(omissis)
FATTI DI CAUSA
1. L’Agenzia delle Entrate di Arezzo, all’esito di una verifica della Guardia di Finanza, accertava nei confronti della ricorrente, con riferimento agli anni di imposta 2008 e 2009, ricavi imponibili per complessivi Euro 144.931,00 ed Euro 134.237,00, ritenendo la stessa localizzata sul territorio nazionale, e procedendo alla notifica dei relativi avvisi a mani di (omissis), quale legale rappresentante della ETRIMA A.D..
2. La società proponeva ricorso innanzi alla CTP di Arezzo contestando l’esistenza della cd. esterovestizione, ovvero della asserita residenza fiscale in Italia, e la ricostruzione dell’imponibile, ritenuta illegittima in quanto effettuata sulle medie di settore. La CTP rigettava il ricorso con sentenza n. 169/2014.
3. La società proponeva gravame innanzi alla CTR eccependo, in primo luogo, la nullità del procedimento di accertamento in quanto svoltosi alla presenza di (omissis), ritenuto dall’ufficio l’amministratore della società; osservava, al riguardo, che la CTP di Arezzo, adita dal (omissis), aveva annullato gli avvisi di accertamento nei suoi confronti, in quanto l’Ufficio non aveva dato prova della qualifica di amministratore dell’ente. La società deduceva, in secondo luogo, la nullità della notifica degli avvisi di accertamento, in quanto notificati a mani di un soggetto ((omissis)) diverso dall’amministratore della società. Infine, sosteneva la mancanza dei presupposti della esterovestizione.
4. Rigettato l’appello, la società propone ricorso per cassazione affidato a tre motivi. L’Agenzia resiste con controricorso.
Il Sostituto Procuratore Generale, nella persona della dr.ssa (omissis), ha depositato memoria scritta con cui ha chiesto il rigetto del ricorso.
Il 13/05/2024 la ricorrente ha depositato documentazione ex art. 372 comma 2 cod. proc. civ.; il 05/06/2024 ha, poi, depositato la sentenza dichiarativa del fallimento della società ETRIMA A.D., emessa dal Tribunale di Sofia, per le conseguenze di legge ex art. 43 l. fall..
All’udienza pubblica del 07/06/2024 l’avvocato della ricorrente ha chiesto dichiararsi l’interruzione del giudizio per effetto del sopravvenuto fallimento della società. Il Sostituto Procuratore Generale si è opposto.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Preliminarmente va rigettata la richiesta di interruzione del giudizio per effetto del sopravvenuto fallimento della ricorrente società. Costituisce, invero, principio pacifico nella giurisprudenza di questa Corte quello per cui “il fallimento di una delle parti che si verifichi nel giudizio di Cassazione non determina l’interruzione del processo ex artt. 299 e ss. c.p.c., trattandosi di procedimento dominato dall’impulso d’ufficio, con la conseguenza che non vi è un onere di riassunzione del giudizio nei confronti della curatela fallimentare; questo non esclude, tuttavia, che il curatore del fallimento (dal 15 luglio 2022 il curatore della liquidazione giudiziale) possa intervenire nel giudizio di legittimità al fine di tutelare gli interessi della massa dei creditori, sia pure nei limiti delle residue facoltà difensive riconosciute dalla legge” (Cass. 06/11/2023, n. 30785; conf. Cass. 13/03/2024, n. 6642).
2. Con il primo motivo la società lamenta la “omessa motivazione sull’eccepita nullità del procedimento tributario di verifica e di accertamento, della nullità del verbale di constatazione e degli avvisi di accertamento – omessa applicazione dell’art. 12 della Legge n. 212 del 27.07.2000 (c.d. Statuto del contribuente) in riferimento all’art. 360, n. 3 c.p.c., all’art. 24 ed all’art. 23 della Costituzione”. Deduce, da un lato, la nullità insanabile del procedimento di verifica in quanto svoltosi senza alcun contraddittorio con un legale rappresentante della società e, a cascata, del processo verbale di constatazione, dell’intero procedimento di accertamento e degli avvisi di accertamento per gli anni 2008 e 2009. Invero, tutti gli atti del procedimento di verifica si erano svolti alla presenza di Bi.Gi. e dallo stesso furono sottoscritti per conto della società, pur non rivestendo la carica di amministratore delegato.
Evidenzia, dall’altro lato, che gli avvisi di accertamento furono notificati al Bi.Gi., nella asserita qualità di amministratore della società, e, pertanto, sono insanabilmente nulli. Non potrebbe soccorrere la previsione dell’articolo 156 cod. proc. civ. e la sanatoria ivi prevista atteso che la CTR aveva confermato le sentenze della CTP di Arezzo, con le quali erano stati annullati gli avvisi di accertamento emessi nei confronti delBi.Gi., per non essere questi il legale rappresentante della ETRIMA AD.
Il motivo è inammissibile, oltre che infondato.
2.1. L’inammissibilità deriva da plurime ragioni, ciascuna idonea a fondare ex se la relativa declaratoria.
Sotto un primo profilo, il motivo sovrappone inestricabilmente nell’esposizione l’omessa motivazione, l’omessa pronuncia e la violazione di legge; integra, in altri termini, un motivo cd. coacervato, senza possibilità di distinguere (salvo quanto a breve si dirà infra) i vari vizi sostanzialmente denunciati, anche in contrato logico tra loro, che danno luogo ad una sostanziale mescolanza e sovrapposizione di censure, con l’inammissibile prospettazione della medesima questione sotto profili incompatibili (Cass. 23/10/2018, n. 26874; Cass. 23/09/2011, n. 19443; Cass. 11/04/2008, n. 9470), non risultando specificamente separati la trattazione delle doglianze relative all’interpretazione o all’applicazione delle norme di diritto appropriate alla fattispecie ed i profili attinenti alla ricostruzione del fatto (Cass, 11/04/2018, n. 8915; Cass. 23/04/2013, n. 9793) o a pretesi vizi processuali.
