60 giorni (c.d. termine breve), è previsto un ulteriore termine (c.d. lungo) che scade 6 mesi dopo la pubblicazione della sentenza.

Per quanto riguarda i motivi di ricorso l’art. 360 c.p.c dispone che le sentenze possono essere impugnate:

  • per motivi attinenti alla giurisdizione,
  • per violazione delle norme sulla competenza, quando non è prescritto il regolamento di competenza;
  • per violazione o falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro;
  • per nullità della sentenza o del procedimento;
  • per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti.

Inoltre può essere impugnata con ricorso per cassazione una sentenza appellabile del tribunale se le parti sono d’accordo per omettere l’appello (art. 360, c. 1, n. 3, c.p.c.), mentre non sono immediatamente impugnabili per cassazione le sentenze che decidono di questioni insorte senza definire, neppure parzialmente, il giudizio, in questo caso il ricorso può essere proposto senza necessità di riserva quando sia impugnata la sentenza che definisce, anche parzialmente il giudizio.

Il ricorso per cassazione è inammissibile (art. 360 bis c.p.c) quando il provvedimento impugnato ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte e l’esame dei motivi non offre elementi per confermare o mutare l’orientamento della stessa, oppure quando è manifestamente infondata la censura relativa alla violazione dei principi regolatori del giusto processo.

A pena di inammissibilità sono previsiti determinati requisiti di forma:

  • la sottoscrizione da parte di un avvocato iscritto in apposito albo e munito di procura speciale;
  • l’indicazione delle parti;
  • l’illustrazione sommaria dei fatti di causa;
  • l’indicazione della procura se conferita con atto separato e dell’eventuale decreto di ammissione al gratuito patrocinio;
  • l’indicazione degli atti processuali, dei contratti o accordi collettivi o dei documenti sui quali si fonda il ricorso;
  • i motivi del ricorso con l’indicazione delle norme di diritto su cui si fondano.

Il ricorso va depositato, a pena di improcedibilità, entro 20 giorni dall’ultima notifica fatta alle parti contro le quali è proposto.

Chi intende resistere al ricorso per cassazione può depositare controricorso e deve essere fatto entro 40 giorni dalla notificazione del ricorso, insieme agli atti e ai documenti, e con la procura speciale se conferita con atto separato.

Ambito oggettivo di applicazione

FATTI DI CAUSA

La Soc. Ma. Srl -esercente l’attività di compravendita immobiliare in Francavilla al Mare- si vedeva negare in data 28 luglio 2011 l’istanza di condono tombale, ex articolo 9 della legge 289 del 2002, presentata per l’anno 2002.

Nello specifico, l’Ufficio ricostruiva la complessa vicenda che si poneva come autonomo capitolo della più complessa indagine a carico del gruppo Mythos, che aveva portato all’emersione di un consistente numero di società fittizie, funzionali all’abbattimento fiscale in favore di altri soggetti clienti del gruppo, con consistente danno erariale e responsabilità per frodi fiscali accertate in diverse condanne penali.

Nello specifico, l’Ufficio rilevava che nel luglio del 2002 la Balmo Sas (riferibile ad un collaboratore dei vertici Mythos) aveva proceduto alla costituzione della società in accomandita semplice Ara, con conferimento di ramo d’azienda stimato per oltre quattro milioni e mezzo di euro, sulla base di riserva di conferimento, poi volturata a plusvalenza da conferimento e come tale iscritta nello stato patrimoniale della società conferente. La Balmo aveva poi ceduto la partecipazione totalitaria nella soc. Ara Sas alla società Ma., omonima dell’odierna fallita controricorrente, cui poi era pervenuta e che aveva poi proceduto all’incorporazione della stessa Ara Sas, così acquisendo il suddetto valore di avviamento dell’apparente ramo di azienda iscritto e cominciando a dedurne annualmente le quote di ammortamento. Questa ed altre operazioni erano avvenute a prezzo notevolmente inferiore alle scritture contabili, nell’ordine del centinaio di euro, consentendo così l’esposizione di crediti d’imposta per ritenuta d’acconto asseritamente subite dalla “Professionisti Associati”, società semplice collegata al gruppo e di cui la società Ma., sempre nel 2002, aveva acquistato il 25% dell’usufrutto al prezzo di 25 euro. Il credito d’imposta maturato era stato esposto negli anni 2002, 2003 e 2004, riscuotendo anche il credito d’imposta nell’anno 2003. Il disconoscimento delle operazioni per la deduzione dell’avviamento per gli anni 2003-2007 si traduceva in ripresa a tassazione confermata con sentenza, poi definitiva, della CTR per la Lombardia numero 151/38/13, evidenziando l’Ufficio come gli artifizi contabili avessero prodotto, fra l’altro, l’incredibile valore nominale di oltre 24 milioni di Euro a titolo di avviamento maturato in capo ad una società di persone ed in un lasso temporale di soli tre mesi.

