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Cassazione civile sez. trib., 07/05/2025, n. 12019

Massima

Il ricorso per cassazione avverso una sentenza va dichiarato inammissibile per sopravvenuta carenza di interesse qualora, in pendenza del giudizio di legittimità, la sentenza impugnata sia stata revocata in un separato giudizio con esito favorevole al contribuente, determinando la cessazione della materia del contendere nel giudizio di legittimità quanto alla pronuncia originariamente appellata.

Supporto alla lettura

RICORSO PER CASSAZIONE

Il ricorso per cassazione (artt. 360 e ss. c.p.c.) è un mezzo di impugnazione ordinario che consente di impugnare le sentenze pronunciate in unico grado o in grado d’appello, ma solo per errori di diritto, non essendo possibile dinanzi alla Suprema Corte valutare nuovamente il merito della controversia come in appello. Di solito è ammessa solo la fase rescindente in quanto il giudizio verte sull’accertamento del vizio e sulla sua eventuale cassazione, il giudizio rescissorio spetta al giudice di rinvio. Solo nel caso in cui non dovessero risultare necessari ulteriori accertamenti in cassazione, avvengono entrambi i giudizi.

La sua proposizione avviene nel termine (perentorio) di 60 giorni (c.d. termine breve), è previsto un ulteriore termine (c.d. lungo) che scade 6 mesi dopo la pubblicazione della sentenza.

Per quanto riguarda i motivi di ricorso l’art. 360 c.p.c dispone che le sentenze possono essere impugnate:

  • per motivi attinenti alla giurisdizione,
  • per violazione delle norme sulla competenza, quando non è prescritto il regolamento di competenza;
  • per violazione o falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro;
  • per nullità della sentenza o del procedimento;
  • per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti.

Inoltre può essere impugnata con ricorso per cassazione una sentenza appellabile del tribunale se le parti sono d’accordo per omettere l’appello (art. 360, c. 1, n. 3, c.p.c.), mentre non sono immediatamente impugnabili per cassazione le sentenze che decidono di questioni insorte senza definire, neppure parzialmente, il giudizio, in questo caso il ricorso può essere proposto senza necessità di riserva quando sia impugnata la sentenza che definisce, anche parzialmente il giudizio.

Il ricorso per cassazione è inammissibile (art. 360 bis c.p.c) quando il provvedimento impugnato ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte e l’esame dei motivi non offre elementi per confermare o mutare l’orientamento della stessa, oppure quando è manifestamente infondata la censura relativa alla violazione dei principi regolatori del giusto processo.

A pena di inammissibilità sono previsiti determinati requisiti di forma:

  • la sottoscrizione da parte di un avvocato iscritto in apposito albo e munito di procura speciale;
  • l’indicazione delle parti;
  • l’illustrazione sommaria dei fatti di causa;
  • l’indicazione della procura se conferita con atto separato e dell’eventuale decreto di ammissione al gratuito patrocinio;
  • l’indicazione degli atti processuali, dei contratti o accordi collettivi o dei documenti sui quali si fonda il ricorso;
  • i motivi del ricorso con l’indicazione delle norme di diritto su cui si fondano.

Il ricorso va depositato, a pena di improcedibilità, entro 20 giorni dall’ultima notifica fatta alle parti contro le quali è proposto.

Chi intende resistere al ricorso per cassazione può depositare controricorso e deve essere fatto entro 40 giorni dalla notificazione del ricorso, insieme agli atti e ai documenti, e con la procura speciale se conferita con atto separato.

Ambito oggettivo di applicazione

IN FATTO

Rilevato che:

1. Ma.Ed. ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza indicata in epigrafe, con la quale, confermando la decisione già resa in prime cure dalla C.T.P. di Ragusa, la C.T.R. della Sicilia- sezione staccata di Catania ha respinto l’impugnazione del silenzio-diniego opposto dall’Amministrazione alla sua richiesta di rimborso dell’Irpef versata negli anni di imposta 1991 e 1992.