Sotto altro profilo il motivo non si confronta criticamente con il contenuto della sentenza, ovvero con la ratio decidendi, limitandosi a riproporre la tesi sostenuta dalla ricorrente nei gradi di merito.
Infine, nel motivo non viene indicato se e dove la doglianza relativa alla violazione del contraddittorio sia stata avanzata in primo grado (agli atti non risulta nemmeno allegato il ricorso in primo grado e la CTR ne parla solo in quanto motivo di gravame). Tale carenza comporta l’inadempimento dell’onere di cui all’art. 366, primo comma, n. 6, cod. proc. civ., di specifica indicazione, a pena di inammissibilità del ricorso, degli atti processuali e dei documenti sui quali il ricorso si fonda, nonché dei dati necessari all’individuazione della loro collocazione quanto al momento della produzione nei gradi dei giudizi di merito (in generale, Cass. 29/7/2021, n. 21831; con specifico riferimento al processo tributario, Cass. 15/1/2019, n. 777 e Cass. 18/11/2015, n. 23575).
Detto onere – tra l’altro ribadito ed aggravato dalla riforma Cartabia mediante l’inserimento della necessaria illustrazione del contenuto rilevante degli atti processuali e dei documenti (ex art. 3, comma 27, D.Lgs. n. 149/2022, applicabile tuttavia ai giudizi introdotti con ricorso notificato a partire dal 1 gennaio 2023) -interpretato anche alla luce dei principi contenuti nella sentenza della Corte EDU, sez. I, 28 ottobre 2021, r.g. n. 55064/11, non può ritenersi rispettato qualora il motivo di ricorso non indichi specificamente i documenti o gli atti processuali sui quali si fondi, non ne riassuma il contenuto o ne trascriva i passaggi essenziali, o comunque non fornisca un riferimento idoneo ad identificare la fase del processo di merito in cui essi siano stati prodotti o formati (Cass. Sez. U., 18/03/2022, n. 8950; Cass. 14/04/2022, n. 12259; Cass. 19/04/2022, n. 12481; Cass. 02/05/2023, n. 11325).
2.2. Il motivo è, in ogni caso, infondato.
In primo luogo, sulla questione del vizio del procedimento accertativo vi è pronuncia espressa (e motivazione) da parte della CTR; per cui il vizio di omessa motivazione non sussiste.
In secondo luogo, a prescindere da quanto appena evidenziato, la censura relativa al mancato contraddittorio endoprocedimentale, per non ridursi a inammissibile doglianza formalistica, dev’essere accompagnata dall’indicazione precisa di quale contributo incisivo avrebbe potuto apportare la parte privata se fosse stata correttamente evocata (Cass. 09/05/2024, n. 12713). Al riguardo le Sezioni Unite di questa Corte (Cass. 9 dicembre 2015, n. 24823) hanno chiarito che “in tema di tributi c.d. non armonizzati, l’obbligo dell’Amministrazione di attivare il contraddittorio endoprocedimentale, pena l’invalidità dell’atto, sussiste esclusivamente in relazione alle ipotesi, per le quali siffatto obbligo risulti specificamente sancito; mentre in tema di tributi cd. armonizzati, avendo luogo la diretta applicazione del diritto dell’Unione, la violazione del contraddittorio endoprocedimentale da parte dell’Amministrazione comporta in ogni caso, anche in campo tributario, l’invalidità dell’atto, purché, in giudizio, il contribuente assolva l’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere, qualora il contraddittorio fosse stato tempestivamente attivato, e che l’opposizione di dette ragioni (valutate con riferimento al momento del mancato contraddittorio), si riveli non puramente pretestuosa e tale da configurare, in relazione al canone generale di correttezza e buona fede ed al principio di lealtà processuale, sviamento dello strumento difensivo rispetto alla finalità di corretta tutela dell’interesse sostanziale, per le quali è predisposto” (nella successiva giurisprudenza conforme v. Cass. 03/02/2017, n. 2875; Cass. 20/04/2017, n. 10030; Cass. 05/09/2017, n. 20799; Cass. 11/09/2017, n. 21071; Cass. 14/11/2017, n. 26943).
In ogni caso deve essere ricordato che nella specie non si controverte in materia di Iva o di tributi armonizzati ove è essenziale il contraddittorio, né risulta fornita la prova di resistenza dalla ricorrente; inoltre, non c’e stato accesso presso il contribuente (l’accesso è stato, infatti, effettuato presso i locali della Cose di Lana Spa e sottoscritto dal legale rappresentante di questa).
Infine, come correttamente rilevato dalla CTR, gli asseriti vizi di nullità delle notifiche degli avvisi di accertamento per cui è l’odierno giudizio, per essere stati notificati a mani di un soggetto ((omissis)) che non rivestiva la carica di legale rappresentante della società, sono stati sanati per effetto dell’impugnativa proposta dalla ETRIMA AD; nel ricorso introduttivo del primo grado di lite, tra l’altro, nessuna eccezione circa la legittimazione del (omissis) a ricevere le notifiche degli avvisi, veniva avanzata dalla società, per cui deve ritenersi, conformemente ad una giurisprudenza granitica di questa Corte (Cass. 24/8/2018, n. 21071/20198), che l’impugnazione abbia sanato sia il vizio di nullità della notifica dell’avviso per il raggiungimento dello scopo dell’atto sia eventuali vizi di nullità degli atti del procedimento di verifica. In particolare, si è affermato che “nell’ipotesi di nullità della notifica dell’atto impositivo tale nullità è sanata, a norma dell’art. 156 c.p.c., comma 2, per effetto del raggiungimento del suo scopo, il quale, postulando che alla notifica invalida sia comunque seguita la conoscenza dell’atto da parte del destinatario, può desumersi anche dalla tempestiva impugnazione, ad opera di quest’ultimo, dell’atto invalidamente notificato” (Cass. 22/1/2014, n. 1238).
