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Cassazione civile sez. lav., 31/07/2024, n.21530

Massima

Posto che nel comparto sanità del pubblico impiego la retribuzione del dirigente medico è stabilita su base omnicomprensiva – ossia prescinde dall’orario di lavoro e dal tempo effettivamente dedicato all’attività -, va da sé che il dirigente non ha diritto ad un compenso aggiuntivo per il lavoro eccedente l’orario indicato dalla contrattazione collettiva, anche se tale eccedenza deriva da un errore di calcolo del debito orario minimo da parte dell’ASL.

Supporto alla lettura

ORARIO DI LAVORO

L’orario di lavoro è quel periodo in cui il lavoratore è al lavoro e a disposizione del datore di lavoro, con l’obbligo di esercitare la sua attività o le sue funzioni. Qualsiasi periodo che non rientra nell’orario di lavoro è definito come periodo di riposo.

Un’importante limitazione definita dalla legge, ed integrata dalla contrattazione collettiva, riguarda invece il lavoro notturno.

Si distingue inoltre tra:

  • orario di lavoro normale: fissato in 40 ore settimanali (anche se ci sono deroghe a questa regola generale introdotte dalla legge);
  • orario di lavoro straordinario: eccedente il normale orario di lavoro e che, per espressa disposizione di legge, deve essere contenuto nonchè remunerato a parte e compensato con maggiorazioni previste dal contratto collettivo, che a sua volta può consentire, in alternativa o in aggiunta, che i lavoratori fruiscano di riposi compensativi. La legge prevede però dei casi in cui lo straordinario è comunque ammesso, a prescindere dalla volontà del singolo lavoratore, e salvo diverse disposizioni dei contratti collettivi (es. eccezionali esigenze tecnico-produttive; casi di forza maggiore; mostre, fiere e manifestazioni collegate all’attività produttiva)

In ogni caso si desume il diritto al riposo del lavoratore dopo sei giorni consecutivi di lavoro.

In merito al tema della reperibilità, oggetto di possibili modifiche, sono previsti precisi diritti del lavoratore tenuto ad essere reperibile di domenica; mentre, oggetto di numerose controversie è il tempo necessario al lavoratore per indossare la divisa di lavoro: secondo un ormai consolidato orientamento giurisprudenziale esso deve essere ricompreso nell’orario di lavoro (cd. “tempo tuta”).

Ambito oggettivo di applicazione

Fatto
FATTI DI CAUSA
1. La Corte d’Appello di Napoli, con la sentenza n.1955/2023 pubblicata il 1.6.2023, ha accolto il gravame proposto dalla A.S.L. di Avellino nella controversia con (omissis).

2. La controversia ha per oggetto la domanda di pagamento delle differenze retributive spettanti a seguito della erronea determinazione del c.d. debito orario assolto a seguito di assenze per ferie, malattia, festività, permessi ed altre assenze giustificate da parte di una dirigente medico di primo livello in servizio presso la A.S.L. di Avellino, con orario di lavoro di 38 ore settimanali.

3. Il Tribunale di Avellino accoglieva la domanda.

4. La Corte di Appello ha integralmente riformato la sentenza appellata, rigettando la domanda. La corte territoriale ha ritenuto che la dirigente avesse omesso di allegare e dunque di dimostrare di avere posto le sue energie lavorative a disposizione della A.S.L. per un numero di ore superiore a quello retribuito per previsione della contrattazione collettiva.

5. Pur ritenendo tale omissione “sufficiente per suffragare il rigetto della domanda”, la corte territoriale ha rilevato che l’art.14 del CCNL applicabile non prevede alcun orario giornaliero da osservare, né prevede il diritto del sanitario a prestare la propria opera per 6 ore e 20 minuti al giorno, essendo tale quantificazione il frutto di una “arbitraria suddivisione dell’orario su sei giorni”, laddove lo stesso art.14 prevede che l’articolazione dei turni possa essere effettuata su tutti i giorni della settimana.

