• Home
  • >
  • Cassazione civile sez. trib., 09/09/2025, n. 24816

Cassazione civile sez. trib., 09/09/2025, n. 24816

Massima

In tema di IVA, il diritto alla detrazione dell’imposta relativa a spese di ristrutturazione di immobili strumentali all’attività d’impresa non può essere negato in forza dell’astratta classificazione catastale dell’immobile ad uso abitativo. La valutazione della strumentalità di un bene rispetto all’attività imprenditoriale deve, infatti, essere effettuata in concreto, tenendo conto dell’effettiva natura e destinazione funzionale del bene in correlazione agli scopi dell’impresa, anche qualora una porzione dell’immobile sia adibita a esigenze abitative del gestore, purché tale uso sia funzionale e necessario all’espletamento dell’attività commerciale.

Supporto alla lettura

IVA

L’imposta sul valore aggiunto (IVA), è un’imposta indiretta applicata in fase di produzione e scambio di un bene o di un servizio. Il fornitore del prodotto o del servizio calcola e addebita l’aliquota al cliente e, successivamente, la versa all’erario utilizzando il modello F24.

Il riferimento normativo fondamentale risiede nel D.P.R. 633/1972 e, attualmente, in Italia, l’aliquota è pari al 22% ma esistono anche aliquote ridotte (4% e 10%) applicate a beni di prima necessità. Si tratta di un’imposta di rilevanza fondamentale per il bilancio dello Stato ma è anche una delle più evase nel panorama italiano ed europeo, motivo per cui è stato introdotto il meccanismo del reverse charge o inversione contabile in alcuni settori particolari dell’economia.

Esistono anche operazioni non imponibili IVA (comprendono le cessioni di beni e prestazioni di servizi nei rapporti con l’estero) e operazioni esenti dall’IVA (cessioni di beni e prestazioni di servizi individuate espressamente dalla legge, il cui elenco si trova nell’art. 10 del D.P.R. n. 633/1972), ma in entrambi i casi valgono tutti gli obblighi IVA (fatturazione, registrazione, dichiarazione), ma non viene addebitata IVA al cliente.

Ambito oggettivo di applicazione

FATTI DI CAUSA

In data 20 novembre 2012, l’Agenzia delle Entrate notificava alla società contribuente un provvedimento di diniego del rimborso Iva per l’anno 2009. Il rimborso in parola era stato richiesto sulla base del presupposto ex art. 30, comma 4, D.P.R. n. 633 del 1972, della minor eccedenza del triennio 2007-2008-2009. L’Ufficio valutava infatti in ragione degli elementi offerti dall’istante l’impossibilità di pervenire alla corretta imputazione delle spese detraibili ex art. 19-bis D.P.R. n. 633 del 1972 sugli immobili ristrutturati. In particolare, le spese di ristrutturazione sostenute per il corpo D del complesso immobiliare adibito a funzioni abitative non potevano, secondo la prospettazione erariale, rientrare tra i beni strumentali oggetto del beneficio. Il ricorso della contribuente veniva parzialmente accolto dalla CTP di Milano, che riconosceva la spettanza del rimborso per un importo di Euro 85.534,37. La CTR della Lombardia ha confermato la sentenza di primo grado, a fronte dell’appello interposto dall’Agenzia. L’Agenzia affida il proprio motivo di ricorso a due motivi. La contribuente resiste con controricorso.

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo di ricorso, si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 19-bis, comma 1, lett. i), del D.P.R. n. 633 del 1972, e 2697 c.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., per avere la Commissione Tributaria Regionale omesso di considerare che la coincidenza soggettiva tra il titolare dell’immobile e il gestore dell’impresa alberghiera non costituisce elemento idoneo, di per sé, a fondare la presunzione di strumentalità del bene rispetto all’attività economica esercitata. È, infatti, richiesta una prova puntuale e specifica, da parte del contribuente, dell’effettiva strumentalità del bene, ai fini della detraibilità delle spese di ristrutturazione.

Con il secondo motivo, formulato in via subordinata, si denuncia l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., per avere la CTR trascurato l’analisi della “documentazione tecnica prodotta dalla parte”, nonché di ulteriori circostanze rilevanti, quali la destinazione del corpo di fabbrica D alla “Residenza della committenza”, la titolarità, in capo alla società, della sola “proprietà superficiaria” dell’immobile ad uso abitativo, la qualificazione degli interventi edilizi come lavori per “abitazione privata” contenuta nella concessione edilizia, la destinazione di specifici locali aziendali al servizio di “alloggio stagionale e pernottamento”, l’emissione delle fatture “senza indicazione del corpo di fabbrica di riferimento”, nonché l'”inidoneità” della documentazione prodotta dalla società a dimostrare la strumentalità del bene.

Il primo motivo di ricorso è inammissibile.

Esso si risolve, in sostanza, nella sollecitazione di una diversa valutazione del materiale istruttorio, rispetto a quella compiuta dal giudice di merito, e si pone pertanto al di fuori dei limiti del sindacato di legittimità. L’Agenzia delle Entrate fonda la pretesa indetraibilità dell’IVA relativa ai lavori di ristrutturazione e manutenzione degli immobili della contribuente, esercente attività di agriturismo, da un lato, sulla classificazione catastale “abitativa” degli stessi, dall’altro, sull’utilizzo del corpo D della struttura per esigenze abitative del gestore.