La richiesta traeva origine dal fatto che la contribuente, collaboratrice dell’impresa familiare “Farmacia dott. Ot.Em.”, aveva versato l’imposta per intero, anziché avvalersi della riduzione del 90 per cento prevista in favore dei residenti nelle province interessate dal sisma che aveva investito la Sicilia orientale nel 1990.

2. I giudici regionali, preso atto del fatto che la Ma.Ed. aveva diritto al rimborso dell’Ilor, hanno ritenuto invece, quanto all’Irpef, che il rimborso, afferendo a redditi da lavoro autonomo, integrasse un aiuto di Stato incompatibile con il diritto comunitario, secondo quanto stabilito dalla Commissione Europea con decisione del 14.8.15.

La contribuente, al riguardo, non aveva adeguatamente dimostrato di rientrare nell’ambito del regime del regolamento UE c.d. de minimis, essendosi limitata a produrre un’autocertificazione, anziché bilanci, scritture contabili, dichiarazioni dei redditi, dichiarazioni Iva e ogni altro documento in suo possesso, utile in relazione al tipo di attività economica esercitata.

L’autocertificazione, peraltro, era stata correttamente ritenuta inadeguata dalla C.T.P. perché faceva riferimento alla mancata percezione di aiuti di Stato a partire dall’anno 1990 e per tutti gli anni successivi, senza coprire il biennio antecedente a tale annualità; né, in proposito, poteva rilevare la nuova autocertificazione prodotta dalla contribuente in sede di appello, ciò che integrava una mutatio libelli non consentita.

Ostava, infine, all’utilizzabilità dell’autodichiarazione il fatto che essa avesse natura sostanziale di giuramento, in un giudizio nel quale tale prova tipica non è consentita.

3. Il ricorso sviluppa sette motivi.

L’Amministrazione è rimasta intimata.

In prossimità dell’udienza, la ricorrente ha depositato memoria ex art. 380-bis cod. proc. civ.

 

IN DIRITTO

Considerato che:

1. Con il primo motivo, rubricato “Violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. in combinato disposto con art. 107 comma 2 lettera b) del TFUE in tema di aiuti di Stato, con l’articolo 230-bis del codice civile e con l’art. 5 comma 4 e 5 del TUIR, D.P.R. 917/1986”, la ricorrente denunzia l’erroneità della sentenza nella parte in cui ha ritenuto non assolto, da parte sua, l’onere probatorio connesso alla domanda di rimborso mediante la produzione di semplice autodichiarazione.

Osserva, infatti, che in quanto collaboratrice di impresa familiare essa non aveva altra documentazione che le proprie dichiarazioni dei redditi e l’atto costitutivo dell’impresa (tutti già prodotti), sicché l’autodichiarazione rappresentava una produzione ultronea, effettuata “per eccesso di zelo”; aveva dunque errato la C.T.R. nell’esigere la produzione di altri documenti, attinenti a soggetti che esercitano attività imprenditoriale.

2. Con il secondo motivo, rubricato “art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c. in relazione all’art. 112 e 115 c.p.c. per violazione e falsa applicazione dell’art. 1 comma 665 della legge 190/2014 in combinato disposto con l’articolo 230-bis del codice civile e con l’art. 5 comma 4 e 5 del TUIR, D.P.R. 917/1986”, la ricorrente lamenta che la C.T.R. non avrebbe tenuto in considerazione il fatto che essa era mera collaboratrice, e non titolare del reddito d’impresa.

3. La stessa circostanza funge da base al terzo mezzo, con il quale la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 36 del D.Lgs. n. 546/1992, in merito al difetto e contraddittorietà di motivazione della sentenza, assumendo che i giudici d’appello non avrebbero motivato la decisione con riferimento alla natura dei suoi redditi.

4. Con il quarto motivo, denunziando “violazione e falsa applicazione dell’art.115 c.p.c. in relazione all’art. 7 comma 4 del D.Lgs. 546/1992”, la ricorrente critica la decisione impugnata nella parte in cui ha ritenuto di equiparare l’autodichiarazione al giuramento decisorio, non consentito nel processo tributario.