6. La Corte d’Appello ha poi aggiunto che l’art.24 D.Lgs. 165/200, nel remunerare tutte le funzioni ed i compiti attribuiti al dirigente, esclude la possibilità di una sua remunerazione oraria; e che il CCNL del 1996, in quella parte ancora applicabile, disciplina il regime delle ferie, festività e permessi su base giornaliera, e non oraria.

7. Per la Cassazione della sentenza ricorre (omissis), con un ricorso affidato a due motivi. La A.S.L. resiste con controricorso.

8. Entrambe le parti hanno depositato memorie illustrative, mentre la P.G. ha concluso, con requisitoria scritta, per l’accoglimento del ricorso.

Diritto
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Il primo motivo è articolato sulla base di profili distinti e cumulati. La ricorrente lamenta anzitutto la violazione dell’art.360 co.1 nn. 3 e 5 c.p.c., in relazione all’art. 14 CCNL della dirigenza medica del 3.11.2005, degli artt.21, 23 e 24 del CCNL della dirigenza medica del 5.12.1996, dell’art.14 del CCNL della dirigenza medica del 10.2.2004, nonché dell’art.36 Cost. Secondo la prospettazione della ricorrente la corte territoriale avrebbe errato nella interpretazione dell’art.14 del CCNL della dirigenza medica del 3.11.2005, sostanzialmente abrogandolo, laddove ha ritenuto che tale disposizione non consentisse di determinare il debito orario giornaliero del dirigente medico sulla base di un orario settimanale di lavoro di 38 ore suddiviso su 6 giorni alla settimana, circostanza quest’ultima pacifica ed incontestata nel giudizio di merito. La ricorrente deduce che dall’art.14 cit. può desumersi un orario giornaliero di 6 ore e 20 minuti (38 ore diviso 6 giorni settimanali). E che tale è la quantità della prestazione imputabile all’assenza per ferie, malattia, permessi ed altri motivi giustificati, come previsti dagli artt.21, 23 e 24 del CCNL della dirigenza medica del 5.12.1996; ovvero nei casi dei permessi e congedi per eventi o cause particolari, come previsto dall’art.14 del CCNL del 10.2.2004. La ricorrente deduce che tali disposizioni della contrattazione collettiva, sostanzialmente sussumibili nel caso della prestazione lavorativa virtuale, postulano la necessità di determinare il debito orario giornaliero, al fine della determinazione dell’assolvimento del debito orario, nei termini sopra prospettati. Diversamente opinando si determinerebbe un aumento indebito della prestazione lavorativa.

2. La ricorrente deduce poi la violazione dell’art.360 co.1 nn.3 e 5 c.p.c., in relazione all’art.2697 c.c. e in relazione all’omesso esame e alla omessa pronuncia sulle prove documentali presentate, quali i fogli presenza.

3. Con il secondo motivo la ricorrente lamenta la violazione dell’art. 360 comma primo nn. 3 e n. 5 cod. proc. civ. per omessa valutazione ed omessa pronuncia in riferimento al quantum debeatur. Deduce che la quantificazione del proprio credito compiuta per mezzo dei conteggi allegati al ricorso introduttivo non è stata specificamente contestata dalla A.S.L., che si è invece limitata a contestare l’an debeatur.

4. Il primo motivo di ricorso è in parte infondato ed in parte inammissibile.

5. In sintesi, la ricorrente sostiene che la Corte d’Appello avrebbe adottato un’opzione interpretativa errata, che si traduceva in una implicita abrogazione dell’art. 14, comma 2, del c.c.n.l. 3.11.2005 della Dirigenza Medica. Questo perché l’indicazione dell’orario assolto di diritto (per ferie, festività, permessi, ecc.) in misura di 6 ore e non di ore 6 e 20 minuti “non è fatto solo formale”, in quanto “la distorta e illegittima composizione del debito assolto nell’ambito del monte ore contrattualmente dovuto determina un indebito aumento della prestazione lavorativa (i 20 minuti tagliati nei giorni di assenza vengono caricati sui turni di lavoro effettivo per giungere sempre alle 38 ore settimanali)” (p. 24 ricorso per cassazione) e, di conseguenza, la costrizione a un “lavoro supplementare non dovuto” (p. 2 ultimo cpv. ricorso per cassazione), donde la spettanza delle differenze retributive di cui in ricorso; differenze retributive richieste a titolo di “prestazione lavorativa eccedente rispetto a quella che avrebbe reso qualora non si fosse assentato” (p. 36, terz’ultimo cpv. del ricorso per cassazione).