Ritenendo quindi che l’istanza di condono tombale fosse funzionale a rendere definitivo ed intangibile il credito di imposta per l’anno 2002, l’Ufficio negava l’accesso alla procedura clemenziale, rilevandone il carattere fraudolento.

Avverso questo provvedimento spiccava ricorso la società Ma., trovando apprezzamento delle proprie ragioni che erano confermate in appello, pur con diversa motivazione.

Nelle more dell’appello, la società contribuente era poi dichiarata fallita con sentenza del Tribunale di Chieti numero 16 in data 14 luglio 2015.

Ricorre per Cassazione l’Amministrazione finanziaria affidandosi a due strumenti cassatori, cui replica con tempestivo controricorso la curatela fallimentare della società contribuente.

In prossimità della pubblica udienza il sost. Procuratore Generale, in persona della dott.ssa Paola Filippi, ha depositato requisitoria in forma di memoria, chiedendo il rigetto del ricorso.

RAGIONI DELLA DECISIONE

Vengono proposti due motivi di ricorso.

Con il primo motivo si solleva censura ai sensi dell’articolo 360 numero 3 del codice di procedura civile per violazione e falsa applicazione degli articoli 1344,2729 e 2697 del codice civile, nonché dell’articolo 9 della legge numero 289 del 2002.

Nello specifico, l’Avvocatura generale dello Stato critica la sentenza impugnata ove ha negato la ripresa a tassazione sui seguenti tre argomenti: l’articolo 9 della prefata legge numero 289 del 2002, al suo quattordicesimo comma, contiene un’elencazione tassativa di ipotesi nelle quali può essere negato il condono. Fra queste non vi sono i motivi che fondano il provvedimento dell’Ufficio, il cui annullamento è quindi confermato con la sentenza qui in scrutinio. In secondo luogo, la dichiarazione o istanza di accesso alla procedura clemenziale di cui al predetto articolo 9 non sarebbe equiparabile a un contratto di scambio, donde non può essere considerato negozio in frode alla legge. In terzo luogo, la dichiarazione o istanza di condono era estranea alla frode sopra descritta, perché quest’ultima fu ideata nei primi mesi del 2002, mentre i lavori parlamentari che sfociarono nella disciplina del condono iniziarono solo nell’ottobre del 2002.

Solo per completezza, va ricordato come la sentenza in scrutinio neghi la continuazione di cui all’articolo 81 del codice penale per cui la richiesta di condono non potrebbe costituire l’ultimo atto dell’unica frode fiscale tesa a beneficiare dell’artificioso credito d’imposta maturato.

Con il secondo motivo, posto espressamente in maniera sussidiaria, si profila censura ai sensi dell’articolo 360 numero 5 del codice di rito civile, per omesso esame di punti di fatto decisivi, segnatamente se l’istanza di condono fosse valida o, invece, viziata per costituire atto in frode alla legge.

Si può prescindere dalle eccezioni in rito sollevate dalla parte contribuente, poiché il ricorso è infondato nel merito.

Richiamato l’argomento formale per cui il negozio in frode alla legge non rientra nell’elencazione tassativa delle ipotesi di annullamento del condono, come indicato nell’art. 9, quattordicesimo comma, della L. n. 289/2002, occorre ribadire l’argomento sostanziale, ovvero che il condono, definito “tombale”, è stato voluto proprio per definire ipotesi di violazione della legalità, tramite una procedura agevolata ed alternativa alla repressione ordinaria, da cui deriva l’ampiezza della portata dell’istituto, chiamato a coprire il maggior numero di fattispecie per la chiusura definita delle ipotesi di violazione di norme precettive e dei doveri tributari. Ne consegue che non può farsi interpretazione analogica (art. 12 disp. prel. cod. civ.) per una disposizione di legge che è speciale (art. 14 disp. prel. cod. civ.), quindi annullabile solo nei casi previsti espressamente e tassativamente.