5. Il quinto motivo, rubricato “violazione e falsa applicazione dell’art. 1 comma 665 della legge 190/2014 e della decisione della Commissione (UE) 2015/5549 del 14 Agosto 2015 in combinato disposto dell’art. 3 comma 1 e 2 della legge 212/2000 e dell’art. 2697 del c.c.”, ha ad oggetto la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto sussistente “un obbligo di fatto a carico della contribuente di esibire documenti relativi al de minimis e previsti dalla decisione della Commissione (UE) 2015/5549 del 14 agosto 2015” quantunque tale decisione fosse successiva alla domanda di rimborso, con conseguente applicazione retroattiva di norma tributaria.

6. Con il sesto mezzo di impugnazione è dedotta violazione degli artt. 2697 cod. civ. e 57 del D.Lgs. n. 546/1992 in relazione all’affermata violazione del divieto di mutatio libelli in appello.

La ricorrente sostiene, infatti, che la semplice produzione di un’autodichiarazione aggiornata non avrebbe integrato siffatta

violazione, poiché si limitava a specificare quanto da lei già dichiarato innanzi ai giudici di primo grado.

7. Il settimo motivo, infine, denunzia “violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 3 della Costituzione”; la ricorrente sostiene che la C.T.R., riscontrata la disparità di trattamento conseguente alla disciplina che limita il ricorso all’agevolazione nei confronti di alcuni contribuenti, “avrebbe dovuto attivare il rinvio pregiudiziale presso la Corte Costituzionale al fine di proporre la questione dei controlimiti rispetto le esigenze della normativa dell’Unione Europea”.

8. Occorre preliminarmente rilevare che, con la memoria depositata in prossimità dell’udienza, la ricorrente ha dato atto di aver impugnato per revocazione la sentenza della C.T.R. e di aver ottenuto decisione favorevole in data 14 febbraio 2023, sulla quale assume essere intervenuto il giudicato.

Ha chiesto pertanto, e seppure in via subordinata all’accoglimento del ricorso, che sia dichiarata cessata la materia del contendere, con condanna dell’Agenzia delle entrate al pagamento delle spese del giudizio.

8.1. Il rilievo dell’intervenuta cessazione della materia del contendere consegue al fatto che, per stessa ammissione della ricorrente, la sentenza impugnata con il ricorso introduttivo del presente giudizio è stata revocata.

In presenza di tale ipotesi, va data continuità all’orientamento più volte espresso da questa Corte (si veda, fra le altre, Cass. n. 41509/2021), secondo cui, ove in pendenza del giudizio di cassazione intervenga la revocazione della sentenza di appello in senso favorevole al contribuente, il ricorso va dichiarato inammissibile per sopravvenuto difetto di interesse, essendo cessata la materia del contendere nel giudizio di legittimità.

A nulla rileva, in proposito, il fatto che la ricorrente non abbia dato adeguata prova del fatto che sulla sentenza di revocazione si sia formato il giudicato (essendosi limitata, sul punto, a produrre la dichiarazione del proprio difensore); il fatto che la sentenza di revocazione potrebbe a sua volta essere impugnata in cassazione, infatti, costituisce una mera possibilità, mentre la carenza di interesse della ricorrente a coltivare il ricorso per cassazione è attuale, essendo venuta meno la pronuncia che ne costituiva l’oggetto.

Conseguentemente, trattandosi di un caso di inammissibilità sopravvenuta alla proposizione del ricorso per cassazione, la Corte deve dichiarare le spese del giudizio di legittimità interamente compensate tra le parti, nonché non dovuto dalla ricorrente il pagamento di un ulteriore importo pari a quello previsto per il contributo unificato.

9. Il giudizio va dunque definito in conformità a tale indirizzo, con rigetto delle diverse richieste della ricorrente.

 

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso per sopravvenuta carenza di interesse.

Compensa interamente tra le parti le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, l’1 aprile 2025.

Depositato in Cancelleria il 7 maggio 2025.

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