La Commissione Tributaria Regionale, in continuità con il giudice di primo grado, ha compiuto un accertamento di fatto, ritenendo che la permanenza del gestore nel “corpo D” fosse necessitata, in quanto del tutto funzionale all’espletamento dell’attività commerciale. Ha inoltre escluso la possibilità di un uso privato dell’immobile, affermando che esso “è da ricomprendersi quale strutturalmente finalizzato all’esercizio dell’attività commerciale, per cui l’IVA sostenuta per la ristrutturazione è ripetibile”.

Tale valutazione è conforme all’orientamento consolidato di questa Corte, secondo cui “il diritto alla detrazione dell’IVA non può essere negato in forza dell’astratta classificazione catastale dell’immobile ad uso abitativo, occorrendo valutarne la destinazione all’attività di impresa” (Cass. n. 26748 del 2016), e si inserisce nel solco interpretativo già tracciato dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. nn. 8628 del 2015; 4606 del 2016), nonché dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea.

In particolare, è stato affermato che “la valutazione della strumentalità di un acquisto rispetto all’attività imprenditoriale va effettuata in concreto, tenendo conto dell’effettiva natura del bene, in correlazione agli scopi dell’impresa”. Ne consegue l’inapplicabilità, nel caso di specie, della lett. i) dell’art. 19-bis1 del D.P.R. n. 633 del 1972, invocata dall’Amministrazione, la quale esclude la detrazione dell’IVA per immobili a destinazione abitativa, salvo che per le imprese che abbiano per oggetto esclusivo o principale la costruzione o la rivendita dei medesimi, ovvero per i soggetti che effettuano operazioni esenti ai sensi dell’art. 10, n. 8), del medesimo decreto.

Il sistema dell’IVA, come delineato dalla normativa unionale e dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia (v. Corte Giust. 16 febbraio 2012, causa C-118/11, EON Aset Menidjmunt; Corte Giust. 19 luglio 2012, causa C-334/10), è improntato ai principi di neutralità e detraibilità, in forza dei quali l’imposta assolta a monte è recuperabile qualora il bene o il servizio sia destinato, anche prospetticamente, all’attività economica del soggetto passivo.

Nel caso in esame, il giudice d’appello ha accertato, con motivazione congrua e immune da vizi logico-giuridici, che l’intera struttura immobiliare fosse destinata all’esercizio dell’attività d’impresa, e tale accertamento non è stato efficacemente censurato dall’Agenzia. Il motivo, pertanto, si risolve in una richiesta di rivalutazione del fatto, non consentita in sede di legittimità, e deve essere dichiarato inammissibile.

Il secondo motivo di ricorso è inammissibile.

La censura, formalmente ricondotta all’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ., non denuncia l’omesso esame di un fatto storico decisivo per il giudizio, bensì lamenta la mancata considerazione di documentazione tecnica e richiama una serie di circostanze che si risolvono nella riproposizione di elementi già valutati dal giudice di merito. In tal modo, il ricorrente sollecita una nuova valutazione del merito, non consentita in sede di legittimità.

Come chiarito da questa Corte (Cass., Sez. Un., 7 aprile 2014, n. 8053), a seguito della riforma dell’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ., operata dall’art. 54 del decreto legge n. 83 del 2012, convertito con modificazioni dalla legge n. 134 del 2012, è stato espunto dal sistema il vizio di insufficiente motivazione, residuando esclusivamente il controllo sull’esistenza della motivazione (sotto il profilo dell’assoluta omissione o della mera apparenza) e sulla sua coerenza (in termini di contraddittorietà irriducibile o illogicità manifesta), purché il vizio emerga immediatamente e direttamente dal testo della sentenza impugnata (Cass., 9 marzo 2023, n. 6986).

Nel caso in esame, il motivo non si confronta con tali parametri, né risulta prospettato il vizio di motivazione apparente. Lo stesso ricorrente fa riferimento ad una nozione di vizio motivazionale – in termini di “erronea, contraddittoria e carente motivazione” – che non è più riconducibile ad alcuna delle ipotesi previste dal codice di rito, e in particolare non è sussumibile nel vizio contemplato dall’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ., nella formulazione applicabile ratione temporis.

Nel caso in esame, non si ravvisa alcun riferimento a fatti controversi e decisivi propriamente detti, ma si sollecita una nuova statuizione, peraltro di merito, sulla base di elementi già scrutinati dalla Corte territoriale, la quale ha motivato con sufficiente chiarezza e specificità, pervenendo alle proprie conclusioni secondo un percorso logico e giuridico immune da vizi.

Il motivo, pertanto, deve essere dichiarato inammissibile.

Il ricorso va, in ultima analisi, rigettato.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso.

Condanna l’Agenzia delle Entrate al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in complessivi Euro 10.000,00, oltre spese generali nella misura del 15% e agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 10 luglio 2025.

Depositato in Cancelleria il 9 settembre 2025.

Allegati

    [pmb_print_buttons]

    Accedi