3. Con il secondo strumento la società lamenta la “erronea e/o falsa applicazione dell’art. 73, commi 3, 5bis e 5ter D.P.R. 22.12.1973, n. 917 in riferimento all’art. 360, n. 3, c.p.c., ai principi giuridici delle norme della C.E.E. e della giurisprudenza della Suprema Corte e della Corte di giustizia Europea – Illegittimo accertamento della “residenza fiscale” in violazione dei canoni interpretativi giurisprudenziali nazionali e comunitari – Vizio di errata motivazione circa la sussistenza della prova dell’esterovestizione in riferimento all’art. 360 c.p.c. n. 5 – Inesistenza dell’asserita esterovestizione”.
Sostiene, in particolare, che le presunzioni semplici dedotte dalla CTR siano prive di un oggettivo riscontro e non possano, pertanto, fondare il giudizio di sussistenza di una esterovestizione. In particolare, il primo elemento indiziario, ovvero l’essere il Cda della società composto al 50% dalla Co.fin.co. Srl (socio di maggioranza della Cose di Lana Spa) non avrebbe alcun rilievo ai sensi dell’art. 73 comma 5 bis t.u.i.r. poiché la Cose di Lana Spa non detiene alcuna partecipazione nella ETRIMA AD. Il secondo elemento, ovvero l’essere le istruzioni degli amministratori della Cose di Lana Spa impartite al sig. (omissis), sarebbe rimasto sfornito di prova. Il terzo, l’essere la contabilità industriale della società elaborata in Italia presso la sede della Cose di Lana Spa, non sarebbe suffragato da idonea documentazione. Il quarto ed ultimo elemento, infine, ovvero il costante sostegno finanziario alla ETRIMA AD da parte della Cose di Lana Spa, non è supportato da idonea prova.
Il motivo è inammissibile, oltre che infondato.
3.1. Sotto un primo profilo, generale, il motivo sovrappone inestricabilmente nell’esposizione l’omessa motivazione e la violazione di legge; integra, in altri termini, un motivo cd. coacervato, senza possibilità di distinguere (salvo quanto a breve si dirà infra) i vari vizi sostanzialmente denunciati, anche in contrato logico tra loro, che danno luogo ad una sostanziale mescolanza e sovrapposizione di censure, con l’inammissibile prospettazione della medesima questione sotto profili incompatibili (Cass. 23/10/2018, n. 26874; Cass. 23/09/2011, n. 19443; Cass. 11/04/2008, n. 9470), non risultando specificamente separati la trattazione delle doglianze relative all’interpretazione o all’applicazione delle norme di diritto appropriate alla fattispecie ed i profili attinenti alla ricostruzione del fatto (Cass, 11/04/2018, n. 8915; Cass. 23/04/2013, n. 9793) o a pretesi vizi processuali.
3.2. Il motivo è, comunque, infondato.
3.3. La questione in giudizio, invero, va ricondotta alla c.d. esterovestizione, termine con cui si intende la fittizia localizzazione della residenza fiscale di una società all’estero, in particolare in un Paese con un trattamento fiscale più vantaggioso di quello nazionale, allo scopo, ovviamente, di sottrarsi al più gravoso regime nazionale, e ha costituito oggetto di ampia disamina da parte di questa Corte con le sentenze n. 2869 del 7/2/2013, e n. 33234 del 21/12/2018.
La fattispecie, in realtà, ricorre sia nell’ipotesi in cui una società, solo formalmente avente la propria sede all’estero, abbia un collegamento effettivo con il territorio italiano secondo i criteri dettati dall’art. 73, comma 3, t.u.i.r. (sede legale, sede dell’amministrazione o oggetto principale per la maggior parte del periodo di imposta; cd. esterovestizione di fatto) sia nell’ipotesi di società controllate secondo il meccanismo previsto dal comma 5bis della citata norma (cd. esterovestizione di diritto).
Occorre, opportunamente, dare atto che al caso in decisione non si applica la modifica dell’art. 73 t.u.i.r., disposta dall’art. 2 del D.Lgs. del 27 dicembre 2023, n. 209, atteso che, ai sensi del successivo art. 7, comma 2, dello stesso decreto, le disposizioni di cui agli articoli 2, 3, 4 e 6 si applicano a decorrere dal periodo di imposta successivo a quello in corso alla data (29 dicembre 2023, ai sensi dell’art. 63) di entrata in vigore del presente decreto, quindi dall’annualità 2024.
3.3.1. Con particolare riferimento alla prima ipotesi, questa Corte ha affermato che il parametro di riferimento è previsto sulla base di diversi criteri di collegamento effettivo con il territorio dello Stato, individuati facendo riferimento al dato formale della sede legale, ovvero agli ulteriori criteri sostanziali che tengono conto o della peculiare attività economica prevalentemente esercitata per conseguire lo scopo sociale (l’oggetto sociale) o del luogo da cui promanano gli impulsi volitivi inerenti l’attività di gestione dell’ente (la sede dell’amministrazione). Quest’ultima, in particolare, coincide con la “sede effettiva” della società, intesa, in senso civilistico, come il luogo di concreto svolgimento delle attività amministrative e di direzione dell’ente, in cui si convocano le assemblee, e cioè il luogo deputato, o stabilmente utilizzato, per l’accentramento – nei rapporti interni e con i terzi – degli organi e degli uffici societari in vista del compimento degli affari e dell’impulso dell’attività dell’ente (Cass. 21/6/2019, n. 16697).