6. La ricorrente sostiene, altresì, la contraddittorietà della motivazione, anche in relazione alle norme del c.c.n.l. in menzione, alle risultanze documentali e al contegno processuale delle parti, non avendo la ASL contestato il quantum della pretesa né il conteggio delle ore di lavoro a credito per l’erroneo calcolo del c.d. debito orario contrattuale giornaliero in oggetto connesso alle assenze per malattia, ferie, festività, permessi ecc.

7. La questione controversa riguarda i criteri di calcolo del debito orario giornaliero dei medici turnisti il cui orario di lavoro è articolato su sei giorni per 38 ore settimanali contrattuali. Nell’ipotesi di assenza del medico per ferie, malattie, festività, permessi, ecc., l’ASL calcola il debito orario assolto di diritto in 6 ore, anziché in 6,20 ore: risultato che, invece, si otterrebbe frazionando le 38 ore di debito orario settimanale per i sei giorni lavorativi. Ne consegue che il dirigente medico, per assolvere al debito orario settimanale, deve fare non già le ordinarie 38 ore contrattuali, ma un quid pluris parametrato al numero di assenze di servizio (i.e., 20 minuti in più per ogni legittima assenza registrata nel corso della settimana) che, in quanto orario indebitamente computato, andrebbe (a suo dire) retribuito a parte.

8. Secondo la dirigente medica, la regola dell’orario giornaliero di ore 6,20 vale sia per l’orario assolto effettivamente sia per il servizio figurativo, legato alle assenze legittime, perché altrimenti si crea “un indebito aumento della prestazione lavorativa” (p. 22 ricorso per cassazione), mentre la ASL obietta che la “flessibilità” oraria comporta l’inutilità di un approccio che mira a determinare la durata media della giornata lavorativa, aspetto che non influisce sulla dinamica salariale del dirigente medico, il quale comunque ha fruito per intero delle sue giornate di assenza.

9. Il tema del contendere sta, allora, nel vedere (da un lato) se il calcolo del debito orario è stato condotto correttamente dall’Azienda, nel rapporto tra ore assolte di diritto per assenze e ore assolte per turni di lavoro, e (dall’altro) se quel criterio di calcolo, seppure erroneo, si sia in concreto tradotto in “un indebito aumento della prestazione lavorativa”, da retribuire in termini di differenze retributive (così al 1 cpv. di p. 25 del ricorso per cassazione).

10. Sull’illegittimità del criterio di calcolo adottato dall’ASL nel periodo di causa la ricorrente riferisce che “dopo diffide e ricorsi” la ASL avrebbe modificato il proprio orientamento “e, a decorrere da marzo 2019, ha quantificato correttamente la durata dei giorni di assenza”. Il dato è confermato anche dall’art. 24 (“Orario di lavoro dei dirigenti”) del c.c.n.l. 19.12.2019, Area Sanità, il quale dispone, al comma 7, che “Ai sensi di quanto disposto dalle disposizioni legislative vigenti, l’orario di lavoro è articolato su cinque o sei giorni, con orario convenzionale rispettivamente di sette ore e trentasei minuti e di sei ore e venti minuti”.

11. Una previsione contrattuale (quest’ultima) che innova decisamente rispetto al precedente dettato del c.c.n.l. del 3.11.2005, applicabile ratione temporis, il quale si limita a stabilire (art. 14, comma 2) che l’orario di lavoro dei dirigenti medici è confermato in 38 ore settimanali.

