Massima

È ammissibile il ricorso per cassazione proposto dall’Agenzia delle Entrate ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c., per violazione e falsa applicazione di legge, avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale che abbia erroneamente interpretato l’art. 33, commi 1 e 2-bis, del D.L. n. 78 del 2010, riconoscendo infondatamente la mancanza del presupposto oggettivo per l’applicazione dell’aliquota addizionale sui bonus del settore finanziario.

Supporto alla lettura

RICORSO PER CASSAZIONE

Il ricorso per cassazione (artt. 360 e ss. c.p.c.) è un mezzo di impugnazione ordinario che consente di impugnare le sentenze pronunciate in unico grado o in grado d’appello, ma solo per errori di diritto, non essendo possibile dinanzi alla Suprema Corte valutare nuovamente il merito della controversia come in appello. Di solito è ammessa solo la fase rescindente in quanto il giudizio verte sull’accertamento del vizio e sulla sua eventuale cassazione, il giudizio rescissorio spetta al giudice di rinvio. Solo nel caso in cui non dovessero risultare necessari ulteriori accertamenti in cassazione, avvengono entrambi i giudizi.

La sua proposizione avviene nel termine (perentorio) di 60 giorni (c.d. termine breve), è previsto un ulteriore termine (c.d. lungo) che scade 6 mesi dopo la pubblicazione della sentenza.

Per quanto riguarda i motivi di ricorso l’art. 360 c.p.c dispone che le sentenze possono essere impugnate:

  • per motivi attinenti alla giurisdizione,
  • per violazione delle norme sulla competenza, quando non è prescritto il regolamento di competenza;
  • per violazione o falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro;
  • per nullità della sentenza o del procedimento;
  • per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti.

Inoltre può essere impugnata con ricorso per cassazione una sentenza appellabile del tribunale se le parti sono d’accordo per omettere l’appello (art. 360, c. 1, n. 3, c.p.c.), mentre non sono immediatamente impugnabili per cassazione le sentenze che decidono di questioni insorte senza definire, neppure parzialmente, il giudizio, in questo caso il ricorso può essere proposto senza necessità di riserva quando sia impugnata la sentenza che definisce, anche parzialmente il giudizio.

Il ricorso per cassazione è inammissibile (art. 360 bis c.p.c) quando il provvedimento impugnato ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte e l’esame dei motivi non offre elementi per confermare o mutare l’orientamento della stessa, oppure quando è manifestamente infondata la censura relativa alla violazione dei principi regolatori del giusto processo.

A pena di inammissibilità sono previsiti determinati requisiti di forma:

  • la sottoscrizione da parte di un avvocato iscritto in apposito albo e munito di procura speciale;
  • l’indicazione delle parti;
  • l’illustrazione sommaria dei fatti di causa;
  • l’indicazione della procura se conferita con atto separato e dell’eventuale decreto di ammissione al gratuito patrocinio;
  • l’indicazione degli atti processuali, dei contratti o accordi collettivi o dei documenti sui quali si fonda il ricorso;
  • i motivi del ricorso con l’indicazione delle norme di diritto su cui si fondano.

Il ricorso va depositato, a pena di improcedibilità, entro 20 giorni dall’ultima notifica fatta alle parti contro le quali è proposto.

Chi intende resistere al ricorso per cassazione può depositare controricorso e deve essere fatto entro 40 giorni dalla notificazione del ricorso, insieme agli atti e ai documenti, e con la procura speciale se conferita con atto separato.

Ambito oggettivo di applicazione

FATTI DI CAUSA

1. No.Ma. presentava all’Ufficio territoriale dell’Agenzia delle Entrate di Milano istanza di rimborso delle somme oggetto di ritenute effettuate, quale sostituto d’imposta, dalla Mediobanca Banca di Credito Finanziario Spa, ai sensi dell’art. 33, commi 1 e 2-bis, D.L. 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, a titolo di aliquota addizionale del dieci per cento sui bonus eccedenti la parte fissa della retribuzione pagata al medesimo contribuente, relativamente all’anno di imposta 2017, per mancanza del presupposto oggettivo.