Più radicalmente, peraltro, l’Ufficio non ha dimostrato quali fossero gli atti fraudolenti a monte, di cui il condono sarebbe la naturale continuazione, ai sensi dell’art. 81 c.p., da cui far scaturire il negozio in frode alla legge. In altri termini, la sequenza di passaggi societari precedenti non ha legame univoco con il condono. Ed in questo senso è pienamente condivisibile il ragionamento della commissione di merito, nella tripartizione sopra riassunta.

Sotto diverso profilo, non ha ragion d’essere il timore del Patrono pubblico, dove paventa un consolidamento del credito fiscale in capo alla contribuente, che diverrebbe intangibile in ragione della procedura di condono.

Così non è. Ed infatti, questa Corte, a Sezioni Unite, ha avuto modo di statuire che in tema di cd. “condono tombale”, l’Erario può accertare i crediti da agevolazione esposti dal contribuente nella dichiarazione, in quanto il condono – avendo come scopo il recupero di risorse finanziarie e la riduzione del contenzioso e non già l’accertamento dell’imponibile – elide in tutto o in parte, per sua natura, il debito fiscale, ma non opera sui crediti che il contribuente possa vantare nei confronti del fisco, che restano soggetti all’eventuale contestazione da parte dell’Ufficio (cfr. Cass. S.U. n. 16692/2017; conformi Cass. V, n. 32257/2018; n. 13988/2022). Ne consegue che resta intatto il potere dell’Amministrazione finanziaria di contestare il credito fiscale che la contribuente (o, in sua vece, la procedura concorsuale) dovesse esporre. In altri termini, il vantaggio fiscale paventato nel ricorso erariale non po’ configurarsi, alla luce delle citate sentenze, per il vero, successive al ricorso.

Infondato il primo motivo, occorre procedere ad esaminare il secondo.

Il secondo motivo è inammissibile.

Vi si contesta l’omesso esame di punti essenziali, segnatamente se l’istanza di condono fosse valida o viziata per essere negozio in frode alla legge.

Trattasi, all’evidenza, non di omesso esame del fatto, ma di censura alla valutazione critica del fatto, cioè se la domanda di condono fosse o meno conforme al paradigma legale tipico.

Come è noto, il ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale, ma solo la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza e di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente la prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (Cass. 4 novembre 2013 n. 24679; Cass. 16 novembre 2011 n. 27197; Cass. 6 aprile 2011 n. 7921; Cass. 21 settembre 2006 n. 20455; Cass. 4 aprile 2006 n. 7846; Cass. 9 settembre 2004 n. 18134; Cass. 7 febbraio 2004 n. 2357).

Né il giudice del merito, che attinga il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili, è tenuto ad un’esplicita confutazione degli altri elementi probatori non accolti, anche se allegati dalle parti (ad es.: Cass. 7 gennaio 2009 n. 42; Cass. 17 luglio 2001 n. 9662).

Per completezza argomentativa, quanto alla denuncia di vizio di motivazione, poiché è qui in esame un provvedimento pubblicato dopo il giorno 11 settembre 2012, resta applicabile ratione temporis il nuovo testo dell’art. 360, comma primo, n. 5) c.p.c. la cui riformulazione, disposta dall’art. 54 del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito dalla legge 7 agosto 2012, n. 134, secondo le Sezioni Unite deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (Cass. Sez.Un. 7 aprile 2014 n. 8053).

Donde l’inammissibilità del motivo.

In definitiva, il ricorso è infondato e dev’essere rigettato.

Le spese seguono la regola della soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

Rilevato che risulta soccombente parte ammessa alla prenotazione a debito del contributo unificato per essere amministrazione pubblica difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, non si applica l’art. 13, comma 1 – quater, del D.P.R. 30 maggio 2002 n. 115.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna l’Agenzia delle entrate alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità a favore della parte contribuente, che liquida in Euro.settemilaottocento/00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 6 febbraio 2025.

Depositata in Cancelleria il 10 settembre 2025.

Allegati

    [pmb_print_buttons]

    Accedi