12. L’indicazione in 38 ore dell’orario contrattuale settimanale, contenuta nella disciplina applicabile, senza specificazione dell’orario convenzionale giornaliero, ha indotto il giudice d’appello a negare le rivendicate differenze retributive, alla stregua del disposto di cui all’art. 24 D.Lgs. n. 165/2001 secondo il quale la retribuzione remunera tutte le funzioni e i compiti attribuiti al dirigente, escludendo la fondatezza della pretesa di un compenso “aggiuntivo” fondata sulla parametrazione oraria della retribuzione.

13. Un approdo che può essere condiviso, pur con le precisazioni di cui si dirà.

14. Nel caso di specie, si rileva che l’art. 17, comma 2, c.c.n.l. del 5.12.1996 per l’area della dirigenza medica e veterinaria – parte normativa quadriennio 1994-97 e parte economica biennio 1994-95 – determina l’orario dei dirigenti medici in 38 ore settimanali, ma l’art. 65, comma 3, secondo periodo, dispone che “la retribuzione di risultato compensa anche l’eventuale superamento dell’orario di lavoro di cui agli artt. 17 e 18 per il raggiungimento dell’obiettivo assegnato”.

15. Se corrisposto il trattamento accessorio costituito dalla retribuzione di risultato (art. 63 c.c.n.l. cit.) non è possibile, quindi, la distinzione tra il superamento dell’orario di lavoro preordinato al raggiungimento dei risultati assegnati e quello imposto da esigenze del servizio ordinario, poiché la complessiva prestazione del dirigente deve essere svolta al fine di conseguire gli obiettivi propri e immancabili dell’incarico affidatogli.

16. Già in epoca risalente le Sezioni Unite di questa Corte (v. Cass., Sez. Un., 17 aprile 2009, n. 9146) avevano affermato tale regola generale, negando fosse possibile la distinzione tra il superamento dell’orario di lavoro preordinato al raggiungimento dei risultati assegnati e quello imposto da esigenze del servizio ordinario.

17. In più recenti arresti (Cass. 22 marzo 2017, n. 7348; Cass. 28 marzo 2017, n. 7921; Cass. 26 aprile 2017, n. 10322; Cass. 2 luglio 2018, n. 17260; Cass. 11 luglio 2018, n. 18271; Cass. 8 novembre 2019, n. 28942), relativi ai contratti collettivi del 5.12.1996 e 8.6.2000, la Suprema Corte ha ribadito che l’eccedentarietà oraria non è mai suscettibile di autonoma remunerazione.

18. Ai principi affermati nelle decisioni di questa Corte innanzi richiamate è stata data continuità con successive pronunce (Cass. 5 agosto 2020, n. 16711; Cass. 7 agosto 2020, n. 16855; Cass. 4

gennaio 2023, n. 173), integralmente condivise dal Collegio, che hanno tenuto conto delle ulteriori disposizioni contenute nel c.c.n.l. del 31.11.2005, le quali non hanno innovato rispetto alla disciplina dettata dai contratti collettivi del 1996 e del 2000 (v. Cass. n. 28787/2017, Cass. n. 8958/2012).

19. Questo indirizzo giurisprudenziale è del tutto rispettoso del complessivo impianto della contrattazione collettiva in materia.

Infatti, l’art. 60 del c.c.n.l. del 3.11.2005 dispone che: “nelle parti non modificate o integrate o disapplicate dal presente contratto, restano confermate tutte le norme dei sotto elencati contratti ivi comprese in particolare le disposizioni riguardanti l’orario di lavoro e l’orario notturno nonché l’art. 62, comma 1 del c.c.n.l.” (tra i contratti elencati vi sono il c.c.n.l. del 5 dicembre 1996, quadriennio 1994-1997 per la parte normativa e primo biennio 1994 1995 per la parte economica, il c.c.n.l. del 5 dicembre 1996, relativo al II biennio economico 1996-1997, il c.c.n.l. 8 giugno 2000, quadriennio 1998 – 2001 per la parte normativa e I e II biennio parte economica).

