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Cassazione civile sez. trib., 06/12/2024, n. 31311

Massima

In tema di accertamento tributario basato su indagini bancarie, la Corte di Cassazione ribadisce che, a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 228/2014, permane la presunzione legale relativa di maggiore reddito imponibile con riferimento ai versamenti in contanti non adeguatamente giustificati, estendendosi tale presunzione anche ai lavoratori autonomi; grava sul contribuente l’onere di fornire la prova contraria e di dimostrare l’esistenza e la misura dei costi deducibili correlati ai maggiori compensi accertati.

Supporto alla lettura

ACCERTAMENTO TRIBUTARIO

L’accertamento tributario (o fiscale) è il complesso degli atti della pubblica amministrazione volti ad assicurare l’attuazione delle norme impositive.

L’attività di accertamento delle imposte da parte degli uffici finanziari ha carattere meramente eventuale, essendo prevista nel nostro sistema l’autoliquidazione dei tributi più importanti da parte del contribuente stesso, tramite l’istituto della dichiarazione. Gli uffici intervengono quindi soltanto per rettificare le dichiarazioni risultate irregolari o nel caso di omessa presentazione delle stesse.

A seconda del metodo di accertamento utilizzato, questo può essere:

  • analitico: attraverso l’analisi della documentazione contabile e fiscale;
  • analitico-induttivo: cioè misto, basato su un esame documentale e presunzioni, di norma fondate su elementi gravi, precisi e concordanti, salvo in caso di omessa dichiarazione o di contabilità inattendibile/omessa;
  • induttivo: attraverso l’utilizzo esclusivo di presunzioni che possono essere anche esclusivamente semplici;
  • sintetico: fondato su coefficienti ministeriali.

Ambito oggettivo di applicazione

(omissis)

 

RILEVATO CHE

1. L’Agenzia delle Entrate – Direzione Provinciale III di Roma, in data 21 maggio 2014 notificata a (omissis) avviso di accertamento n. ((omissis)), con il quale veniva recuperato a tassazione, per l’anno d’imposta 2009, un maggiore reddito imponibile pari ad Euro 234.126,00, con conseguente rideterminazione delle imposte IRPEF ed IVA e relative addizionali e sanzioni.

Tale accertamento si basava su indagini bancarie operate nei confronti della contribuente, ex art. 32, comma 2, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, con specifico riferimento a due versamenti in contanti (il primo di Euro 100.000,00 del 30 luglio 2009, il secondo di Euro 120.000,00 in data 31 luglio 200), per i quali non veniva fornite adeguate giustificazioni.

2. L’avviso di accertamento in questione veniva impugnato dalla contribuente dinanzi alla Commissione Tributaria Provinciale di Roma la quale, con sentenza n. 17986/58/2015, depositata in data 10 settembre 2015, lo rigettava, con condanna della ricorrente alla rifusione delle spese di lite.

3. Interposto gravame da (omissis), la Commissione Tributaria Regionale del Lazio, con sentenza n. 7687/11/2016, pronunciata il 26 ottobre 2016 e depositata in segreteria il 30 novembre 2016, rigettava l’appello, confermando la sentenza di primo grado e condannando l’appellante alla rifusione delle spese di giudizio.

4. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione (omissis), sulla base di due motivi (ricorso inviato per la notifica il 18-19 gennaio 2017).

Resiste con controricorso l’Agenzia delle Entrate.

5. Con decreto del 22 maggio 2024 è stata quindi fissata la discussione del ricorso dinanzi a questa sezione per l’adunanza in camera di consiglio del 13 settembre 2024, ai sensi degli artt. 375, comma 2, e 380-bis.1 c.p.c.

La ricorrente ha depositato memoria.

 

CONSIDERATO CHE

1. Il ricorso in esame, come si è detto, è affidato a due motivi.

1.1. Con il primo motivo di ricorso la sig.ra Pi.Ma. eccepisce l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, nonché violazione dell’art. 132, comma 2, num. 4), c.p.c., in relazione all’art. 360, comma 1, num. 4), dello stesso codice, nonché, ancora, violazione dell’art. 42 del D.P.R. n. 600/1973, in relazione all’art. 360, comma 1, num. 3), c.p.c.

Deduce, in particolare, la ricorrente che la C.T.R. aveva erroneamente qualificato il maggior reddito accertato come reddito d’impresa, nel mentre trattavasi di reddito da lavoro autonomo, e che, inoltre aveva erroneamente ritenuto inammissibile la censura riguardante la mancanza di qualifica dirigenziale in capo al dott. Ba.Pa., firmatario dell’avviso di accertamento.

1.2. Con il secondo motivo di ricorso si eccepisce violazione dell’art. 32, comma 1, num. 2), del D.P.R. n. 600/1973, così come modificato a seguito della sentenza della Corte cost. del 6 ottobre 2014, n. 228 del, e dell’art. 39 dello stesso D.P.R. n. 600/1973, in relazione all’art. 360, comma 1, num. 3), c.p.c.