Sullo specifico punto la Corte di Giustizia (28/6/2007, C-73/06, Planzer Luxemburg Sarl, punti 60-61, richiamata da Cass. 03/06/2021, n. 15424) ha ribadito che la nozione di sede dell’attività economica “indica il luogo in cui vengono adottate le decisioni essenziali concernenti la direzione generale della società e in cui sono svolte le funzioni di amministrazione centrale di quest’ultima”. Inoltre, la determinazione del luogo della sede dell’attività economica di una società implica “la presa in considerazione di un complesso di fattori, al primo posto dei quali figurano la sede statutaria, il luogo dell’amministrazione centrale, il luogo di riunione dei dirigenti societari e quello, abitualmente identico, in cui si adotta la politica generale di tale società. Possono essere presi in considerazione anche altri elementi, quali il domicilio dei principali dirigenti, il luogo di riunione delle assemblee generali, di tenuta dei documenti amministrativi e contabili e di svolgimento della maggior parte delle attività finanziarie, in particolare bancarie”.
3.3.2. Ora, perché questo meccanismo risponda alla nozione di pratica abusiva occorre, per un verso, che esso abbia come risultato l’ottenimento di un vantaggio fiscale la cui concessione sarebbe contraria all’obiettivo perseguito dalle norme e, dall’altro, che da un insieme di elementi oggettivi risulti che lo scopo essenziale dell’operazione si limiti all’ottenimento di tale vantaggio fiscale (vedi Corte giust. 17/12/2015, causa C-419/14, WebMindLicenses Kft, punto 36).
Non è difatti sufficiente applicare criteri generali predeterminati, ma occorre passare in rassegna la singola operazione. Ciò perché una presunzione generale di frode e di abuso non può giustificare né un provvedimento fiscale che pregiudichi gli obiettivi di una direttiva, né uno che pregiudichi l’esercizio di una libertà fondamentale garantita dal Trattato (in particolare, Corte giust. 7/9/2017, causa C-6/16, Equiom e Enka, punti 30-32).
È necessario, quindi, accertare che lo scopo essenziale di un’operazione si limiti all’ottenimento di tale vantaggio fiscale: ciò perché quando il contribuente può scegliere tra due operazioni, non è obbligato a preferire quella che implica il pagamento di maggiori imposte, ma, al contrario, ha il diritto di scegliere la forma di conduzione degli affari che gli consenta di ridurre la sua contribuzione fiscale (Corte giust. cit. in causa C-6/16, punto 42; Cass. 15/3/2022, n. 8297).
3.3.3. Giustappunto con riguardo al fenomeno della localizzazione all’estero della residenza fiscale di una società, si è quindi sottolineato (Corte giust. 12/9/2006, in causa C 196/04, Cadbury Schweppes e Cadbury Schweppes Overseas) che, in tema di libertà di stabilimento, la circostanza che una società sia stata creata in uno Stato membro per fruire di una legislazione più vantaggiosa non costituisce per se stessa un abuso di tale libertà; una misura nazionale che restringe la libertà di stabilimento è ammessa soltanto se concerne specificamente le costruzioni di puro artificio finalizzate ad eludere la normativa dello Stato membro interessato.
L’obiettivo della libertà di stabilimento è di permettere a un cittadino di uno Stato membro di creare uno stabilimento secondario in un altro Stato membro per esercitarvi le proprie attività e di partecipare così, in maniera stabile e continuativa, alla vita economica di uno Stato membro diverso dal proprio di origine e di trarne vantaggio.
La nozione di stabilimento implica, quindi, l’esercizio effettivo di un’attività economica per una durata di tempo indeterminata, mercé l’insediamento in pianta stabile in un altro Stato membro:
presuppone, pertanto, un insediamento effettivo della società interessata nello Stato membro ospite e l’esercizio quivi di un’attività economica reale.
Ne consegue che, perché sia giustificata da motivi di lotta a pratiche abusive, una restrizione alla libertà di stabilimento deve avere lo scopo specifico di ostacolare comportamenti consistenti nel creare costruzioni puramente artificiose, prive di effettività economica e finalizzate ad eludere la normale imposta sugli utili generati da attività svolte sul territorio nazionale.
In definitiva, quel che rileva, ai fini della configurazione di un abuso del diritto di stabilimento, non è accertare la sussistenza o meno di ragioni economiche diverse da quelle relative alla convenienza fiscale, ma accertare se il trasferimento in realtà vi è stato o meno, se, cioè, l’operazione sia meramente artificiosa (wholly artificial arrangement), consistendo nella creazione di una forma giuridica che non riproduce una corrispondente e genuina realtà economica (Cass. 21/12/2018, n. 33234).
In definitiva, la contestazione di esterovestizione va necessariamente inquadrata nel campo dell’antielusione, presupponendo, quali connotazioni strutturali, l’aggiramento di principi dell’ordinamento tributario, l’indebito vantaggio fiscale e l’insussistenza di valide ragioni economiche (Cass. 22/6/2021, n. 17849).
3.3.4. Successivamente questa Corte ha affermato la necessità di un esame concreto dei criteri di collegamento previsti dall’art. 73, comma 3, TUIR – ossia la sede legale, la sede dell’amministrazione, l’oggetto principale – a prescindere dal rilievo sul carattere abusivo della collocazione estera della società (Cass. 25/7/2022, n. 23150).
Si è, infatti, precisato, partendo dalla ratio della norma, che “in coerenza con la stessa rubrica (Soggetti passivi’) dell’art. 73, il comma in esame indica i criteri di collegamento, paritetici ed alternativi, tra i soggetti passivi (nella specie le società) dell’imposizione diretta ed il territorio dello Stato, la cui ricorrenza, per la maggior parte del periodo d’imposta, determina la residenza in Italia della contribuente e, con essa, l’assoggettamento alla potestà impositiva del fisco italiano.
La rilevanza dei criteri di collegamento territoriali individuati dalla norma prescinde dall’eventuale alterazione, da parte della società contribuente, della realtà oggettiva, al fine di configurare una residenza diversa da quella effettiva, con il fine di sottrarsi all’imposizione dello Stato italiano e di entrare nell’area territoriale di imposizione di uno Stato diverso, il cui trattamento fiscale risulti più favorevole.