20. L’art. 14 del medesimo c.c.n.l. del 2005, dopo avere ribadito, al comma 1, che: “i dirigenti assicurano la propria presenza in servizio ed il proprio tempo di lavoro, articolando, con le procedure individuate dall’art. 6, comma 1 lett. B), in modo flessibile l’impegno di servizio per correlarlo alle esigenze della struttura cui sono preposti ed all’espletamento dell’incarico affidato, in relazione agli obiettivi e programmi da realizzare”, ha precisato che: (i) “i volumi prestazionali richiesti all’equipe ed i relativi tempi di attesa massimi per la fruizione delle prestazioni stesse vengono definiti con le procedure dell’art. 65, comma 6 del c.c.n.l. 5 dicembre 1996 nell’assegnazione degli obiettivi annuali ai dirigenti di ciascuna unità operativa, stabilendo la previsione oraria per la realizzazione di detti programmi”; (ii) “l’impegno di servizio necessario per il raggiungimento degli obiettivi prestazionali eccedenti l’orario dovuto di cui al comma 2 è negoziato con le procedure e per gli effetti dell’art. 65, comma 6 citato. In tale ambito vengono individuati anche gli strumenti orientati a ridurre le liste di attesa”, prevedendo, al secondo comma, che: “L’orario di lavoro dei dirigenti di cui al comma 1 è confermato in 38 ore settimanali, al fine di assicurare il mantenimento del livello di efficienza raggiunto dai servizi sanitari e per favorire lo svolgimento delle attività gestionali e/o professionali, correlate all’incarico affidato e conseguente agli obiettivi di budget negoziati a livello aziendale, nonché quelle di didattica, ricerca ed aggiornamento”, ed al sesto comma che: “Ove per il raggiungimento degli obiettivi prestazionali eccedenti quelli negoziati ai sensi dei commi 1 e 5, sia necessario un impegno aggiuntivo, l’azienda, sulla base delle linee di indirizzo regionali di cui all’art. 9, comma 1, lettera g) ed ove ne ricorrano i requisiti e le condizioni, può concordare con l’equipe interessata l’applicazione dell’istituto previsto dall’art. 55, comma 2 del c.c.n.l. 8 giugno 2000 in base al regolamento adottato con le procedure dell’art. 4, comma 2, lett. G)”.

21. L’interpretazione della contrattazione collettiva offre, dunque, una ricostruzione complessiva del sistema retributivo scelto per compensare l’attività dei dirigenti medici, anche non apicali (v. Cass. 4 giugno 2012, n. 8958; Cass. 16 ottobre 2015, n. 21010), che depone in senso univoco per la non configurabilità del lavoro eccedentario da parte di tutti i dirigenti medici, in ragione della sussistenza di un regime orario flessibile delle loro prestazioni e di un sistema di retribuzione incentivante basato sulla valorizzazione degli obiettivi perseguiti, anziché sul computo del tempo impiegato per lo svolgimento delle prestazioni lavorative.

22. Soprattutto dal citato art. 14 del c.c.n.l. del 2005, che si occupa proprio dell’organizzazione dei turni di lavoro, si evince che questa disposizione non ha alcun legame con il diritto alla retribuzione del medico, la quale è stabilita, invece, su base mensile e in misura omnicomprensiva di tutte le prestazioni dal medesimo rese, conformemente al disposto dell’art. 24, comma 3, del D.Lgs. n. 165 del 2001, per il quale “Il trattamento economico determinato ai sensi dei commi 1 e 2 remunera tutte le funzioni ed i compiti attribuiti ai dirigenti in base a quanto previsto dal presente decreto, nonché qualsiasi incarico ad essi conferito in ragione del loro ufficio o comunque conferito dall’amministrazione presso cui prestano servizio o su designazione della stessa…”.

23. Tale retribuzione non è computata, allora, ad ore e il suo ammontare nulla ha a che vedere con il tempo effettivo dedicato al lavoro, tanto che copre pure il periodo legittimamente non destinato all’esecuzione della prestazione in senso stretto.