Deduce, in particolare, la ricorrente che nel caso di specie l’Agenzia delle Entrate, in ragione della sentenza della Corte cost. n. 228/2014, non aveva fornito la prova dell’attività lavorativa svolta tale da avere prodotto il presunto mancato reddito, dovendosi ritenere che, in virtù di detta sentenza della Corte di legittimità, non sussistesse più un regime presuntivo in favore dell’Ufficio in merito agli accertamenti bancari, e che, in ogni caso, la C.T.R. non aveva detratto i costi relativi al maggior reddito accertato.

2. Così delineati i motivi di ricorso, la Corte osserva quanto segue.

2.1. Il primo motivo è infondato.

Come correttamente rilevato già dal giudice di primo grado, la questione della nullità dell’avviso di accertamento in quanto sottoscritto da un funzionario non dirigente (alla luce della sentenza della Corte cost. n. 37/2015) non era stata posta con il ricorso introduttivo.

Il motivo è comunque infondato anche nel merito. In tema di accertamento tributario, ai sensi dell’art. 42, commi 1 e 3, del D.P.R. n. 600/1973, gli avvisi di accertamento in rettifica e gli accertamenti d’ufficio devono essere sottoscritti, a pena di nullità, dal capo dell’Ufficio o da altro funzionario delegato di carriera direttiva, cioè da un funzionario di area terza di cui al contratto del comparto agenzie fiscali per il quadriennio 2002-2005, di cui non è richiesta la qualifica dirigenziale, con la conseguenza che nessun effetto sulla validità di tali atti può conseguire dalla declaratoria d’incostituzionalità dell’art. 8, comma 24, del D.L. 2 marzo 2012, n. 16, convertito dalla legge n. 26 aprile 2012, n. 44 (cfr. Cass. 26 febbraio 2020, n. 5177; Cass. 9 novembre 2015, n. 22810).

Nel caso di specie, poiché, come consentito dall’art. 42 D.P.R. n. 600/1973, la sottoscrizione dell’avviso di accertamento è avvenuta per delega, e poiché il Direttore provinciale pro-tempore Ig.Fa. ha delegato a sottoscrivere il Capo Area Imprese Minori e Lavoratori Autonomi Ba.Pa., impiegato della carriera direttiva appartenente alla terza area funzionale, l’avviso di accertamento era stato comune legittimamente sottoscritto.

2.2. Anche il secondo motivo è infondato.

È noto che, in forza della sentenza della Corte cost. n. 228/2014, con riferimento alle indagini finanziarie è venuta meno soltanto la presunzione reddituale, con riferimento ai prelevamenti operati dal contribuente.

È stato quindi affermato che “in tema d’imposte dirette, la presunzione legale (relativa) di disponibilità di maggior reddito, desumibile dalle risultanze dei conti bancari ex art. 32, comma 1, nn. 2 e 7, D.P.R. n. 600 del 1973, non è riferibile ai soli titolari di redditi d’impresa o da lavoro autonomo, ma si estende alla generalità dei contribuenti, indipendentemente dalla categoria reddituale a cui siano riferibili i proventi accertati, fermo restando che, in considerazione della sentenza della Corte cost. n. 228 del 2014, le operazioni bancarie di prelevamento hanno valore presuntivo esclusivamente nei confronti dei titolari di redditi d’impresa, mentre quelle di versamento nei confronti di tutti i contribuenti” (Cass. 20 dicembre 2023, n. 35618; Cass. 20 gennaio 2017, n. 1519).

In sostanza, quindi, è rimasta immutata la disciplina relativa ai versamenti operati dai lavoratori autonomi sui propri conti correnti, che si connota come presunzione legale; conseguentemente, la C.T.R. ha fatto buon governo di tali principi, vertendosi in tema di versamenti ed avendo verificato – con accertamento di fatto insindacabile in questa sede – che la contribuente non ha fornito una adeguata giustificazione ai versamenti indicati nell’avviso di accertamento, ed avendo quindi ritenuto che tali versamenti fossero da imputare a compensi non dichiarati.

Per quel che riguarda, invece, la censura riguardante il mancato riconoscimento dei costi correlati ai maggiori compensi accertati, la C.T.R. si è conformata all’orientamento di questa Corte, secondo il quale al contribuente è consentito dedurre i costi correlati ai compensi occultati, ma è suo onere dimostrare di averli sostenuti ed in che misura (Cass. 6 ottobre 2010, n. 20735).

3. Consegue il rigetto del ricorso.

Le spese di giudizio seguono la soccombenza della ricorrente, secondo la liquidazione di cui al dispositivo.

Ricorrono i presupposti processuali per dichiarare la ricorrente tenuta al pagamento di un importo pari al contributo unificato previsto per la presente impugnazione, se dovuto, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115.

 

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente alla rifusione, in favore dell’Agenzia delle Entrate, delle spese del presente giudizio, che si liquidano in Euro 6.000,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito.

Dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per dichiarare la ricorrente tenuta al pagamento di un importo pari al contributo unificato previsto per la presente impugnazione, se dovuto, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115.

Così deciso in Roma, il 13 settembre 2024.

Depositata in Cancelleria il 6 dicembre 2024.

Allegati

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