Vale a dire che i criteri in questione non sono finalizzati unicamente ad individuare fenomeni, di natura elusiva, solitamente definiti di “esterovestizione”, caratterizzati in generale dall’artificiosa ed apparente distrazione del soggetto passivo del territorio nazionale, e quindi della residenza in Italia e della potestà impositiva nazionale, per attrarlo nell’area impositiva più conveniente di altro Stato.
Certamente, in questi ultimi casi, i criteri di collegamento territoriale dettati dal ridetto art. 73 t.u.i.r. sono fondamentali per verificare quale sia in realtà la residenza effettiva della società, nonostante la manipolazione della realtà operata dalla contribuente.
Tuttavia gli stessi criteri svolgono la loro naturale funzione selettiva dei soggetti passivi dell’imposizione nazionale in ogni fattispecie nella quale, per elementi oggettivi transnazionali che emergano nel caso concreto ed a prescindere da qualsiasi ipotetica manovra elusiva dell’ente accertato, sorga l’esigenza di verificare, ai fini fiscali, la residenza in Italia di quest’ultimo. Pertanto, non vi è necessaria coincidenza tra accertamento della residenza in Italia di una società ai sensi dell’art. 73, terzo comma TUIR ed accertamento della c.d. esterovestizione elusiva, trattandosi di concetti che possono ma non debbono inevitabilmente presentarsi contemporaneamente in ogni fattispecie di rilievo transnazionale. Con la conseguenza, quindi, che la verifica della residenza in Italia di una società, ai sensi del ridetto art. 73, non richiede necessariamente l’imputazione alla contribuente, e l’accertamento di una finalità elusiva volta a perseguire uno specifico vantaggio fiscale che altrimenti non le spetterebbe” (Cass. 11/04/2022 n. 11709; conf. Cass. n. 23150/2022).
Si è, quindi, affermato che “in materia di imposte sui redditi della società, l’applicazione dei concorrenti criteri di collegamento di cui all’art. 73, comma 3, D.P.R. n. 917/1986, della sede legale o sede dell’amministrazione od oggetto principale in Italia è compatibile con la contestazione da parte della Amministrazione finanziaria alla parte contribuente di un’evasione fiscale, a prescindere dall’accertamento di un’eventuale finalità elusiva della contribuente, che sia volta a perseguire uno specifico vantaggio fiscale che altrimenti non le spetterebbe” (Cass. 25/11/2022, n. 34723).
3.3.5. I criteri giurisprudenziali di accertamento della residenza all’estero sono, altresì, coerenti con quelli sanciti dalla Convenzione Italia-Bulgaria del 21 settembre 1988, ratificata con legge n. 389/1990; in particolare l’articolo 1, comma 4, della detta Convenzione prevede che “quando, in base alle disposizioni del paragrafo 2, una persona diversa da una persona fisica è residente di entrambi gli Stati contraenti, essa è considerata residente dello Stato in cui si trova la sede della sua direzione effettiva”. Il criterio della direzione effettiva corrisponde sostanzialmente al concetto di place of management di cui all’articolo 4 del modello OCSE (che nella formulazione originaria così disponeva: for the purposes of this Convention, the term “resident of a Contracting State” means any person who, under the laws of that State, is liable to tax therein by reason of his domicile, residence, place of management or any other criterion of similar nature). L’ultima edizione del Mod. OCSE/2017 (sulla scia di considerazioni manifestate sin dalla versione del 2008 del relativo Commentario, par. 24.1) e la Convenzione Multilaterale 2016 (BEPS) ribadiscono il concetto di place of effective management quale criterio fondamentale di collegamento fiscale, sebbene non più esclusivo, dovendo prediligersi un approccio case by case al problema della doppia residenza della società, da risolversi preferibilmente con una procedura amichevole tra gli Stati interessati.
Il criterio applicato dall’articolo 4, paragrafo 3, del Modello OCSE, come modificato nel 2017, è infatti quello del luogo dove le autorità Fiscali degli Stati contraenti, di comune accordo, determinano la residenza, tenendo conto della combinazione di diversi fattori, sia formali che sostanziali, tra i quali continua ad essere menzionato il place of effective management, ma come uno (non l’unico) dei possibili elementi rilevanti: where by reason of the provisions of paragraph 1 a person other than an individual is a resident of both Contracting States, the competent authorities of the Contracting States shall endeavour to determine by mutual agreement the Contracting State of which such person shall be deemed to be a resident for the purposes of the Convention, having regard to its Place of effective management, the place where it is incorporated or otherwise constituted and any other relevant factors. In the absence of such agreement, such person shall not be entitled to any relief or exemption from tax provided by this Convention except to the extent and in such manner as may be agreed upon by the authorities of the Contracting States.
A conferma della centralità – nel complesso del sistema multilivello internazionale di disciplina della residenza in materia -della sede di direzione effettiva, vale la pena considerare incidentalmente che il legislatore nazionale, con l’art. 3, comma 1, della legge del 9 agosto 2023, n. 111, relativa alla delega al Governo per la riforma fiscale, in materia di “principi generali relativi al diritto tributario dell’Unione Europea e internazionale”, dettando gli “ulteriori principi e criteri direttivi generali” cui il Governo doveva attenersi, alla lettera c) ha disposto doversi “provvedere alla revisione della disciplina della residenza fiscale delle persone fisiche, delle società e degli enti diversi dalle società come criterio di collegamento personale all’imposizione, al fine di renderla coerente con la migliore prassi internazionale e con le convenzioni sottoscritte dall’Italia per evitare le doppie imposizioni, nonché coordinarla con la disciplina della stabile organizzazione e dei regimi speciali vigenti per i soggetti che trasferiscono la residenza in Italia anche valutando la possibilità di adeguarla all’esecuzione della prestazione lavorativa in modalità agile”. Ebbene, il legislatore delegato, con l’art. 2, comma 1, lettera a) del D.Lgs. 27 dicembre 2023, n. 209, ha modificato il terzo comma dell’art. 73 t.u.i.r., il quale, per quanto qui può interessare, dispone ora che “ai fini delle imposte sui redditi si considerano residenti le società e gli enti che per la maggior parte del periodo di imposta hanno nel territorio dello Stato la sede legale o la sede di direzione effettiva o la gestione ordinaria in via principale. Per sede di direzione effettiva si intende la continua e coordinata assunzione delle decisioni strategiche riguardanti la società o l’ente nel suo complesso. Per gestione ordinaria si intende il continuo e coordinato compimento degli atti della gestione corrente riguardanti la società o l’ente nel suo complesso (…)”.