24. Pertanto, se il dipendente ha fornito una prestazione almeno pari a quella prevista nel contratto, egli non può ottenere, a titolo retributivo, un importo maggiore di quello spettante contrattualmente.

25. In particolare, una simile richiesta non può essere ricollegata al superamento del limite, sopra indicato, di 38 ore che, in realtà, rappresenta non un massimo, ma un minimo prestazionale.

26. Orbene, da tali premesse di carattere generale e dalla formulazione della domanda come diretta a ottenere esclusivamente la corresponsione di differenze retributive collegate a “un indebito aumento della prestazione lavorativa” discende, come logica conseguenza, l’irrilevanza delle difese formulate dalle parti al fine di valutare se fosse stata fornita o meno la prova dell’entità delle prestazioni lavorative espletate in esubero, per effetto dell’erroneo calcolo delle giornate di assenza, rispetto al limite orario di 38 ore settimanali.

27. Nella specie la dirigente medica, che non è revocato in dubbio abbia assolto a pieno al debito orario contrattuale, sostiene di essere stato costretto, per attingere alla soglia delle 38 ore settimanali, a protrarre i tempi della sua prestazione di lavoro a causa dell’erroneo conteggio del debito orario giornaliero per le assenze.

28. Quindi il problema non è il superamento delle 38 ore ma il numero di ore in più svolte per raggiungere tale soglia, al fine di godere di riposi, ferie etc.

29. Ed allora la stessa prospettazione della domanda come intesa ad ottenere l’esatto adempimento è infondata sol che si consideri che, come è pacifico, per le 38 ore contrattualmente previste, la controprestazione è regolarmente avvenuta.

30. Il problema potrebbe allora spostarsi dall’ambito del rapporto prestazione/controprestazione a quello, diverso, del mancato riposo nei periodi che hanno erroneamente concorso al raggiungimento della suddetta soglia oraria: in altre parole, per periodi che non erano necessari alla prestazione del medico – intesa come insieme di debito orario e di risultati – che dunque poteva riposare e non lo ha fatto, perché la ASL gli ha imposto erroneamente il lavoro al fine di raggiungere la soglia oraria minima di cui al c.c.n.l.

31. Tuttavia, la domanda proposta è quella di esatto adempimento e tale domanda non può condurre a ottenere nulla più che l’esatto adempimento della prestazione dovuta, ossia il pagamento della retribuzione mensile stabilita dalla contrattazione collettiva e, nella specie, pacificamente corrisposta.

32. Nella prospettazione della dirigente medica non si rinviene, invece, l’allegazione di altre circostanze di fatto – come, ad es., la mancata concessione di riposi giornalieri, settimanali o compensativi e/o l’insorgenza di situazioni di stress e usura psicofisica legate a tempi prolungati della prestazione – che, in ipotesi, avrebbero potuto consentire al giudice del merito, nell’esercizio dei poteri di qualificazione della domanda a lui attribuiti, l’apprezzamento in ordine a diverse forme di tutela. L’ordinamento non è in sé privo di rimedi di efficacia dissuasiva, pur nella varia modulazione dei relativi regimi.

33. Neppure vengono in rilievo una superfluità delle ore svolte in più rispetto al raggiungimento dei risultati propri del medico o una questione di superamento dei limiti di tollerabilità oraria del lavoro, per la quale, in termini generali, non sono esclusi la responsabilità datoriale e gli effetti dissuasivi ad essa riconnessi, rispetto ai comportamenti illeciti in tal senso, sia in relazione al superamento di specifici limiti (Cass. n. 173/2023, cit.; Cass. 16855/2020, cit.; Cass. 10 maggio 2019, n. 12538, con riferimento agli straordinari; in riferimento ai riposi: Cass. 14 luglio 2015, n. 14710; Cass. 20 agosto 2004, n. 16398, con danno ritenuto in re ipsa per la corrispondente violazione), sia allorquando le prestazioni richieste o accettate dovessero risultare esorbitanti, per la misura del lavoro e l’inadeguatezza dei mezzi predisposti, rispetto alla normalità e dovessero illegittimamente sacrificare l’integrità psico-fisica o la personalità morale del dipendente, in violazione dell’art. 2087 cod. civ., quale espressione, ora, dei corrispondenti diritti costituzionalmente garantiti alla salute (art. 32) ed alla dignità del lavoro (artt. 2 e 35).