2. La Commissione tributaria provinciale di Milano rigettava il ricorso.

3. La Commissione tributaria regionale della Lombardia accoglieva il gravame proposto dal contribuente.

4. Avverso la decisione propone ricorso per cassazione l’Agenzia delle entrate, affidandosi a un motivo.

Il contribuente resiste con controricorso.

È stata, quindi, fissata, ai sensi dell’art. 380-bis.1 c.p.c., l’adunanza camerale per il 10/09/2025.

 

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con l’unico motivo, proposto in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c., la ricorrente difesa erariale deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 33, D.L. 31 maggio 2010, n. 78, attesa l’assenza del c.d. requisito oggettivo di cui al primo comma.

L’Agenzia lamenta l’erronea interpretazione fornita dai giudici di seconde cure con riferimento al comma 2-bis dell’art. 33 D.L. cit. ed anche della richiamata sentenza C. Cost. n. 201 del 2014; secondo l’errata lettura offerta dalla CTR, anche dopo le modifiche normative, il primo comma, invero, individua il requisito oggettivo, di carattere quantitativo, necessario a far operare la tassazione; il comma successivo (2-bis), invece, esplicita la base imponibile su cui calcolare l’addizionale, in virtù della sussistenza dei requisiti di cui al comma precedente, ma non ha ampliato il presupposto della imposizione.

Secondo la ricorrente, nell’analizzare la norma come modificata dalla novella, occorre invece distinguere ed individuare il presupposto impositivo e la base imponibile. Prima dell’aggiunta del comma 2-bis, il primo comma dell’art. 33 esprimeva, al contempo, il presupposto impositivo e la base imponibile: quanto all’individuazione dei soggetti passivi dell’imposta (presupposto impositivo soggettivo), la norma ne delimitava l’ambito di applicazione ai “dipendenti che rivestono la qualifica di dirigenti e titolari di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa nel settore finanziario”; quanto all’oggetto, la norma individuava i “compensi sotto forma di bonus e stock options” (presupposto impositivo oggettivo). La base imponibile era costituita dai compensi corrisposti a tale titolo e “che eccedono il triplo della parte fissa della retribuzione”. Con l’introduzione del comma 2-bis, il legislatore avrebbe invece introdotto una diversa commisurazione della base imponibile, data ora da un maggiore ammontare della retribuzione sotto forma di bonus e stock options, e cioè l’ammontare “che eccede l’importo corrispondente alla parte fissa della retribuzione”, e non più solo quello che eccede il triplo della stessa. Il richiamo operato al comma 1 dovrebbe quindi intendersi esclusivamente finalizzato all’individuazione dei presupposti impositivi oggettivo e soggettivo: essere dirigenti nel settore finanziario e percepire bonus e stock options in qualsiasi forma.

2. Il motivo è fondato, avendo questa Corte già univocamente fatto affermazione, in tema di rapporti tra il comma 1 ed il comma 2-bis dell’art. 33 citato, del principio di diritto per il quale “Per effetto del comma 2-bis dell’art. 33 del D.L. n. 78 del 2010 (introdotto dall’art. 23, co. 50-bis, del D.L. n. 98 del 2011, conv. in L. n. 111 del 2011), relativamente ai compensi corrisposti, a decorrere dalla data dal 17 luglio 2011, sotto forma di “bonus” e “stock options”, ai dirigenti delle imprese operanti nel settore finanziario, l’imposta addizionale prevista dall’art. 33 del D.L. n. 78 del 2000, conv. in L. n. 122 del 2010, trattenuta dal sostituto di imposta al momento dell’erogazione degli emolumenti, si applica sull’ammontare di detti compensi che eccede l’importo corrispondente alla parte fissa della retribuzione, senza che sia necessario che la retribuzione variabile ecceda anche il triplo della parte fissa della retribuzione” (Cass. n. 15861/2023, resa all’esito di udienza pubblica tematica e successivamente ribadita da numerosissime pronunce tra cui Cass. n. 18752/2023; Cass. n. 18756/2023; Cass. n. 18552/2023; Cass. n. 18556/2023; Cass. n. 18562/2023; Cass. n. 18624/2023; Cass. n. 18629/2023; Cass. n. 18646/2023; Cass. n. 18660/2023; Cass. n. 18748/2023; Cass. n. 18757/2023; Cass. n. 18760/2023; Cass. n. 18960/2023; Cass. n. 21631/2023; Cass. n. 28860/2024; Cass. n. 3159/2025).