Dunque (a prescindere dalla non applicabilità, ratione temporis, della novella in questione al caso di specie, ai sensi della disposizione intertemporale di cui all’art. 7, comma 2, del medesimo D.Lgs.) anche la ricognizione, da parte del legislatore delegato, della migliore prassi internazionale e delle convenzioni sottoscritte dall’Italia, ha avuto come esito la valorizzazione del concetto della “sede di direzione effettiva” o della “gestione ordinaria in via principale” (così Cass. 19/07/2024, n. 20002).
3.4. Con particolare riferimento, poi, all’ipotesi di società controllate, deve premettersi che a mente dell’articolo 73, comma 5bis, t.u.i.r., introdotto dall’art. 35, comma 13, del D.L. n. 223/2006, “salvo prova contraria, si considera esistente nel territorio dello Stato la sede dell’amministrazione di società ed enti, che detengono partecipazioni di controllo, ai sensi dell’articolo 2359, primo comma, del codice civile, nei soggetti di cui alle lettere a) e b) del comma 1, se, in alternativa: a) sono controllati, anche indirettamente, ai sensi dell’articolo 2359, comma 1, del codice civile, da soggetti residenti nel territorio dello Stato; b) sono amministrati da un consiglio di amministrazione, o altro organo equivalente di gestione, composto in prevalenza da consiglieri residenti nel territorio dello Stato”.
I “soggetti di cui alle lettere a) e b) del comma 1”, ai quali essa fa riferimento, sono, rispettivamente “a) le società per azioni e in accomandita per azioni, le società a responsabilità limitata, le società cooperative e le società di mutua assicurazione, nonché le società Europee di cui al regolamento (CE) n. 2157/2001 e le società cooperative Europee di cui al regolamento (CE) n. 1435/2003 residenti nel territorio dello Stato; b) gli enti pubblici e privati diversi dalle società, nonché i trust, residenti nel territorio dello Stato, che hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali”.
Come si ricava dal chiaro tenore testuale della norma in commento, il legislatore ha inteso limitare l’applicabilità della presunzione legale relativa di c.d. esterovestizione ivi stabilita, subordinandola alla ricorrenza del duplice presupposto che la società avente sede all’estero, oltre a detenere la partecipazione di controllo in una società o in un altro ente commerciale residente in Italia, sia a sua volta controllata, anche indirettamente, ai sensi dell’art. 2359, comma 1, c.c., da soggetti residenti nel territorio dello Stato ovvero amministrata da un consiglio di amministrazione composto in prevalenza di consiglieri residenti nel medesimo territorio (Cass. 6/2/2024, n. 3386).
Lo stesso legislatore si è premurato di specificare che il controllo, anche solo indiretto, deve manifestarsi nelle forme previste dall’art. 2359, comma 1, c.c., in base al quale si considerano controllate: 1) le società in cui un’altra società dispone della maggioranza dei voti esercitabili nell’assemblea ordinaria (cd. controllo interno di diritto); 2) le società in cui un’altra società dispone di voti sufficienti per esercitare un’influenza dominante nell’assemblea ordinaria (cd. controllo interno di fatto); 3) le società che sono sotto influenza dominante di un’altra società in virtù di particolari vincoli contrattuali con essa.
La norma prosegue, al secondo comma, evidenziando che, ai fini dell’applicazione delle prime due fattispecie, “si computano anche i voti spettanti a società controllate, a società fiduciarie e a persona interposta: non si computano i voti spettanti per conto di terzi”.
Si è ulteriormente precisato che “al fine di accertare se una società estera sia soggetta al controllo da parte di una società italiana, la verifica della sussistenza della fattispecie di cui all’art. 2359, comma primo, num. 1, cod. civ. (cd. controllo interno di diritto) impone di accertare che la maggioranza delle quote della società estera sia concentrata in capo alla sola società italiana, senza che rilevi la possibile titolarità di altre quote da parte dei soci di quest’ultima, a ciò ostando il disposto di cui all’art. 2359, comma secondo, cod. civ. che esclude, al riguardo, il computo dei voti spettanti per conto di terzi” (Cass. 5/4/2023, n. 9400).
Sono questi i parametri normativi cui deve necessariamente farsi riferimento onde poter ritenere sussistente quello specifico rapporto fra soggetti distinti che può radicare, eventualmente, l’applicazione della disciplina dell'”esterovestizione” di cui all’art. 73, comma 5bis, cit.
3.5. La Corte di Giustizia Europea sin dalle sentenze 27 settembre 1988 (causa C-81/87) e 5 novembre 2002 (causa C-208/00) ha chiarito che gli Stati membri sono liberi di determinare il criterio di collegamento di una società con il territorio dello Stato, in particolar modo anche mediante convenzioni bilaterali in conformità al modello OCSE. A tale riguardo occorre ricordare, da un lato, che il mantenimento della ripartizione del potere impositivo tra gli Stati membri è un obiettivo legittimo, riconosciuto dalla CGUE; dall’altro, secondo un costante orientamento giurisprudenziale, in mancanza di disposizioni di unificazione o di armonizzazione adottate dall’Unione Europea, gli Stati membri rimangono competenti a definire, in via convenzionale o unilaterale, i criteri di ripartizione del loro potere impositivo, in particolare, al fine di eliminare le doppie imposizioni (Corte di Giustizia UE, grande sezione, 29/11/2011, n. 371 e decisioni ivi citate).