34. Queste ipotesi, tuttavia, in alcun modo si identificano con l’azione qui dispiegata e finalizzata solo al pagamento delle “differenze retributive” per le asserite prestazioni rese in esubero rispetto all’orario contrattuale (circostanza smentita dall’avvenuto pagamento delle prestazioni corrispondenti alle 38 ore settimanali), né (tali ipotesi) potrebbero in ogni caso dirsi integrate dal mero svolgimento di un numero più elevato di ore di lavoro (v. Cass. n. 7921/2017, cit.).

35. Per le considerazioni sopra esposte deve ritenersi l’infondatezza – in parte qua- del primo motivo di ricorso.

36. Nella parte restante il motivo di ricorso è inammissibile, in quanto: a) in parte si risolve nella censura relativa all’omesso apprezzamento della prova dell’indebito aumento della prestazione lavorativa in relazione alla attribuzione della durata figurativa di 6 ore alle assenze per ferie, permessi ed altre assenze giustificate, con particolare riferimento alla concludenza dei fogli presenza depositati in allegato al ricorso introduttivo; censura riservata al giudice del merito in quanto afferente alla valutazione di prove non legali secondo il suo prudente apprezzamento, ex art.116 comma primo cod. proc. civ.; b) la asserita contraddittorietà, illogicità e carenza di motivazione non rientra (più) tra i motivi di critica vincolata previsti dall’art.360 comma primo cod. proc. civ., fatta eccezione per la violazione del c.d. minimo costituzionale della motivazione che però nel caso in esame non è stato dedotto nei limiti della autosufficienza del ricorso; c) la asserita violazione del principio di non contestazione difetta di specificità e non appare conforme al principio di autosufficienza in quanto -in disparte dalla insussistenza della violazione- nel motivo di ricorso non vengono trascritti gli atti di parte e la motivazione della sentenza impugnata nelle parti necessarie per apprezzare la sussistenza del vizio lamentato.

37. Il secondo motivo di ricorso è inammissibile perché non si confronta con la ratio decidendi della sentenza impugnata, che ha rigettato la domanda della odierna ricorrente ritenendo la insussistenza del diritto in punto an debeatur, ossia del presupposto logico-giuridico della quantificazione del credito, che forma oggetto del motivo in parola.

38. Il ricorso deve pertanto essere rigettato, in applicazione del seguente principio di diritto:

“Il dirigente medico che eserciti un’azione di esatto adempimento non può ottenere nulla più della retribuzione mensile a lui spettante, la quale è stabilita, su base mensile e non oraria, in misura omnicomprensiva di tutte le prestazioni dal medesimo rese, senza che il suo ammontare abbia nulla a che vedere con il tempo effettivo dedicato al lavoro. In particolare, egli non ha diritto ad essere compensato per il lavoro eccedente rispetto all’orario indicato dalla contrattazione collettiva, pure se esso sia dipeso dall’erroneo criterio di calcolo adottato dall’ASL per determinare il debito orario minimo assolto; in tale evenienza, potrà eventualmente far valere la responsabilità datoriale a titolo risarcitorio, ove abbia patito un pregiudizio concreto alla salute, alla personalità morale o al riposo, che dovrà specificamente allegare e provare, anche attraverso presunzioni semplici”.

39. Per la novità e peculiarità della questione, oggetto peraltro di giudizi con alterni esiti dinanzi ai giudici del merito, stimasi equo compensare interamente le spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e compensa interamente fra le parti le spese del giudizio di legittimità.Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio della Corte di cassazione, Sezione Lavoro, il 2 luglio 2024.

Depositata in Cancelleria il 31 luglio 2024.

Allegati

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