La presenza di numerosi precedenti in tal senso, stratificatisi negli ultimi anni, dà conto della presenza di un formante giurisprudenziale ormai consolidato e al quale occorre dare continuità.

Si è infatti osservato che, prima dell’introduzione, con l’art. 23, comma 50-bis, del D.L. n. 98 del 2011, del comma 2-bis nell’art. 33 del D.L. n. 78 del 2010, il comma 1 di quest’ultima disposizione si prestava pacificamente ad una lettura univoca. Il presupposto impositivo, individuato dal legislatore quale dato rivelatore della ricchezza riconducibile ad un determinato soggetto, era delineato nella sua connotazione soggettiva (“dipendenti che rivestono la qualifica di dirigenti e titolari di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa nel settore finanziario”) ed oggettiva (“compensi sotto forma di bonus e stock options”). La base imponibile, quale quantificazione del presupposto e parametro cui commisurare il tributo (ovvero, nella sostanza, l’importo su cui calcolare le imposte), era determinata nei compensi “che eccedono il triplo della parte fissa della retribuzione”.

Il comma 2-bis, secondo cui “Per i compensi di cui al comma 1, le disposizioni di cui ai commi precedenti si applicano sull’ammontare che eccede l’importo corrispondente alla parte fissa della retribuzione”, ha inequivocabilmente inciso sulla base imponibile, individuandola non più (come già nel comma 1) nei “compensi a questo titolo, che eccedono il triplo della parte fissa della retribuzione”, ma nell'”ammontare che eccede l’importo corrispondente alla parte fissa della retribuzione”. Viceversa, lo stesso comma 2-bis non ha modificato il presupposto (oggettivo e soggettivo) dell’imposizione già disciplinato dal comma 1, che infatti richiama espressamente, nei limiti del fatto economico preso in considerazione dal legislatore (“Per i compensi di cui al comma 1…”).

Poiché, invariato il presupposto dell’imposizione nelle sue connotazioni soggettive ed oggettive, il comma 1 ed il comma 2-bis regolano diversamente la base imponibile (rispettivamente identificandola nell’eccedenza del triplo della parte fissa della retribuzione e nell’eccedenza pura e semplice della parte fissa della retribuzione), si è quindi evidenziata tra le due disposizioni, nei limiti cronologici in cui sia ipotizzabile una loro contemporanea vigenza – ovvero relativamente ai compensi corrisposti a decorrere dal 17 luglio 2011- un’incompatibilità che comporta, ai sensi dell’art. 15 delle preleggi, l’abrogazione tacita, in parte qua, del precedente comma 1 da parte del nuovo comma 2-bis dell’art. 33 del D.L. n. 78 del 2010.

3. Concludendo, il ricorso deve essere accolto; la sentenza va cassata. Non risultando necessari ulteriori accertamenti di fatto, questa Corte di legittimità può decidere nel merito, ai sensi dell’art. 384, secondo comma, c.p.c., rigettando l’originario ricorso proposto dal contribuente fondato sull’assenza del presupposto oggettivo.

4. In ragione dell’incertezza della questione, del contrasto giurisprudenziale e dell’assenza di precedenti di legittimità alla data del giudizio del merito, le relative spese possono compensarsi mentre le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.

 

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta il ricorso originario del contribuente; compensa le spese dei giudizi di merito e condanna No.Ma. al pagamento delle spese del giudizio di legittimità in favore dell’Agenzia delle entrate, spese che liquida in Euro 4.200,00, oltre spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, il 10 settembre 2025.

Depositato in Cancelleria il 6 ottobre 2025.

Allegati

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