3.6. Ciò posto, deve rilevarsi che nella presente fattispecie, alla stregua delle stesse allegazioni dell’Agenzia e degli accertamenti fattuali compiuti dalla CTR, appare insussistente il primo fondamentale presupposto legale di operatività della presunzione dettata dall’articolo 73 comma 5bis t.u.i.r., non risultando che la ETRIMA AD detenga partecipazioni di controllo – secondo una delle modalità contemplate dall’art. 2359, comma 1, cod. civ. – in società o altro ente commerciale residente nel territorio dello Stato, né viceversa, ovvero che la Cose di Lana Spa detenga partecipazioni di tal fatta nella ETRIMA AD (essendo il socio della Cose di Lana, Co.Fin.Co., detentore del 50% delle quote della società estera).
In tale ottica sembrano essersi mossi i giudici del merito nella misura in cui dopo aver indicato, come mero dato fattuale, i rapporti interoperativi tra la ETRIMA AD, la Cose di Lana Spa, la Co.Fin.Co. e la Eurosystem Co., hanno affermato l’esistenza della estero vestizione non già sulla base della presunzione legale sancita dal comma 5bis dell’articolo 73 t.u.i.r., bensì sulla base della presunzione semplice dell’esistenza della sede amministrativa e del centro di direzione della ETRIMA AD sul territorio italiano (art. 73 comma 3 t.u.i.r.), presunzione fondata su plurimi elementi, due dei quali soltanto sono stati contestati dalla ricorrente nella loro valenza indiziaria.
Precisamente, la CTR ha evidenziato i seguenti elementi: “1) parte dei consigli di amministrazione si sono svolti in Sansepolcro presso la sede di Cose di Lana Spa, come risulta dal documento (CdA e convocazione dell’assemblea dei soci per gli anni 2008 e 2009). Sempre in Sansepolcro c’è stata una riunione di riorganizzazione del 21.5.2010 (doc. 14), il CdA di Etrima DA del 21.3.2003 con presenza della totalità dei consiglieri (doc. n. 21 e 23) e lettera firmata dai consiglieri Conti eBi.Gi. con oggetto il Cda di ETRIMA AD effettuato in data 24.11.2006;
2) la contabilità industriale che tiene conto dei costi di gestione della ETRIMA AD e la sua incidenza dei costi alla formazione del prezzo finale della lavorazione veniva elaborata presso la sede della Cose di Lana Spa (come risulta dai vari punti richiamati nel PVC);
3) la predisposizione e la regolarizzazione di vari contratti da parte di ETRIMA AD avvenuti tramite la Cose di Lana Spa (vedi doc. 4 con Alpona Mode, doc. 20 per accordo con Polly Stoev Srl e doc. 22 per contratto di leasing);
4) il sostegno finanziario a favore di ETRIMA AD da parte di Cose di Lana Spa, attraverso maggiori versamenti, rispetto ai prodotti finiti, effettuati per il tramite della Eurosystem Co Ltd.
5) I reali rapporti di controllo della Cose di Lana, come risulta dai doc. 7,8,9 e 10”.
Alla luce dei sopra esposti elementi la CTR ha ritenuto dimostrato, da parte dell’Ufficio, “che la soc. Cose di Lana Spa ha effettivamente esercitato il potere della gestione dell’attività sociale di ETRIMA AD” (pagina 5 della sentenza).
3.7. Il motivo di ricorso in esame si appalesa, allora, inammissibile sotto (ulteriori) plurimi profili; in primo luogo, in quanto non solo contesta alcuni elementi che non sono posti, dalla CTR, a base della presunzione semplice di esterovestizione (ovvero, da un lato, il controllo tra le società ex art. 73 comma 5bis t.u.i.r. e, dall’altro, le istruzioni degli amministratori della Cose di Lana Spa impartite da (omissis); del ruolo di quest’ultimo ha, in verità, parlato solo la CTP) ma, ciò che più rileva, contesta solo alcuni (sub nn. 2 e 4) degli elementi posti dalla CTR a sostegno della presunzione di esterovestizione, senza nemmeno indicare le ragioni per le quali gli altri elementi residui (e non contestati) non consentano di supportare il giudizio di presunzione espresso dalla CTR.
In secondo luogo, con il motivo la ricorrente chiede una nuova valutazione delle circostanze fattuali esaminate dalla CTR, in particolare con riferimento al finanziamento da parte della Cose di Lana, operazione evidentemente preclusa a questa Corte.
Infine, il motivo avalla e propugna un esame atomistico degli elementi indiziari indicati dalla CTR, esame che per la giurisprudenza costante di questa Corte (v. infra) è inammissibile, dovendo essere compiuta una valutazione complessiva degli stessi.
3.8. Il motivo è, comunque, infondato.
Nella specie, la CTR ha fatto corretta applicazione dei principi affermati da questa Corte in materia di valutazione degli elementi indiziari raccolti, essendosi uniformata ai criteri giurisprudenziali di accertamento della residenza di una società all’estero (sopra riportati, cfr. Cass. nn. 11709/2022, 11710/2022 e 23150/2023) ed alla seguente regola iuris: “in tema di prova per presunzioni, il giudice, posto che deve esercitare la sua discrezionalità nell’apprezzamento e nella ricostruzione dei fatti in modo da rendere chiaramente apprezzabile il criterio logico posto a base della selezione delle risultanze probatorie e del proprio convincimento, è tenuto a seguire un procedimento che si articola necessariamente in due momenti valutativi: in primo luogo, occorre una valutazione analitica degli elementi indiziari, per scartare quelli intrinsecamente privi di rilevanza e conservare, invece, quelli che, presi singolarmente, presentino una positività parziale o almeno potenziale di efficacia probatoria; successivamente, è doverosa una valutazione complessiva di tutti gli elementi presuntivi isolati, per accertare se essi siano concordanti e se la loro combinazione sia in grado di fornire una valida prova presuntiva, che magari non potrebbe dirsi raggiunta con certezza considerando atomisticamente uno o alcuni di essi” (Cass. n. 21035/2023).
Infine, è opportuno sottolineare che la stessa ricorrente fa esplicito riferimento alla rilevanza decisiva del luogo ove è sita la sede amministrativa della società (pag. 17 del ricorso) ed ove hanno sede anche le attività “amministrative, produttive, gestionali e di direzione dell’ente” (pag. 21), così riconoscendo esplicitamente che non è sufficiente, ai fini che qui rilevano, la mera collocazione di un opificio all’estero.
4. Con il terzo motivo la società ETRIMA AD lamenta la “illegittimita’ della sentenza per l’arbitrarieta’ della metodologia di determinazione induttiva dei presunti redditi della ETRIMA A.D.”. In particolare, l’ufficio avrebbe determinato in via induttiva i ricavi della società sulla base di una redditività media di settore priva di un riscontro ufficiale. La ricorrente richiama, poi, la sent. n. 43809/2015 della III Sezione Penale di questa Corte che ha affrontato per la prima volta “il delicatissimo rapporto tra controllo societario, attività di direzione e coordinamento di una controllata residente su una controllata estera e il criterio della direzione effettiva di una società estera ai fini di individuare la residenza fiscale di una controllata estera” (pag. 27 del ricorso).
Il motivo è solo in parte fondato.
4.1. Va opportunamente premesso che la ricorrente non indica il vizio sindacabile ai sensi dell’articolo 360 cod. proc. civ., omissione comunque emendabile dalla Corte al lume del contenuto del motivo. Ora, il motivo de quo, nel primo sviluppo, lamenta una motivazione apparente della sentenza della CTR nella parte in cui censura la determinazione induttiva dei ricavi della ETRIMA AD (pertanto, è sussumibile nell’articolo 360, comma primo, numero 4 cod. proc. civ.), successivamente riprende la doglianza relativa alla violazione dell’articolo 73, commi 5bis e 5ter, t.u.i.r. già avanzata con il secondo motivo (ed è, in parte qua, sussumibile nel numero 3 del comma primo dell’articolo 360 cod. proc. civ.).
4.2. Ebbene, sotto il primo profilo il motivo è fondato perché l’argomentazione della CTR sul punto della determinazione della percentuale di ricarico è assertiva ed apodittica.
Giova premettere che secondo la giurisprudenza di questa Corte la motivazione è solo “apparente” e la sentenza è nulla quando benché graficamente esistente, non renda percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture (Cass., Sez. U., 7/4/2014 n. 8053).
In materia di determinazione della percentuale di ricarico dei prezzi di vendita, la giurisprudenza è costante nel ritenere che il controllo di logicità sulla scelta ed applicazione del criterio di calcolo per il ricarico si estende anche alla congruità del campione selezionato per la comparazione tra i prezzi di rivendita e di acquisto, dovendo comprendere un “gruppo significativo, per qualità e quantità di beni” oggetto dell’attività d’impresa, anche senza estendersi necessariamente alla totalità dei beni. In sostanza, il riscontro di incongrue percentuali di ricarico sulla merce venduta costituisce – sia in tema di imposte dirette sia in tema di IVA -legittimo presupposto dell’accertamento induttivo, purché la determinazione della percentuale di ricarico sia coerente con la natura e con le caratteristiche dei beni venduti, sicché, qualora il contribuente, in sede di giudizio, contesti il criterio di determinazione della percentuale di ricarico, il giudice di merito è tenuto a verificare la scelta dell’Amministrazione in relazione alle critiche proposte, alla luce dei canoni di coerenza logica e congruità, tenuto conto della natura, omogenea o disomogenea, dei beni merce nonché della rilevanza dei campioni selezionati, e la loro rispondenza al criterio di media (aritmetica o ponderale) prescelto (Cass. 22/10/2018, n. 26589; conf. Cass. 03/10/2018, n. 24017, Cass. 27/12/2018, n. 33458).
Nella specie i giudici di appello hanno affermato che “è assolutamente legittimo il ricorso alla redditività media del settore in ambito dell’Italia centrale sulla base di 140 soggetti con attività 13.91.00, opportunamente incrementato del 5%, da ritenersi congruo, per gli anni 2008 e 2009 in considerazione della presenza di minor costo del lavoro in Bulgaria” (pag. 5 della sentenza).
Si tratta di una motivazione generica che non consente in alcun modo di apprezzare l’iter logico posto a fondamento della decisione di appello e di verificare le ragioni che hanno indotto la CTR a confermare la sentenza di primo grado.
4.3. Invece sotto il secondo aspetto il motivo è privo di pregio in quanto muove dall’erroneo presupposto dell’applicabilità al caso di specie della disciplina in materia di società controllate (art. 73 commi 5bis e 5ter t.u.i.r.), esclusa nella fattispecie, come supra argomentato. Di qui l’irrilevanza nel presente giudizio della decisione della III Sezione Penale indicata dalla ricorrente.
5. In definitiva il ricorso va accolto limitatamente al terzo motivo, per quanto di ragione; la sentenza impugnata va, quindi, cassata con rinvio alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Toscana, in diversa composizione, perché proceda a nuovo esame in relazione alla censura accolta ed alla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il terzo motivo di ricorso per quanto di ragione, dichiara inammissibili i primi due motivi, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Toscana, in diversa composizione, perché proceda a nuovo esame in relazione alla censura accolta ed alla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 7 giugno 2024.
Depositato in Cancelleria il 2 ottobre 2024.
